mercoledì 30 maggio 2007

Fior di Giaggiolo...




FIOR DI GIAGGIOLO....

di Laura Tavanti




Sono rientrata oggi dalla mia bella Toscana. Le sue dolci colline sono tinte in azzurro, lilla e viola. Nell’aria c’è un profumo intenso; nei piccoli campi sparsi tra vigne e oliveti, fioriscono i giaggioli o “iris”.
Un’antica leggenda ne racconta le origini: una bella madonna fiorentina, di nome Iride, promise il suo amore a un giovane pittore solo se fosse riuscito a dipingere un fiore così bello e benfatto da indurre una farfalla a posarsi sulla tela. Riuscì così bene al punto che il fiore diventò vero e fu chiamato iris.
Un Iris, e non un giglio, come spesso si crede, è il simbolo del gonfalone di Firenze: diventato rosso in campo bianco per volere dei Guelfi, nel 1266, ma all’inizio, quando al potere erano i Ghibellini, bianco in campo rosso.
Singolare coincidenza che ripete l’errore nella denominazione di un fiore tanto conosciuto anche in Francia. Il giglio di Francia, infatti, altro non è che un’iris.
Si racconta che Luigi VII, uscito vittorioso da una battaglia che si era svolta in un campo acquitrinoso pieno di fiori gialli (iris pseudacorus) . La notte dopo il combattimento aveva avuto in sogno l’ispirazione di fare di quel fiore il suo emblema. Quando l’iris comparve sullo stemma del re, i francesi lo chiamarono Fleur-de-Louis, alludendo al re., pronunciando velocemente, il nome si contrae e diventa fleur-de-Iys, cioè fiore di giglio.
Una credenza vuole che sia il profumo dei giaggioli a donare ai vini rossi quel leggero aroma di viola mammola; il segreto sta nei loro rizomi: i contadini toscani usavano mettere un pezzettino a macerare nel mosto.
Dai rizomi macinati se ne ricava una polvere finissima e odorosa, tuttora usata in profumeria: si dice che anche Venere se ne incipriasse il naso e Plinio il vecchio narra che le matrone romane l’apprezzavano per il candore che donava al viso.
Sicuramente la usarono Cleopatra e Lucrezia Borgia: genio del male o incolpevole vittima?
Di lei è certo che era colta, amante delle arti e appassionata di fiori e giardini.

Da La Voce del Giardino

Vita da blogger

Habanera


L' infallibile (?) contatore di ShinyStat mi comunica che i miei tre (+ uno) gatti iniziali stanno mettendo su famiglia.
In due settimane di vita il piccolo Nonblog ha raggiunto la ragguardevole media di nove (dico nove!) visite al giorno.
Un successo che va ben oltre le più ottimistiche previsioni da parte mia.
Gonfia di orgoglio, e di intima soddisfazione, mi chiedo: ma davvero c' è qualcuno che ogni giorno passa di qui e mi legge?
Forse dire "mi legge" non è l' espressione giusta, infatti non sono io che scrivo... lascio parlare gli altri.
E menomale - direte voi - lascia parlare gli altri, che è meglio!
E va be', smetto subito, ma ne avrei di cose da raccontarvi sul difficile mestiere di blogger.
Diciamo la verità, è un lavoraccio. Nel mio caso, ad esempio, forse si sottovaluta la ponderosa mole di lavoro che c'è dietro la paginetta che ora state guardando. Un continuo su e giù, da un blog all' altro, per scegliere le cose da pubblicare;
poi c'è la ricerca delle immagini che abbiano una qualche attinenza con l'argomento trattato. A volte, quando mi va bene, riporto pari pari anche la foto originaria. Ma se non c'è, oppure è troppo piccola, mi tocca rovistare tra le immagini fornite da Google per trovare qualcosa che vada bene e non sempre la ricerca dà il risultato che vorrei.
C'è poi, tra i tanti, anche il problema delle etichette dispettose. Ho pensato di creare una lista di Autori, ordinandola per numero di frequenze, e ad ogni post aggiungo coscienziosamente l' etichetta con il relativo nome.
Semplice, vero? Peccato che ogni tanto il numerino si blocca e hai voglia a pubblicare e ripubblicare lo stesso post (sempre aggiungendo la stramaledetta etichetta), il numerino non si schioda. Se ha deciso che vuole essere 1 quello resta, con tetragona convinzione.
Non è una vita da cani, intendiamoci, può anche essere piacevole e divertente. Però a volte è davvero una vita da... blogger.
H.

domenica 27 maggio 2007

Un grande critico musicale




Un grande critico musicale

di Giuliano



Rimpiango molto il mio vecchio caro gatto siamese, insieme abbiamo passato dei gran bei momenti, ascoltando musica e leggendo. Cioè, io leggevo e scrivevo; lui non so bene cosa facesse mentre ascoltava così intento e assorto Beethoven e Brahms, forse pensava, forse sognava di sue vite passate, chissà (forse perché era nato a Parma?) aveva precisi e raffinatissimi gusti musicali. Non ha mai amato il rock, e il suo interesse per il mio stereo era stato fin lì limitato al moscone che i Pink Floyd avevano messo su Ummagumma, ma solo per il tempo di capire che non era un moscone vero. Ma poi le cose erano cambiate, io avevo cominciato proprio in quegli anni ad ascoltare musica sinfonica e operistica, e quando la puntina scese per la prima volta su quel coro del Nabucco (il primo, “Gli arredi festivi”) il gatto stava facendo con grande piacere quello che quasi tutti i gatti di casa fanno: rincorreva senza sosta una cartina di caramella accartocciata. Durante il gioco, il gatto finì sul mio letto proprio mentre partiva il coro di Verdi: e il micio si fermò di colpo, rimanendo assolutamente immobile per tutta la durata del disco. Ricordo ancora mio padre incuriosito dal comportamento del gatto: avevamo provato a spostarlo con delicatezza, a toccarlo, a far scricchiolare la cartina, ma non c'era niente da fare; ed è da quel giorno che ho avuto il gatto siamese come compagno fedele d'ascolto. Quando trovava la porta della mia stanza chiusa, si metteva seduto con un'espressione così desolata che mia madre apriva e mi chiedeva se non avevo cuore a lasciarlo fuori così; e quando provavo a rimettere il rock il gatto se ne andava a dormire, ma in un'altra stanza, non prima di avermi lanciato un'occhiata di rimprovero e forse anche di disprezzo, perché per lui quella non era musica. Non amava neanche Stravinskij, “La sacre du Printemps” per lui era un'accozzaglia di suoni senza senso; e sicuramente avrebbe amato molto le sinfonie di Bruckner, ma a quell'epoca non lo avevo ancora scoperto (con gli lp da girare ogni venti minuti, ascoltare il fluviale Bruckner non era facile).
Ho detto che andava a dormire, perché da me non dormiva. Un gatto che dorme, si sa, è un gatto stravaccato o appallottolato; invece il mio amico in ascolto era sempre composto, si metteva comodo con le zampine sotto il corpo, in posa quasi da sfinge, immobile e con gli occhi chiusi, ma con le orecchie ben tese e attente, sistemate nella posizione migliore per percepire nel modo migliore il suono che usciva dalle casse dello stereo. E, quando il disco finiva, usciva dal suo samadhi; apriva gli occhi, consentiva ad essere spostato e mi permetteva (mi spingeva?) di alzarmi per cambiare il disco, operazione che oggi con i CD sarebbe evitabile. Dopodiché, tornava nella sua posizione preferita (addosso a me, naturalmente: chi conosce i gatti sa cosa intendo) e riprendeva l'ascolto. Non per questo cessò di inseguire le carte di caramella, o di arrampicarsi sugli alberi quando poteva scendere in giardino: in fin dei conti, era pur sempre un gatto e, si sa, gatti si nasce e non si diventa.

Voglio fare l'attrice!



Voglio fare l'attrice!

di Anna Proclemer


Non ne avevo mai parlato con nessuno.
Mi tenevo dentro stretto stretto il mio segreto come un rospo poetico, una febbre felice, un tumore gioioso. Mi accorgo di avere scelto immagini macabre. Ma era davvero come una singolare malattia quella che mi sentivo addosso; niente di romantico, di aureolato, di vocazionale. Era una presenza concreta che sembrava essersi abbarbicata alle radici fisiche del mio essere. Ma forse le vocazioni autentiche sono proprio così.

Dovevo parlarne con i miei, ma non trovavo il coraggio di affrontare l’argomento. Aggirai l’ostacolo in modo curioso. Un giorno entrai in una specie di negozietto dall’ aria vagamente equivoca vicino a Piazza San Silvestro. Per poche lire si poteva incidere la propria voce su un piccolo disco che ti consegnavano subito. Sotto gli sguardi esterrefatti dei due commessi, abituati evidentemente a exploit di tutt’altro genere, incisi a memoria il finale di Zio Vania e una lunga battuta dell’Ivanov, sempre di Cecov. L’incisione era approssimativa, un po’ frusciante, ma passabile. A casa dissi a mio padre e a mia madre: “ Vediamo se riconoscete questa voce ” e misi su il disco.Mia madre disse subito “Ma questa è Tatiana Pavlova! Ah che attrice straordinaria! Me la ricordo in Mirra Efros. Al primo atto era alta, imponente. All’ultimo, quando resta sola, abbandonata da tutti, diventava piccola così!…” e con la mano indicava un’ altezza a pochi palmi da terra. Io conoscevo l’aneddoto a memoria, l’avevo sentito decine di volte perché faceva parte del “repertorio” di mia madre. “Ma no, su, ascolta bene” dissi con una certa insofferenza.” Ti dico che è la Pavlova!” Insisteva lei. (Mio padre stava zitto e secondo me aveva mangiato la foglia.) “E’ proprio la Pavlova! Ma che brava! Che brava!” ripeteva tutta infervorata.

“E allora ti dirò che non è la Pavlova! Sono io! E voglio fare l’ attrice!” gridai tutto d’un fiato.

Silenzio. Stupore, sbigottimento, indignazione , scandalo.

Mi venne sciorinato tutto l’elenco dei luoghi comuni borghesi sul teatro e gli attori: la vita incerta, disordinata, disagiata. E poi la corruzione, il “libero amore, come in quel paese russo che piace tanto a tuo padre”, le orge, i “paradisi artificiali della cocaina”, le attrici costrette a fare le “mantenute” per pagarsi le “toilettes”, la “débauche” come norma di vita…..(chissà perché nel vocabolario della moralità borghese le parole francesi sono inevitabili quando si tratta di definire la depravazione dei costumi).

Io ascoltavo chiedendomi oscuramente dove gli attori trovassero il tempo di studiare, provare, recitare, se erano sempre tanto impegnati a fare gli sporcaccioni.

Purtroppo non sapevo arginare con argomenti efficaci questo astioso fiume di fango che investiva oscenamente, senza tuttavia imbrattarla, la purezza delle mie aspirazioni. Stavo zitta, e odiavo. (Il risvolto patetico di tutta la storia è che i miei, e soprattutto mia madre, sono in seguito stati i miei più teneri, orgogliosi, compiaciuti ammiratori. Ma ci vuole altro per rimarginare certe ferite! Nel fondo del mio cuore non ho mai perdonato questo oltraggio alla mia innocenza.).

Il 10 giugno 1940 era scoppiata la guerra: Quella notte Muzio andò a scrivere W la Francia! sui muri di via Nazionale.

Nell’ autunno del 1941 mi iscrissi all’Università, facoltà di Lettere e Filosofia. Cominciai a frequentare qualche corso, ma ben presto seppi che all’Università funzionava un teatro abbastanza importante e che ad ogni inizio della stagione accademica vi si svolgevano delle “audizioni” per reclutare nuovi elementi.

Naturalmente mi presentai. Recitai l’ ultima battuta di Sonia, in Zio Vania, davanti a una giurìa prestigiosa, composta da Turi Vasile, Orazio Costa, Cesare Vico Lodovici, Enrico Fulchignoni. Mi accolsero a braccia aperte.

Dal sito di Anna Proclemer

sabato 26 maggio 2007

Piscinas – l'infanzia nella natura




Piscinas – l'infanzia nella natura

di Giorgio Casera


“Se si vuole ancora avere l'impressione grandiosa di ciò che doveva essere un tempo gran parte della costa occidentale sarda, bisogna raggiungere questa incantevole e selvaggia costa che si stende tra Capo Pecora e Capo Frasca. Qui il vento ha spinto poderosamente all'interno le dune marine per diverse centinaia di metri, modellando così un paesaggio incredibile di gialle sabbie interminabili, capace di evocare dappresso quello di un vero deserto. Vi si può arrivare attraverso la strada che da Montevecchio va a Marina di Arbus, oppure attraverso quella che da Ingurtosu discende a Piscinas…”
Così scrivevano Fulco Pratesi e Franco Tassi nella “Guida alla natura della Sardegna” stampato da Mondadori nel 1973, ed aggiungevano: “Purtroppo quest'area di aspetto quasi tropicale sta già subendo le prime gravi manomissioni. Sfregiata da una serie di strade, germina ora le consuete degradanti lottizzazioni… Ma questo è solo l'inizio. Tutto il resto è già confezionato, pubblicizzato con il neologistico appellativo di “Costa Verde”, pronto ad essere rivenduto senza scrupoli né rimorsi al miglior offerente”.

Quasi venticinque anni prima, quindi molto tempo prima dei turismi di massa e del fenomeno delle seconde case, la costa era frequentata da pochi pescatori di razze e gattucci (una specie di squaletto) e di arselle. Nell'immediato entroterra greggi di capre, com'è ancora oggi, con i loro pastori, e pochi orti coltivati. Più all'interno, a cinque – sei chilometri dal mare, erano situate le miniere, con i loro pozzi ed i paesi dei minatori. Tutt'intorno una rigogliosa macchia mediterranea.


La spiaggia di Piscinas veniva utilizzata dalle miniere come terminale per il trasporto del minerale nelle fonderie. Allo scopo una strada sterrata collegava le miniere al mare e sulla sabbia, di fronte al mare aperto, era stato costruito un pontile, in legno e ferro, che permetteva l'attracco dei velieri.

Siamo nei primi anni '50, il Paese si sta faticosamente risollevando dalle distruzioni della guerra, ma la vita è in generale dura. Lo è in particolare per i minatori e le loro famiglie. Per sollevare gli animi, anticipando quelli che in seguito si chiameranno “benefits aziendali”, la direzione della miniera fa costruire sulla spiaggia di Piscinas delle capanne che assegna alle famiglie per tutta l'estate. Le capanne sono formate da un telaio costituito da pali di legno (di pino marittimo) ed hanno per tetto e per pareti (anche interne) dei fasci di canne o di frasche raccolte lungo i rivi dei dintorni. Sono piantate nella sabbia, che costituisce quindi il pavimento, a 30 – 40 metri dal mare, e sono dunque destinate ad essere danneggiate o distrutte dalle violente mareggiate invernali. Ogni anno venivano però riparate o ricostruite per la gioia di chi vi avrebbe trascorso l'estate.
Alla fine di giugno, finite le scuole, uno stormo di ragazzi dai 5 ai 20 anni si trasferiva dunque al mare con viveri, reti e materassi. Ogni famiglia occupava una capanna di cui assumeva la gestione una sorella maggiore. Il papà restava al lavoro fino alle ferie (che prendeva in genere intorno a Ferragosto) e la mamma e i figli troppo piccoli con lui, ma la domenica (allora si lavorava anche al sabato) raggiungevano i figli al mare. In “dispensa” soprattutto cibi conservati (scatolette di carne o di sardine, marmellate etc) ma ogni giorno un furgone portava dal paese il pane, damigiane di acqua e latte, e altri viveri freschi.

Di fronte a noi avevamo il mare aperto, con una spiaggia di chilometri di sabbia pulita a disposizione; sui fianchi enormi dune di sabbia con le piante di ginepro sulla sommità come per ancorarle e proteggerle dal vento; alle spalle la macchia mediterranea fino al paese.
Le dune, che avrei ritrovato nei libri di scienze delle medie, costituivano un fenomeno quasi unico in Europa, in quanto grandi e... mobili!


Vivevamo come “selvaggi”: al mare dalla prima mattina per i bagni, per le lunghe passeggiate alla scoperta di quel mondo, per i giochi di gruppo. A metà giornata pranzo e riposo (per il solleone) e da metà pomeriggio ripresa della vita libera ancora al mare, a cercare conchiglie o pulci di mare da usare come esca per la più semplice pesca, o sulle dune seguendo le orme dei conigli, volpi e gatti selvatici tra i ginepri.

Alla sera, prima o dopo cena, tutti a vedere il tramonto, spettacolo di cui non ci si stancava mai, e poi ancora a giocare fino a che, esausti, non si andava a dormire in capanna.
A riprendere dall'indomani, in giorni sempre simili ma mai noiosi. Ogni tanto qualche diversivo: la gita ad uno stazzo per l'acquisto di latte o formaggio di capra, oppure ad un orto per comprare angurie o meloni, oppure ancora, in caso di necessità, a fare rifornimento d'acqua ad una sorgente non vicinissima e dal nome (per me allora) magico: Scioppadroxiu (letteralmente: acqua che prorompe).
Il clou dell'estate era il Ferragosto. Praticamente tutto il paese si spostava al mare e così le famiglie erano riunite per qualche giorno. Con l'occasione si svolgeva, al mare, la festività di S. Barbara, patrona dei minatori, con fuochi d'artificio, gare di tuffi, di nuoto e relativi premi, e con gli inevitabili pasti delle feste, con piatti speciali non di rado preparati in lunghe ore notturne dalle padrone di casa.
In quei giorni da ragazzino spensierato vedevo nel volto degli adulti crescere la speranza di un mondo e futuro migliore.
Alla fine di agosto il rientro a casa, non troppo melanconico: l'autunno si sarebbe prestato a scorribande nei boschi e nelle vigne e comunque l'anno prossimo ci si sarebbe ritrovati ancora al mare.

Cerco di tornare a Piscinas almeno una volta l'anno, anche solo per un giorno. Non c'è più il pontile, demolito negli anni dalle mareggiate; non c'è traccia delle capanne, anche i pali sono stati lentamente consumati dalla salsedine. Per fortuna gli obbrobri del turismo moderno sono distanti e nascosti alla vista.
Rimane la lunga, intatta, favolosa spiaggia, con le dune alle spalle e l'immenso mare di fronte. Così doveva essere duecento anni fa, prima che l'uomo cominciasse a sfruttare i giacimenti minerari vicini e ne intaccasse l'integrità. Cessata questa attività, la natura ha ripreso il sopravvento, ancora una volta.

Pubblicato anche su Arengario - I bei momenti

venerdì 25 maggio 2007

Risveglio domenicale




Risveglio domenicale

Massimo Marnetto


Ho comprato un elicriso, una pianta aromatica che cresce sulle dune di mare e profuma di liquirizia. Ho visto i suoi splendidi fiorellini gialli nello stand di una fiera dei fiori. Ero indeciso; mi piaceva molto anche una bellissima piantina di cappero. “Io glielo do il cappero – ha fatto il vivaista di Cava d’Aliga nel ragusano – ma questa è un’erba dispettosa come una femmina: cresce rigogliosa tra le pietre se la ignori; ma si rifiuta se uno la vizia con la terra buona e l’acqua”. Adesso che inizia a far caldo, la mattina quando mi sveglio molto prima degli altri, apro tutte le finestre per fare scorta di fresco e la domenica mi vado a bere il caffè in terrazzo. Quando ho svuotato la tazzina, passo la mano tra i rami della lavanda, poi strofino delicatamente la mentuccia per finire con una carezza all’elicriso. Quando annuso la mano, quel mix di odori mi scaraventa da un cortile romano alle dune del Mediterraneo, mentre le rondini rigano il silenzio della prima luce con voli chiassosi.

Su Stile libero

giovedì 24 maggio 2007

Il Sorpasso

Habanera


Con gli anni questo film, inizialmente snobbato dalla critica, è diventato un cult movie. Ma noi spettatori, in quel lontano 1962, sapevamo già che non lo avremmo dimenticato.
Due splendidi attori, Gassman e Trintignant, battute fulminanti, leggerezza e riflessione, commedia e critica di costume.
Erano gli anni spensierati e felici del boom ed io ero spensieratamente e felicemente giovane.
Troppo giovane per aver conosciuto la guerra e il dolore, ignara di quello che mi avrebbe riservato la vita, lontanissima ancora dall' impegno e dal dolce furore che avrebbe coinvolto la mia generazione in quello che sarebbe poi stato ricordato come "Il sessantotto".

Eravamo idealisti e sereni, riflessivi ed attenti, aperti ad ogni stimolo nuovo, protagonisti senza saperlo dei mitici anni sessanta. Leggevamo Il Gattopardo e L'antologia di Spoon River, ascoltavamo Jacques Brel e Luigi Tenco, ballavamo il twist e l'hully-gully, eravamo felici.

Questo film ha segnato una svolta nella storia della commedia all' italiana perchè, per la prima volta, ha seminato il dubbio. Cito dal Morandini:
“Il gran merito del film è non solo di aver così bene isolato e descritto quel personaggio emblematico, ma anche di averlo giudicato, con la catastrofe finale frutto della sua incoscienza; di avere insomma insinuato qualche dubbio, qualche dubbio di inquietudine nel tempo delle vacche apparentemente grasse...” M. D'Amico.


Il protagonista principale del film, Bruno Cortona (uno splendido Gassman!), è un tipo esuberante, irresponsabile fino al limite dell' incoscienza, apparentemente fin troppo sicuro di sè. In realtà è un quarantenne immaturo, sostanzialmente un perdente, ossessionato dalla furia di vivere e dal timore della vecchiaia. Il giorno di Ferragosto, in cerca di sigarette e di un telefono, in una Roma deserta, incontra casualmente Roberto (Jean-Louis Trintignant) uno studente timido e serio, tanto serio da sembrare quasi imbranato, e lo convince a partire con lui. Inizia una folle corsa lungo le strade della Versilia sulla rombante Lancia Aurelia Sport su cui Bruno si sente potente e invincibile e nell' arco di poche ore succedono molte cose. Roberto, che all' inizio sembra piuttosto riluttante, si lascia pian piano prendere dall' entusiasmo, si scioglie, si lascia coinvolgere, non teme più l' eccessiva velocità, condivide l'allegra, spericolata esultanza del suo compagno di viaggio. E quando sta per abbandonare tutte le sue convinzioni di bravo ragazzo, per abbracciare un modo diverso e apparentemente più entusiasmante di vedere la vita, ecco il finale drammatico e inaspettato: durante l' ennesimo, azzardato sorpasso, la macchina va fuori strada e Roberto muore.
Bruno no, se la caverà, ma anche per lui niente sarà ormai come prima.


Ripensando a questo film, con l' esperienza di oggi, ho come l' impressione di una premonizione e forse lo era. Appena qualche anno dopo ci sarebbe stata la strage di Piazza Fontana, il delitto Calabresi e via via, in un crescendo mostruoso, il sangue, il terrore, il dolore dei terribili anni 70, gli anni di piombo.
La nostra innocente spensieratezza degli anni 60 era ormai svanita per sempre ma il ricordo di quegli anni felici rimane, indelebile, come il ricordo di questo bellissimo film.


Anche su Abbracci e Pop Corn

Tra i sussurri della vita




Tra i sussurri della vita

di Clelia Mazzini


227. Ho deciso di venire ad abitare in questa casa lontana dal mondo per ascoltare fino in fondo tutti i vari "sussurri della vita", come li chiamava lucidamente M.
Così facendo, magari, mi scorderò di invecchiare, sicuramente non mi dimenticherò di vivere.

228. Angolo cechoviano disseppellito da una sognatrice? Può darsi, però non trasognata. Non ho mai provato rimpianti o desiderio di ritorno a una "patria perduta". Quando accadde di trasferirmi qui non fu altro che un'ispirazione che non mi sentii di reprimere, una specie di trasporto per un luogo fatto di cieli spalancati e di una bellezza sonnambolica, per una terra che conserva intatta la memoria dei popoli spietati che l'hanno attraversata e saccheggiata. Una terra che pure ha rimarginato quelle ferite, ammantandole con una vegetazione a tratti tanto fitta da risultare impenetrabile.
Perdersi qui non è impossibile, come pure ritrovarsi.

218. Stamane il cuculo ha cantato sulle cime del bosco di querce. Saranno state le otto; mi ha svegliata, mi sono riaddormentata felice. Lo aspettavo da qualche giorno e temevo che quest'anno mancasse l'appuntamento. E invece no, eccolo qua. Il caldo anomalo, al contrario, deve aver disorientato le salamandre. Gli anni scorsi avevo gli angoli dei giardini pieni di quegli strani esseri lucidi, goffi, lenti e pigri. Per fortuna le prime rane (o i rospi?), sia pur timidamente, hanno cominciato a "sussurrare" sul canaletto del rio.
Quest'anno la fermata invernale non è stata lunga, anzi, si potrebbe dire che quasi non c'è stata proprio, e quindi anche gli animali (compresi i miei cani e i miei gatti) sembra che fatichino non poco ad ambientarsi di fronte ad un'estate che appare quasi conclamata.
Non sono molti giorni che l'usignolo ha cominciato con le sue armonie funamboliche che accompagnano il mio assopirmi quand'è quasi mattino. La sua sarà una stagione lunga di bel canto, fortuna che non soffro di sonno leggero, altrimenti dovrei munirmi di tappi di cera...
Le prime nidiate di merli sono già schiuse, ne ho vista una, ieri, annunciata da una madre iperprotettiva che chiocciolava qualcosa, vai a sapere all'indirizzo di chi.
Mi sono accorta che gli usignoli amano fare i nidi in posti molto bassi, spesso proprio sul terreno. Considerano molto difesi quegli spazi tranquilli e quieti, inaccessibili o spinosi come i roveti densi o i boschi aggrovigliati e fitti di robinie e bambù. Qui hanno trovato sempre un terreno molto fertile, il roveto è proprio a bordo rio, e questo è una gioia per loro che sembra amino così tanto aver vicino un corso d'acqua. Non so se siano sempre gli stessi, però di anno in anno ritornano nei loro nidi e io sto bene attenta a che questo accada.
(I giardinieri mi guardano di sbieco quando vengono a rassettare i giardini. Lo so, sono dei perfezionisti, e io li chiamo per questo, però devono stare attenti ai nidi dei miei usignoli. Con quale canto migliore di questo, altrimenti, potrei mai addormentarmi?).

172. Associo spesso il leggere al passeggiare, nel senso che sovente pratico contemporaneamente entrambi. Credo che le due cose si somiglino molto, nel senso che se si vuole leggere o passeggiare felicemente non si può partire sapendo già dove si arriverà o che cosa si potrà vedere lungo il percorso. Bisogna essere capaci di lasciarsi andare, di guardare ogni cosa come va guardata, secondo la sua natura.
Non c'è cosa contraria al cammino o alla lettura come il presupposto.


Da Akatalepsia

lunedì 21 maggio 2007

Quel che solo un romanzo può dire...




Quel che solo un romanzo può dire...

di Gabriella Alù




Ci sono, a casa mia, libri che non riescono mai ad ottenere una fissa dimora. Non stanno mai fermi. Non sonnecchiano quieti sugli scaffali come tutti i loro compagni dabbene, ma li si ritrova oggi qui e domani là. Su un tavolinetto vicino a un divano e una tenda oppure sul comodino o accanto a una pianta di fiori.

Sono i libri che anche se non rileggo spesso, voglio siano sempre presenti ed ad immediata portata di mano e di occhio. Per questo la mia casa ha sempre un aspetto così disordinato.

Tra i libri senza fissa dimora ci sono quelli di Milan Kundera.

Non sono mai riuscita a decidere se mi piace di più il Kundera narratore o il Kundera saggista. Forse perchè quest'autore (che per quanto mi riguarda si strameriterebbe un Nobel) riesce nella difficile impresa di scrivere romanzi che mi fanno riflettere molto e saggi dei quali alla prima lettura volto le pagine con avida curiosità, con quel piacere del "tuffarsi in una fornace" di cui parlava Tomasi di Lampedusa.
Perchè Kundera scrive i suoi saggi con un linguaggio piano e comprensibile, rifugge da qualsiasi accademicismo, non enuncia teorie, non emette proclami, non adopera tutti quegli astrusi quanto inutili e dunque irritanti paroloni che fin troppo spesso ammorbano i libri di saggistica. Kundera sa bene che per essere profondi non occorre (anzi spesso è controproducente) mostrarsi pomposi e paludati. Ma forse, presa dall'entusiasmo, sto divagando.

Dunque. Ho appena terminato "Il Sipario". Quando avevo cominciato a leggerlo avevo pensato che poi ne avrei forse scritto qualcosa. Ma dopo appena poche pagine mi sono resa conto che non è possibile parlare de "Il Sipario" senza fare riferimento anche alle altre due precedenti raccolte di saggi e cioè "L'arte del romanzo" e "I testamenti traditi". Ne "Il Sipario" infatti Kundera riprende, come se non l'avesse mai interrotta, la sua riflessione sviluppando temi già affrontati con quei precedenti libri.

"L'arte del romanzo", pubblicato da Adelphi nel 1988 è costituito da sette testi indipendenti ma collegati tra loro. In esso, Kundera parla del romanzo, o meglio, dell'"arte del romanzo". Il ragionamento prosegue nel bellissimo "I testamenti traditi" nel quale lo scrittore praghese -- figlio di padre musicista e musicista egli stesso -- intreccia analisi del romanzo e riflessioni musicologiche con bellissimi parallelismi tra architettura di un romanzo e singoli capitoli di esso con le partiture musicali. Vi si trovano pagine illuminanti su musica e letteratura (penso ad esempio a quelle su Janacek o gli ultimi Quartetti o la Sonata 111 di Beethoven). Libro che forse può risultare un po' ostico per chi non abbia molta dimestichezza con la musica classica oppure non la ama, "I testamenti traditi" è secondo me profondo e affascinante.

Ne "Il Sipario" Kundera riprende tutto questo e torna a parlare del romanzo come "sfera privilegiata dell'analisi, della lucidità, dell'ironia". Perchè, egli dice, "le arti non sono tutte uguali: ognuna accede al mondo attraverso una porta diversa. Una di queste porte è riservata esclusivamente al romanzo" e aggiunge --- citando un frase di Herman Broch che è uno dei leit motiv delle sue riflessioni --- "ci sono cose che solo il romanzo può dire".

Il romanzo ha dunque una sua specificità. Considerarlo un "genere letterario" sarebbe troppo semplicistico. Esso possiede una sua genesi, una sua storia, una sua morale (e qui di nuovo Kundera si rifà a Broch secondo il quale "la sola morale del romanzo è la conoscenza"), un suo tempo di creazione e, a differenza ad esempio della poesia, è in grado di travalicare le barriere della lingua nazionale perchè è traducibile.

Proprio perchè il romanzo è un'arte autonoma, la sua evoluzione si deve leggere non nel piccolo contesto della storia nazionale di questo o quell'altro paese ma nel grande contesto della storia sovranazionale (la Weltliterature di cui parla Goethe). Solo il grande contesto della Weltliterature è capace infatti di mostrare il valore estetico del romanzo mentre il rifiuto di considerare la propria cultura nel grande contesto condanna al provincialismo.

Solo leggendo in quest'ottica la storia del romanzo si può vedere e capire come "Sterne reagisce a Rabelais e ispira Diderot, Fielding si misura con Stendhal, la tradizione di Flaubert prosegue nell'opera di Joyce ed è nella sua riflessione su Joyce che Broch sviluppa una poetica del romanzo" (dal risvolto di copertina).

Tornano ancora una volta in questo libro anche gli autori più amati da Kundera. Cervantes, certo, ma soprattutto quelli che lui definisce la sua "grande Pleiade": Musil, Kafka, Broch, Gombrowicz. Sono tutti autori dell'Europa centrale (Kundera non condivide il termine "mitteleuropeo", che infatti non adopera mai). Sono gli autori che hanno introdotto nell'estetica del romanzo moderno quella che egli chiama "la riflessione romanzesca" che è afilosofica, non giudicante, che non proclama verità ma al contrario "si interroga, si stupisce, sonda". Sono autori di "romanzi che pensano".

Perchè il romanzo possiede una sua saggezza: "la saggezza dell'incertezza" che esprime la difficoltà -- aveva scritto già nel "L'arte del romanzo" -- di accettare e sopportare "la sostanziale relatività delle cose umane".

L'arte, per Kundera, è dunque conoscenza, scoperta, invenzione. Altrimenti -- aggiungerei io -- non è che ripetizione, routine, mestiere.

E chiudo qui, che' m'è venuta voglia di andarmi a leggere un bel romanzo...

Da NonSoloProust

domenica 20 maggio 2007

Nissim de Camondo



Nissim de Camondo

di Solimano


La prima volta che vai in un posto finisce sempre che vedi quello che devi vedere, obbligato, che tu lo voglia o no, dalle informazioni delle guide e dalle chiacchiere di chi c’è già stato. La seconda volta è meglio, perché torni a vedere quello che hai già visto in modo più consapevole e mirato, ma soprattutto perché sei tu a scegliere fra le altre cose che ti attendono. Così successe a Parigi a mia moglie e a me, la mattina che andammo al Museo Nissim de Camondo, che è vicino al Parc Monceau, la vera meta che ci eravamo proposti. “Già che andiamo lì, vediamoci anche questo museo di mobili”, pensavo, piuttosto riduttivo: la mia incompetenza era grande quanto il mio tollerante disdegno. Scoprimmo che il Nissim de Camondo è anche un museo di mobili, ma è soprattutto una casa che è stata abitata per decenni. Solo che in questa casa tutto, proprio tutto, è del ‘700: le posate e le stoviglie, i libri e i quadri, le porcellane, gli orologi, le oreficerie, oltre naturalmente ai mobili di ogni tipo: per il salone grande, le sale più piccole, le camere da letto ed i locali di servizio.


Di una casa ancora abitata ha l’aspetto e l’odore, probabilmente derivante dai tappeti, dalle tende, dagli arazzi, dai paraventi e parafuoco. Un odore di intimità confortevole, ma anche di sfarzo quotidiano, ci si aspetta di incontrare in un corridoio il padrone di casa - non il Camondo, ma l’uomo del ‘700 che non è mai esistito, visto che l’hotel particulier è stato edificato dall’architetto Sergent fra il 1911 ed il 1914. Quindi, in quella casa finta - che però esiste - sono affluiti tanti oggetti veri provenienti da case che probabilmente non ci sono più, e i legni, i libri, i tessuti - ma non solo - si sono portati dietro il loro odore particolare fondendolo infine nell’odore del Nissim de Camondo. I visitatori erano pochissimi, ogni pezzo era corredato da una piccola spiega che notavi solo se la cercavi: il risultato fu che ci stemmo due ore e pian piano mi sentivo come un uomo del ‘700, chissà perché bardato in un modo cosi sconveniente. Forse è nata lì, al Camondo, la mia passione per il ‘700: letture, musiche, quadri, modo di ragionare e di scrivere, persino cinema - per me il Barry Lyndon di Kubrick è uno dei più bei film, anche il Casanova di Federico Fellini. In qualche bacheca non vistosa c’erano le fotografie dei membri della famiglia Camondo, ma non ci badai, quasi distolsi lo sguardo verso i tanti capolavori di ogni genere, perché il Camondo non è solo coerente, né solo alto antiquariato, è stato costruito sotto la guida di grandi critici d’arte, lo si capisce oggi anche visitando il magnifico sito del museo.


Il non aver guardato le fotografie mi dispiacque all’uscita, quando lessi con attenzione ciò che era scritto sulla grande lapide fuori dal palazzo. Nissim de Camondo non ci ha mai abitato: morì, giovane pilota d’aereo, nel 1917, durante la prima guerra mondiale. E’ stato suo padre, Moise de Camondo, morto nel 1935, a volere che la sua casa divenisse proprietà pubblica col nome del figlio. C’era anche una figlia, Béatrice, esperta cavallerizza - tutti i giorni al Bois de Boulogne - che sposò Leon Reinach, ed ebbero due figli, Fanny e Bertrand, dopo il 1920. Tutti e quattro morirono durante la seconda guerra mondiale, ad Auschwitz. Così la famiglia Camondo si estinse. Quei pochi minuti di lettura fecero in modo che l’uomo del ‘700 che era in me ripiombasse nel ‘900, il secolo breve e crudele. Pian piano la passeggiata nel meraviglioso Parc Monceau mi tranquillizzò, ed è a questo giardino che la mia mente torna più volentieri oggi, anche perché lo collega, non so se a torto o a ragione, a un piccolo film del mio amato Rohmer, Les rendez-vous de Paris, ed ad un suo film ancora più piccolo, La boulangère de Monceau, che dura solo venti minuti.


sabato 19 maggio 2007

Meglio uscire stasera?




Meglio uscire stasera?

di Emilio Gauna




Autunno
Ah no, non è una favola,
non è una storia vera,
accendo il televisore
vedo che c'è stasera.
Seduto sotto al tavolo
con la tv che è accesa
in mano il telecomando
ben mi preparo all'impresa.
Bordate di noia m'assalgono
magnifiche donne m'insidiano
giovani spledide femmine
s'alternano a note di spesa -
di cosa parlan, che dicono?
Che nebbia che c'è stasera...

Inverno
Spesso d'inverno nevica
nevica anche stasera
guardo la neve scendere
non uscirò stasera.
È un mondo di imenotteri
rinchiusi in case di cera
ma la mia antenna galattica
tutto mi porta in casa.
Si accenderà un dibattito
o almeno così si spera
forse qualcosa di futile
forse l'Europa intera -
ma no, non è possibile,
nevica e la neve è nera...

Primavera
E per l'ennesima volta
gioca la Juve stasera.
Molto l'ho vista vincere:
cosa farà stasera?
La luna che sorge limpida
m'invita a una quiete serena
e mio malgrado spengo,
che voglio uscire stasera
che ne ho abbastanza di vincere
che non m'importa di perdere
che voglio uscire stasera.
Se proprio mi devo struggere
voglio che sia Primavera.

Estate
Un'onda un'onda un'onda
un'onda che mi aggredisce
io mi difendo e spengo
l'onda torna a colpire.
Il video è spento
ma io l'incoraggio
io l'incoraggio ad uscire.
Il suo messaggio subdolo
la testa mi vuole invadere
forse mi aiuta a vivere
forse mi vuole spremere.
In fondo però è anche semplice
spengo e poi vado a dormire.
Ma l'indomani scopro
scopro con poco stupore
che il mostro subdolo e sadico
riempie le menti e il cuore
le sue parole suonano
penetrano in ogni dove.

Sono l'unico uomo al mondo
che non è mai apparso in televisione:
e so che in fin dei conti, in fondo,
son di una razza che è in via d'estinzione.
Sono un fenomeno, e mi nascondo:
mi celo alla vostra curiosa attenzione
e non partecipo ai riti del mondo
me ne sto zitto in contemplazione
dell'unico angolo del nostro mondo
che non si è visto in televisione.
Quando mi estinguo vi faccio sapere,
che non lo so fino a quando resisto;
lo griderò forte, e sarò convinto:
anch'io m'affaccio a quel vostro balcone.
(01.04.2002)

Da Golem l'Indispensabile

Diari




Diari

di Clelia Mazzini


Sono una "diarista" convinta (e questo blog ne è in qualche modo testimone). Amo anche (e soprattutto) i diari degli altri, perché mi danno l'impressione di entrare nella loro psicologia, di comprendere a fondo quello che in altre letture resta solo in superficie. Il diario che mi ha affascinato più di tutti è quello di André Gide, perché è la storia di uno spirito inquieto, ma anche la lezione di un maestro del gusto.
Forse nella letteratura italiana non abbiamo una grande tradizione diaristica. Se guardo all'800 penso a Niccolò Tommaseo, al suo "pecco, mi pento, ripecco". Il suo è un buon diario, non costruito "ad arte". Quello di Leopardi non si può definire "strictu sensu" un diario; troppo composito, poco incline al biografismo sincero (che invece è assai più deducibile dal suo epistolario). Per quanto riguarda il '900, invece, mi sono piaciuti molto i diari "morali" di Corrado Alvaro, scrittore che credo abbia scritto proprio fra quelle pagine le sue cose migliori. E poi c'è Tommaso Landolfi (ancora lui): i suoi diari sono solo in apparenza lavori "letterari", in realtà non fanno altro che denunciare una tragedia. Anche D'Annunzio (autore che non sta di solito in cima ai miei pensieri) ha scritto buone pagine di journal, a volte mi diletto a leggerle, anche con passione.

Ho visto il Nulla, e questo Nulla mi ha spinta a convincermi che molto (se non tutto) dipende da noi. Non siamo semplicemente "portati" dalla corrente di un fiume. Noi abbiamo in mano il timone e, se vogliamo usarlo, nessuno può impedirci di farlo.
Il vero diarista è colui che si trova in un'ansa del fiume, vede passare la grande corrente e prende nota. A me piace osservare in silenzio, ma descrivere con parole. Che siano scritte e non pronunciate vuol dire poco. Quel che conta è esprimersi. Penso in questo senso a Henri Frédéric Amiel che non ha fatto altro che dialogare con se stesso, nel suo intimo.

Nutro un certo disincanto per la frenesia dei giorni. Ripeto: non siamo portati, ma scegliamo di navigare. Quando sono sul punto di coricarmi mi capita spesso di ripensare alle mie stanze piene di libri, e mi chiedo che cosa dicono, che cosa resterà di tanta festa dell'ingegno. Accetto con tranquillità la possibilità che tutto questo possa un giorno scomparire. Di sicuro lo farà quando morirò, ma questo mi lascia del tutto indifferente. Peggio sarebbe se accadesse per i libri - e in vita - ciò che accade per certi amori, quando col passare del tempo non si ricorda più nulla, né il volto né il nome.
Scrivere dei libri nel mio diario (anche in questo diario) mi aiuta a non dover un giorno rimpiangere di aver dissipato, per distrazione, il mio vero patrimonio.
Qualcuno ha scritto che alla fine resta solo il bene che uno può fare.
Ecco, in questo senso io sento di averlo fatto.

Da Akatalepsia

venerdì 18 maggio 2007

Torrechiara




Torrechiara, vicino a Parma

a cura di Primo Casalini


Nei pomeriggi estivi, a Parma, erano tanti i ragazzi che andavano a farsi un giro lungo in bicicletta, specie i ragazzi di Parma Vecchia, la parte della città a sinistra del corso del torrente, la zona più popolare, detta anche l'Oltretorrente. C'erano i più sportivi, gli aspiranti cicloturisti, che alla domenica partecipavano alle gare in cui esordivano allora due ragazzi diventati poi famosi: Vittorio Adorni e Romano Prodi (che però era reggiano). Questi arrivavano fino al passo della Cisa o a quello del Cerreto. Poi, c'erano gli altri, i meno sportivi, quelli che si contentavano di arrivare a Langhirano, a Fornovo, a Traversetolo, per poi tornare a casa: 50 chilometri in totale, non di più.
Fu così che scopersi il castello di Torrechiara, che è a 18 chilometri da Parma e 4 chilometri prima di Langhirano, proprio dove finisce la pianura, sulla prima collina appenninica. Non mi ha mai dato, sin dal primo momento, una impressione aspra e militaresca, semmai avventurosa e fiabesca. Il perché l'ho capito diversi anni dopo. Mi sforzavo, appena giunto sotto il castello, di salire in bici il più possibile senza mettere il piede a terra lungo la strada di accesso sterrata, breve ma ripida, e la mia prima bicicletta non aveva il cambio: ogni volta, tre o quattro metri in più.

C'era una volta Pier Maria Rossi, uomo d'arme, capitano del duca di Milano, che aveva vasti possedimenti fra la Val Taro e la Val Parma. Durante un periodo di esilio a Milano conobbe Bianca Pellegrini da Arluno, che divenne la sua amante (entrambi erano già sposati). Tornato con Bianca nei suoi feudi, dal 1448 al 1460 fece costruire il castello più come corte signorile che per ragioni militari: le artiglierie rendevano inevitabile il declino del castello tradizionale. Ci sono le torri angolari ed il mastio, che era un castello nel castello, ma furono edificate anche delle logge con la funzione di belvedere. Ci sono delle singolarità, anche rispetto ai castelli costruiti nello stesso periodo: ad esempio, le torri sono quadrate, come nel medioevo, mentre nel '400 le torri erano rotonde.
E tutta la pianta difensiva di Torrechiara non è aggiornata sugli ultimi accorgimenti difensivi, non certo per rozzezza o per mancanza di denaro: basta rendersi conto dell'imponenza della costruzione, delle finezze del Cortile d'Onore e delle logge, soprattutto della decorazione di varie stanze. Infatti, nella Camera d'Oro Benedetto Bembo affrescò Bianca, l'amante di Pier Maria che in pianura, in collina, in montagna, viaggia fra un castello e l'altro alla ricerca dell'amato. Vestita da pellegrina, naturalmente. Nei suoi tempi migliori, Pier Maria aveva quasi trenta castelli, ed in quello di San Secondo abitava la moglie che aveva sposato quindicenne, Antonia Torelli di Montechiarugolo; Bianca, prima di Torrechiara, stava in un paese vicino a San Secondo, appunto Rocca Bianca. Nel Castello Sforzesco di Milano è conservata la tribuna lignea da cui Bianca e Pier Maria a Torrechiara seguivano le funzioni religiose nell'oratorio di San Nicomede, non solo, sempre a Milano ci sono anche le storie di Griselda, monocromi che provengono da Rocca Bianca. Cosa curiosa: sono storie di amor coniugale. Le cose cambiarono in peggio dopo il 1476, quando Pier Maria si mise in urto con gli Sforza: ad uno ad uno gli presero tutti i castelli, tranne Torrechiara, in cui morì nel 1482. Nella storia di Torrechiara, prevale l'aspetto amoroso e cortese su quello guerresco, e così fu anche nel '500, dopo Pier Maria: ci sono affreschi con paesaggi, giocolieri, angeli, putti: permane l'imprinting iniziale, quello di Bianca e di Pier Maria.

La forza scenografica di Torrechiara, che è una fiaba reale, è tale da essere stata utilizzata dall'editore Einaudi per la sua "Storia d'Italia" e, last but not least, da Donner nel film Ladyhawke. Ma il nome Torrechiara, come si vede in una immagine antica, in origine era "Torciara" o "Torciaria", dal torchio per il vino o per l'olio. Sempre in gastronomia si finisce. In questi anni, d'estate, nel cortile d'onore di Torrechiara si tiene un piccolo ma apprezzato festival. Madrina è stata Renata Tebaldi. Partecipante assiduo è il grande basso rossiniano Michele Pertusi, un altro enfant du pays, dopo Bergonzi che è di Busseto e la Tebaldi che è di Langhirano.

Pochi anni fa, sono tornato a Torrechiara con amici milanesi; al mattino eravamo stati alla Fondazione Magnani-Rocca, con la sua piccola e straordinaria pinacoteca (non mi aspettavo di trovare Durer e Goya nella campagna parmense); poi, abbiamo deciso di trascorrere il pomeriggio a Torrechiara. Ed un amico si è accorto di una cosa che non avevo mai notato: la grande ombra che nel pomeriggio il castello disegna sul prato vicino al torrente Parma. Un'ombra bordata con i merli ghibellini. Ancora una volta, Torrechiara aveva trasformato la forza in cortesia: chissà quante volte Bianca e Pier Maria dalle logge avranno contemplato quell'ombra, la stessa che oggi possiamo ammirare noi.

Da I bei momenti

giovedì 17 maggio 2007

Pausa di riflessione

Habanera


H. Se qualcuno si avventurasse da queste parti...

?. Ma chi vuoi che si avventuri? lo sanno solo in tre gatti (tre di numero!) che esiste questo blog, più un baotzebao che misteriosamente lo ha scoperto per conto suo.

H. Tre gatti e un baotzebao mica sono da buttar via, e poi io ho un sacco di amici in rete, cosa credi? Basterebbe andare un po' in giro a dire: c'è una novità, ho aperto un blog , anzi un Nonblog.

?. Ma quale novità, fammi il piacere, tutti i tuoi amici a loro volta hanno un blog, un sito, un qualcosa, mica hanno tempo da perdere con la tua novità.

H. Sì, però il contatore delle visite sale, di poco ma sale, ed anche la visualizzazione del profilo. Vorrà pure dire qualcosa, o no?

?. Come no. Vuole dire che tu, provando e riprovando per riparare gli errori, non fai che uscire e rientrare. Per forza il contatore sale. Ad esempio, quante volte hai postato e ripostato l' intervento su Golem, di Primo Casalini, prima di riuscire a capire perchè ti veniva fuori tutto sottolineato?

H. Non farmici pensare, ci ho messo un bel po' a capirlo ma la colpa non era mica mia. E' colpa dell' autore che nel suo post originale aveva sottolineato un riferimento alla Web Gallery of Art e per misteriose ragioni, ricopiandolo, mi veniva tutto sottolineato.

?. Sì, certo, è colpa dell' autore. Come si è permesso, nel suo intervento di sottolineare qualcosa? Speriamo che non ti legga altrimenti si rotolerebbe dalle risate.

H. Non sei molto incoraggiante, quasi quasi, se do retta a te, mollo tutto e mi ritiro a vita privata.

?. Ma dai, non fare così! Come sei permalosa. E poi, non vorrei dirtelo, ma a vita privata ci sei già anche adesso. Ricordi i tre gatti più il baotzebao? Più privata di così...

H. Allora posso andare avanti tranquilla, prendermi tutto il tempo che voglio. Tanto non mi legge nessuno, quasi nessuno... e i tre gatti, più uno, ormai sono amici di famiglia. Ci sono ancora molte cose che vorrei imparare, prima di chiudere bottega.
Gatti, abbiate pazienza...

martedì 15 maggio 2007

JEZABEL




JEZABEL

Irène Némirovsky

di baotzebao




Quando il romanzo comincia, a pagina 47, è già tutto finito. Sappiamo dove passerà i suoi prossimi anni Gladys, sappiamo che al suo collo non gorgoglieranno più le perle, né ci sarà una premurosa cameriera, né amanti, né balli. Eppure.

“JEZABEL” comincia, come ogni romanzo, a pagina uno, ma fateci caso: il capitolo non ha numero. Come fosse un ouverture da melodramma, ( dopotutto è un personaggio tragico di Racine a dare il soprannome alla protagonista, e il titolo al romanzo ), nell’aula di tribunale parigino quel che si consuma è un dettaglio, l’esito scontato di un processo con troppe prove a carico, troppe ammissioni dell’imputata, troppe circostanze aggravanti per poter finire in modo diverso. Eppure.

La vita di Gladys è quella di una donna che, una volta sperimentato il potere della sua bellezza, e la bellezza del suo potere, non accetterà più di rinunciare a gustarne il piacere, l’ebbrezza, la voluttà. Via via meno dolce e più effimero, man mano che gli anni tolgono lucentezza ad occhi e pelle, il fantasma del potere che Gladys - sin dal quel primo giovanile ballo a Londra - ha assaporato, non l’abbandonerà, vera e propria scimmia sulla spalla, fino alla sentenza, e oltre, forse.

Gli uomini, quelli che dice di rimpiangere, come Dick, il secondo marito, o tutti gli altri, sposi o amanti, le cui vite lei riesce comunque a determinare, (alla lettera, nel caso di Martin), gli uomini sono pedoni, alfieri, a volte rare torri, e mai re nel gioco che Gladys gioca e interpreta, da regina che può muoversi in ogni direzione, mossa solo dal proprio desiderio.

Le donne: paggette o damigelle. Ammiratrici, nemiche, serve. Nemmeno Marie-Thérèse, sua figlia, durerà più dello spazio di un mattino, quando la sua femminilità a lungo negata darà inequivocabili prove di sé.

La famiglia: cespuglio di rovi, scena della battaglia, rifugio nella disfatta, ma solo fino al momento della vendetta.

Il ‘Gran Mondo’ europeo e Parigi-centrico del primo novecento, con i suoi oltremodo ricchi, oltremodo ignari, oltremodo scintillanti e vani personaggi da operetta sulla scena tragica della vita, sono lo sfondo sociale di un romanzo che, ritratti femminili a parte ( qui più riusciti ) si sarebbe potuto chiamare “Tenera è la notte”, se lo avesse scritto un americano infatuato della vecchia Europa, o meglio: della sua parodia, come il povero-ricco Francis Scott Fitzgerald. Chissà, se lo avesse davvero scritto Zelda…

Anche la trama - a tratti un po’ prevedibile ( ma non è detto non sia un piacere per il lettore avveduto ) -, e il linguaggio - talvolta un po’ sopra le righe ( ma adeguato alle parole dei personaggi) - servono a Irene Nemirowsky a dare luce ai punti oscuri, a sollevare gli angoli dei pesanti tappeti e scoprirvi il non detto, la sporcizia e la polvere. Nessuna meraviglia: la scrittrice che Adelphi ha portato all’attenzione del pubblico italiano è infatti anche l’autrice del “BALLO”, fulminante racconto di crudeltà reciproche ( ma con vittoria finale dell’adolescente ); di “SUITE FRANCESE”, affresco potente di storie che si intrecciano e confondono, come si confuse la storia in Francia ai tempi di Vichy; di “DAVID GOLDER”, romanzo di scontri e debolezze, di uomini violenti e indifesi, di tradizioni e tradimenti, di parole taglienti come lame e di soldi, soldi, soldi; del proto femminista, inesorabile racconto “LA MOGLIE DI DON GIOVANNI”, stretto parente di questo “Jezabel”.

Chi avesse scoperto la Nemirowsky solo adesso, accetti il mio consiglio: legga una seconda volta tutto “Jezabel”, prima di affrontare le altre opere. Chi, invece, deve ancora cominciarlo, si legga due volte le pagine fino alla 46. In entrambi i casi, servendo da ouverture, tali letture consentiranno loro di entrare nelle pagine e fra le righe: proprio come a teatro, - prima che si levi il sipario, e l’azione cominci - la buona musica avrà già “detto tutto”, avrà già indicato al buon ascoltatore ( come al buon lettore ) i temi e le variazioni, il clima e l’aura, il tono e il registro dell’opera. Si potranno così abbandonare a quell’ “eppure!” che illumina, rovescia e alimenta di sorprese e rivelazioni ogni vita, e ogni buon romanzo. Si gusteranno dunque lo svolgimento della trama ( o le diverse storie raccontate in ogni opera ) con il palato del buongustaio che sa di che sapore è il frutto, o quanto dovrà solleticargli le papille lo champagne, prima di morderlo, prima di levare la flùte. Lo sa perché già lo conosce, sa a cosa paragonarlo, sa dunque misurarne la qualità il piacere il gusto. E, credetemi, la Nemirowsky è un grappolo d’uva regina, è un millesimato. Buone letture.

Dal blog a vànvera

lunedì 14 maggio 2007

Il Disprezzo



Il disprezzo

di Solimano


La premessa è che il disprezzo fa parte a pieno titolo dell’armamentario dei sentimenti e che talvolta è certamente utile provarlo – se naturale, non forzato. Permette, in situazioni che potrebbero essere di incertezza, di azzittirsi e di stare tranquillamente lontani dalla persona disprezzata. Già vedo le reazioni dei buoni, che in genere sono buoni solo di autodisprezzarsi permettendo agli altri di infierire: aria, aria, il mondo è grande - talvolta anche bello. Già questa premessa giustificherebbe la visione del film di Godard, ma i pregi non finiscono qui.
“Un vulgaire et joli roman de gare”, così Godard riguardo il romanzo di Moravia da cui trasse il film “Le mépris”, che fece molto chiasso prima e dopo, a causa del fenomeno Godard ma soprattutto del fenomeno Bardot. Chi può, se lo guardi nella edizione in francese, quella italiana fu massacrata dal produttore Ponti: accorciò il film, tagliando la bellissima scena d’amore con cui inizia, sostituì le musiche d’archi di Delerue col jazz di Piero Piccioni inserito a capocchia, rinunciò alla presa diretta nelle tre lingue: francese, inglese, italiano per un doppiaggio ingiustificato, alterò perfino il finale. “Il disprezzo” è un film che spiazza, così vuole Godard, non l’immedesimazione nella storia, vuole che guardiamo standone fuori. Ma lui dentro c’è, eccome; le sue parole cattive contro il romanzo sono sospette perché, come il protagonista Paul Javal (Michel Piccoli), è diviso fra denaro, politica, voglia di successo, voglia di dire cose vere, fra le abituali menzogne. Paul Javal ha un rapporto traballante con Camille (Brigitte Bardot), la dattilografa ventottenne che ha sposato. Riesce durante il film ad essere disprezzato da lei, anche dal produttore Prokosch (Jack Palance) che corteggia Camille, forse anche da Fritz Lang che fa la parte di se stesso, regista gentile. Tutti proviamo ripugnanza per Paul, perché un po’ della vigliaccheria e della morale pedante di Paul c’è in ognuno di noi. E’ l’intellettuale che vorrebbe essere coerente senza rinunciare alla opportunità del grande assegno, e che strumentalizza anche la moglie, se del caso. Stanno facendo un film sull’Odissea, e Paul, assunto come sceneggiatore, vorrebbe Omero con un po' di psicoanalisi qua e là. Poi ha la sua da dire su tutto, in genere giusta, ma la moglie non riesce a tenersela, Camille tornerà a Roma con Prokosch in auto, e morranno entrambi schiantandosi contro un camion a rimorchio. Fritz Lang finisce il film, fedele alla natura, al cielo, al mare ed alla classicità di Omero. E Paul, che farà, adesso? Ci sarà certamente posto per uno come lui, intelligente, cinico, avido di successo e di soldi, eppure voglioso di una coerenza di facciata a cui si imporrà di credere. Come lui ce ne sono tanti, a tutti i livelli, il tema del marito che desidera essere tradito non è così strano: è un modo per riuscire a farsi lasciare senza dovere darsi da fare. E’ bello vedere nel film come Paul esiti, perché continua ad essere innamorato di Camille (ma non lo vorrebbe). Quindi la pulsione lo spinge a fare in modo che Camille resti sola con Prokosch; per Paul il bacio che riesce a spiare è una amara liberazione. La richiesta non espressa che Paul fa a Camille è “Tradiscimi” e la risposta di lei, anch’essa non detta, è “Non vorrei, ma se ci tieni lo farò, disprezzandoti”. Il tema di un amore che finisce male è un grande tema, non vulgaire et joli, e nel film è espresso benissimo malgrado l’inespressività totale della Bardot, salvo nei dieci minuti iniziali di rapporto - corpi e parole - con Paul e salvo quando si stende al sole nuda, coperta però sul didietro da un libro aperto: idea gaglioffa ma simbolo forte. Jack Palance porta in giro simpaticamente la sua mole un po’ da pugile suonato, sembra che non sappia neppure quello che sta succedendo sul set: cita spesso la Bibbia in modo azzeccato, è l'antenato del gangster nero di Pulp Fiction. Fritz Lang è saggio e tranquillo, palesemente rispettato da Godard, fin troppo, serviva un regista un po’ più carogna. Michel Piccoli è bravissimo nel meritare il disprezzo di tutti, noi compresi. Il quinto personaggio è una italiana piccola e indaffarata, la segretaria di Prokosch, di cui probabilmente è una delle amanti. Nel film si chiama Francesca Vanini - omaggio a Rossellini - ma è Giorgia Moll. Ecco, nel film in cui c’è il fenomeno Bardot (fenomeno vero, nel suo genere), sembra la minuta Giorgia l’unica donna frequentabile, sarebbe andata benissimo per la parte di Nausicaa nel film che Lang stava girando sull’Odissea e che nell’edizione francese riuscirà a finire, nonostante la morte del produttore. Recita anche Godard: fa la parte dell’aiuto regista un po’ imbranato. Fritz Lang, saggiamente, invece della Bibbia cita Bertold Brecht: “Tutte le mattine vado al mercato a vendere le mie bugie”.

Da Abbracci e pop corn

Attrazione e Affinità




Attrazione e Affinità

di Placida Signora


Nelle amicizie, nei luoghi e nelle cose.
Ci sono due parole che mi piacciono molto: attrazione e affinità.
Mi piacciono come suono; la prima è croccante, come un morso dato ad una cialda e la seconda è delicata come un sussurro.
Mi piacciono perché sono parole di quelle che io definisco come epidermiche; che indicano cioè un qualcosa che ha poco di razionale, ma molto d’istintivo.
E l’istinto, uno dei pochi primitivi strumenti rimasti a noi, civilizzatissimi e tecnologicissimi creaturi anni 2000, è sempre un qualcosa di affascinante.

Ebbene; spesso mi chiedo perché ci sentiamo immediatamente attratti da qualcuno o qualcosa (persona, oggetto o luogo, non importa), scoprendo poi nella maggioranza dei casi di essere a questo anche affini.
Badate, non sto facendo un discorso amoroso (nel quale entrerebbero altri elementi): parlo soprattutto di scelte nell’amicizia e nella vita in genere.

L’attrazione (ad trahere, tirare verso) almeno per me scatta per minuscoli elementi; una frase, un tono di voce, uno sguardo, un profumo, un colore, un refolo di vento, un aggettivo, un risata, un suono, un riflesso, un movimento, un minimo particolare magari stupidissimo che però mette in all’erta i cinque sensi insieme.
E’ il “primitivo“, il sesto senso che capta… cosa?
Emanazioni? Onde? Vibrazioni? Pensieri?

Non lo so. So solo che spesso in tutta la mia vita mi sono sentita attratta da qualcuno o da qualcosa in maniera assolutamente immediata: mi è successo ad esempio di leggere un particolare autore, e di sentirmi talmente coinvolta dalle sue parole da pensarmi vicino a lui, in senso familiare.
Da bambina adoravo Guareschi, soprattutto i libri in cui parlava della sua famiglia; Albertino e Carlotta detta Pasionaria non erano solo personaggi cartacei, ma veri per me.
Concreti.
Sentivo nelle loro parole le mie.
Mi sembrava di essere insieme a loro nelle vare situazioni descritte; prevedevo le loro battute e reazioni, come se li avessi conosciuti davvero da un sacco di tempo.

Ebbene. I casi della vita (l’aver pubblicato alla Rizzoli, editrice storica del loro papà) mi hanno portato poi a conoscerli sul serio, quando bambina non ero assolutamente più.
E sin dal primo momento è stato naturalissimo parlarci e vederci, come esserci ritrovati dopo tanto tempo, ma come se questo tempo non fosse mai passato; e loro mi hanno detto di aver avuto la stessa identica sensazione leggendo me, nei libri o negli articoli.
Come se Alberto, Carlotta e Mitì fossero in qualche modo sempre stati uniti.
Da cosa?
Dall’affinità (affinis, letteralmente confinante). Dalla somiglianza di pensiero, educazione, cultura, gusti, storia, senso dell’umorismo: tutto.
Non importa la differenza d’età; è come vivere una vita parallela in un’altra dimensione, dove il tempo e il “reale concreto” non contano.
E questo è solo un caso fra tanti. La maggioranza dei miei più cari amici che scrivono lo era già, amico, prima che ci incontrassimo; li sentivo tali solo leggendoli. Lo so che sembra cretino detto così, ma pensateci.

Non vi è mai successo di pensare/sognare/leggere/immaginare qualcuno o qualcosa di lontanissimo in quel momento, di sconosciuto, quasi non-reale, e poi di vedere (nel senso di vederlo concretamente, a un certo punto, magari dopo anni) materializzarsi vicino a voi, quel qualcuno o quel qualcosa?
Non vi è mai accaduto d’incontrare per caso persone che immediatamente sono diventate importanti per voi come entrambi vi foste conosciuti da sempre?
Oppure di scoprire, sempre per caso, delle cose o dei luoghi dei quali ora non potete più fare a meno, perché non ne avete mai potuto fare a meno?

Una specie di déja-vu, ma più… più indescrivibile.

Cosa ci spinge a scegliere d’impulso un oggetto al posto di un altro, anche se simile all’apparenza, un luogo al posto di un altro, una persona al posto di un’altra?
Che cos’è che ci attrae istintivamente verso qualcuno o qualcosa di preciso?

Io non riesco a rispondere in modo logico, se non buttandola sullo scherzo dicendo “Magari averli vissuti in un’altra esistenza”.

E voi?


Da Placida Signora

Date



Date

di Roby


Quando ero piccola, circa mezzo secolo fa, le date segnate sul calendario in colore contrastante si potevano contare comodamente sulle dita delle mani: Natale, Capodanno, Pasqua, 25 Aprile, 1 Maggio, Festa della Mamma, 2 giugno e Ferragosto, più –eventualmente - il giorno del santo patrono cittadino. Adesso, signori miei, non bastano neanche le dita dei piedi: è indispensabile un’agenda elettronica per ricordarsele tutte! Cito in parte a memoria, in parte col supporto informatico di GOOGLE :

· il Giorno della Memoria per ricordare la Shoa, il 27 gennaio
· S.Valentino, il 14 febbraio
· la Giornata del Gatto, il 17 febbraio
· la Giornata per la Libertà di Ricerca, il 20 febbraio
· la Festa della Donna, l’8 marzo
· la Festa del Papà, il 19 marzo
· la Giornata delle Vittime della Mafia, il 21 marzo
· la Giornata della Terra, il 22 aprile
· la Giornata dell’Europa, il 9 maggio
· la Giornata delle Vittime del Terrorismo, il 9 maggio
· la Giornata dell’Orgoglio Gay, il 28 giugno
· l’11 settembre (inutile dire perché)
· la Festa dei Nonni, il 2 ottobre
· Halloween, il 1 novembre
· la Giornata della Lotta all’AIDS, il 1 dicembre

Se si aggiungono ricorrenze locali (come la Festa della Toscana il 30 novembre), manifestazioni occasionali (ad esempio la Giornata di Mobilitazione e Lotta dei Migranti, il 7 ottobre prossimo) ed iniziative oscillanti (le Giornate di Primavera del FAI, in aprile, e la Giornata dei Musei intorno alla metà di maggio), risulta chiaro che i 365/366 giorni dell’anno solare presto non basteranno più alla bisogna. Alcuni, inoltre, sembrano particolarmente ambiti da più organizzazioni: vedi il caso del 9 maggio, data sia della morte di Aldo Moro vittima delle BR, nel 1978, che della dichiarazione in cui il ministro degli esteri francese Schuman, nel 1950, gettava le basi della futura EU. Proporrei, per il futuro, di scorrere preventivamente le date della storia recente con l’aiuto di un motore di ricerca, onde evitare simili ingorghi. Tutto ciò premesso, considerando l’esigenza crescente di consacrare ad una singola giornata all’anno quello che dovrebbe essere tenuto presente 24 ore su 24, ritengo ragionevole supporre che da oggi in poi anche il foglietto del 12 maggio sarà inesorabilmente occupato. L’unico dubbio resta la denominazione esatta: Family Day? Giornata del Coraggio Laico? Entrambe? Oppure – magari!!!- nessuna delle due?

domenica 13 maggio 2007

Perle nel Pagliaio




Perle nel pagliaio
Appassionarsi alla rete e cercare, cercare...

di Primo Casalini


Anni fa ero un appassionato cercatore di funghi. Mi alzavo all'alba, facevo in macchina decine di chilometri di strada di montagna, parcheggiavo alla sperindio vicino a mulattiere e mi avviavo in salita, perché i funghi si cercano così), girando adagio lo sguardo da una parte all'altra e cercando di non fantasticare, che era la cosa che mi costava di più.
Non solo; il fungaiolo, durante la ricerca, è assolutamente misantropo: se vede un altro, cinquanta metri più su, cambia rotta e rimpiange il tempo perduto ad esplorare zone già battute. Poi ci sono i permessi, i giorni sì e quelli no, le danze per la pioggia e contro il vento (de' funghi inimicissimo), la snervante attesa dopo che è piovuto, perché non crescono subito, gli sfiziosi. Quando si esce in compagnia, si possono rompere amicizie decennali se l'amico, al vostro terzo porcino, ha ancora il canestro vuoto. Mettiamo che vada bene, e che si torni con un buon raccolto, non col canestro pieno perché c'è pure un massimo peso autorizzato: alla bottega sotto casa vendono funghi migliori dei vostri ad un prezzo, fatti i conti, minore di quello che avete pagato. Eppure, all'andare a funghi sono legate esperienze e ricordi che non si dimenticano.

Navigare in Internet ha qualcosa di simile. Lo faccio da due anni e mezzo. Prima avevo un dignitoso PC, qualche archivio alimentato con dischetti e cd-rom. Utile e dilettevole. Poi, ho deciso di dotarmi di Internet. Mi sono consigliato con un amico informatico che, dopo aver guardato con sprezzo il mio vecchio PC (aveva un anno e mezzo), mi ha detto che dovevo per lo meno raddoppiare tutto: hard disk, memoria, clock, e che anche il monitor, insomma era piccino. "Non c'è problema, compro i potenziamenti!" "Ti costerebbe di più che comprare un PC nuovo". E così è andata. Sei mesi fa, anche il secondo PC era oramai "vecchio" ed ora c'è il terzo, ma il video già me lo guardano con compatimento.
Naturalmente anche il modem è un altro, quello ad alta velocità e per cui paghi un forfait mensile, non a tempo. Alcuni miei amici il PC lo tengono acceso 24 ore su 24, come se fosse un frigorifero.

Poi c'è stata la faccenda dei forum. Mi interessa la politica, i girotondi e così via. La rete è piena di forum politici di tutti i tipi; i primi due mesi tenevo un dizionario a portata di mano per non fare brutta figura, finché mi sono accorto che gli internettiani non erano una specie di moderni templari, superiori alle bassezze umane. Esiste invece una nuova schiatta: quelli che sanno quattro html, che usano le chat ed i newsgroup e che perciò stesso credono di sapere tutto il resto. Se gli dici: "sutor, ne ultra crepidam", credono che parli in bergamasco. È il villaggio che fa lo scemo, ma è lo scemo che fa il forum. Nel senso che tu puoi scrivere il miglior post della tua vita, ma contro chi ti risponde "Uhei!" o "Aarghhh!", sei assolutamente disarmato.
Altro che templari! In rete c'è di tutto: nel bellissimo "Guestbook" della Web Gallery of Art c'è, fra i commossi ringraziamenti della neozelandese o del polacco, quello che fornisce la sua e-mail e cerca "girls": è italiano, naturalmente. Oppure lo strambo brasiliano che si vanta di essere un lontano discendente di Pompeo Batoni, illustre pittore lucchese del Settecento.

Adesso ci sono i blog, che nascono come diari personali tenuti in rete: bellissimo, il blogger sceglie chi pubblicare e chi no, quindi c'è un controllo di qualità. Poi scopri che le tante visite ad un blog sono quelle degli altri blogger, ansiosi di capire quale è la palla del giorno. Il social forum di Firenze, a cui tutti i bloggers hanno partecipato, tre giorni dopo era già passato di cottura. Tutti in punta di piedi, come quelli che volevano vedere Ferrer che andava dal vicario di provvisione. Se stessero coi piedi per terra, vedrebbero tutti allo stesso modo e farebbero meno fatica: "è del blogger il fin la meraviglia / chi non sa far stupir / vada alla striglia".
Intanto, ti sei fatto degli amici e delle amiche in rete. Ed è bello scambiarsi messaggi. Solo che sono appassionati di politica come te, e per farti vedere che ti vogliono bene, ti iscrivono a newsletter, sollecitano la tua firma a petizioni, appelli, lettere aperte. E ti mandano immagini di un metro quadro. Il mio "Outlook" qualche volta è collassato. Capisci le loro buone intenzioni ed usi chiotto chiotto (o quatto quatto?) il tasto "Elimina". Solo che poi ti interrogano: "Hai inoltrato a tutte le e-mail della tua Rubrica la petizione che ti ho mandato ieri?". Così mi tocca conservare la posta eliminata, perché non si sa mai...

Per capire come vanno realmente le cose ci ho messo mesi e mesi. Ogni giorno aveva la sua delusione e la sua speranza. Il tempo vola, in rete. Credo che la felicità sia perdere il senso del tempo: succede anche quando si disegna o si gioca con concentrazione piena, che non costa fatica. Oggi in cucina c'era un foglio di giornale per terra: qualche folata di vento lo sollevava e la mia gatta ha trascorso dieci minuti di incanto. Se ne stava lì, pronta a balzare, ed appena il vento alzava il giornale, ci zompava sopra. Anche noi, sotto la vernice, siamo così.
Come faccio adesso, dopo tutti questi affanni? Avevo il desktop con un centinaio di icone: le riduco a venti. Avevo nei preferiti cartelle e sottocartelle che eccedevano lo schermo video: le riduco alla metà della metà, tanto c'è Google ed Altavista, nel caso.
Sì, in rete il 95% è rumore, ma il 5% restante vale la spesa ed il tempo. Un mio amico ha scoperto una cosa importante: con Internet si risparmiano soldi. Nel senso che, se si sta tre ore a navigare, bisogna considerare che altrimenti, in quelle tre ore non si starebbe certo fermi: si farebbe una camminata in centro, si comprerebbe un altro maglione, un libro, un CD in più. È la famiglia che mi regola: altri utilizzano Internet, ed abbiamo istituito un rigoroso sistema di turni. La settimana prossima, ho a disposizione il mezzo dalle dieci di sera alle due di notte.

Come vorrei che fosse la rete? Mi spiego con due esempi. C'è un piccolo sito a cura della Regione Marche dedicato a Carlo Crivelli: in particolare alle opere che sono ancora nelle Marche, ma anche a quelle che sono disperse in tutto il mondo, con i luoghi di origine, gli smembramenti dei polittici, e così via. Vorrei che i grandi musei italiani avessero la documentazione che c'è in questo sito e soprattutto la qualità delle immagini. E c'è un sito intitolato Actrices Francaises et Francophones in cui ci sono tutte le informazioni degli ultimi dieci anni sulle attrici francesi (che in genere prima fanno teatro e poi cinema) senza pacchianeria e senza volgarità. Vorrei che qualcosa del genere esistesse pure in Italia: è anche in queste cose che si vede la civiltà di un paese.
Cosa ho imparato? Ad esempio, se voglio sapere tutti i film in cui è stata utilizzata la musica di Bach, sono in grado di saperlo, e di capire perché (Bach è decollato nel '68...), se voglio capire quali sono i film che piacciono più alle donne che agli uomini, anche questo mi è possibile, e la risposta è complicata e semplice, se voglio (finalmente!) apprezzare da vicino la grande arte delle miniature e delle tarsie del rinascimento mi è agevole, come visitare da vicino la Cappella Sistina con tutte le immagini aggiornate dopo il restauro.

E sono tornato alle e-mail, cioè alle origini. Non più di venti amici ed amiche a cui scrivere paroleggiando, col gusto di rispondere. Ad ognuno ho assegnato una cartella personale.
Cambiano i modi ma la sostanza è quella di un epistolario del Settecento. Infatti spesso spedisco una immagine di Chardin o di Watteau, leggera però, non di un metro quadro...
Ma il piacere più grande me lo dà la scoperta dei piccoli siti, che una o due persone, solo perché hanno la passione di una vita su quel libro, quel musicista, quella opera d'arte, quel paese, quel bosco, hanno fatto per il gusto di dare piacere a se stessi. Li trovo per caso: uno, due al mese.
Se il contatore delle visite sale è meglio, ma ne possono fare a meno. Appagati senza essere pagati.
01.02.2003

Anche su Golem l'Indispensabile

Voce recitante




Voce recitante

di Anna Proclemer


La prima volta che mi trovai in mezzo a un’orchestra, come uno strumento solista o una cantante, fu nel 1945, al Teatro delle Arti di Roma, per Pierino e il lupo di Prokoviev. Dirigeva Franco Capuana. Rimasi sconvolta. L’impatto della musica, standoci in mezzo, è totalmente diverso dall’ascolto normale, sia pure dalla prima fila. Ero già innamorata della musica da tempo, ora persi la testa completamente e per sempre. C’era un problema, però. Ero poverissima e non avevo un vestito adatto alla circostanza. Mi feci prestare dalla mia amica Cecilia, lei era di famiglia facoltosa, un suo vestito da sera. Di moire di seta pura bianco, stretto in vita, con piccole maniche a sbuffo e scollatura a barchetta, come usava allora. Perfetto. Beh veramente non tanto, perché Cecilia era dieci centimetri più bassa di me. E le scarpe? Come rimediarle? Ritagliai due solette di cartone , ci feci delle piccole incisioni lungo i lati, ci infilai una fettuccia argentata che poi incrociai sul piede e la gamba (alla schiava, come usa adesso). Proprio niente male, e il vestito, coi sandali a terra, sembrava anche un po’ meno corto. Però, come in tutte le favole che si rispettino, la sciagura era in agguato. Per salire sul piccolo podio che era preparato per me alla sinistra del direttore d’orchestra io dovetti piegare il piede. La suola di cartone si trinciò di netto e, richiudendosi, mi afferrò la pianta del piede come in una tagliola. Pensai, in un lampo, alla Sirenetta di Andersen. E, come lei, rimasi imperturbabile. Un male cane. Che ben presto la felicità di trovarmi in mezzo alla musica, di dialogare con la musica, di farmi investire dalla musica, sembrò annullare del tutto. Un po’ più dura fu agli applausi. Nei concerti non è come a teatro. Si va in quinta e si torna al centro. Poi si rivà in quinta e si ritorna al centro. Per varie volte, soprattutto se è un successo. E il nostro lo era. La tagliola continuava a mordere, ma io ero così felice di questa mia avventura musicale che fingevo, con me stessa, di non sentirla. E forse non la sentivo davvero. L’anno dopo, 1946, fui la “voce recitante” nelle Trachinie di Ildebrando Pizzetti. Ricordo soprattutto la cortesia squisita del Maestro, i suoi capelli candidi e la sua giacchetta di velluto nero, che indossava sempre, anche di mattina. All’inizio degli anni ’50, al Teatro dell’Opera di Roma, feci La Sagesse di Milhaud, testo di Claudel, direttore d’orchestra Fernando Previtali. Mi piacque molto perché non stavo ferma dietro un leggio, ma mi muovevo col corpo di ballo. Recitavo e insieme ero parte di una coreografia. Io che ho sempre adorato la danza e ho sempre rimpianto di non aver potuto praticarla da professionista, mi sentivo gratificata da questa mia piccola ma incisiva partecipazione gestuale. Negli anni ’80, Peer Gynt, da Ibsen, musica incantevole di Grieg. Direttore d’orchestra il fascinosissimo Piero Bellugi. Oltre ad Albertazzi, che aveva ridotto il testo, c’erano anche la Toccafondi (mamma Aase), ed Elisabetta Pozzi (Solveig). Il solito Harem, insomma. Io facevo varie parti: il Fonditore di bottoni, la regina dei Trolls e… non mi ricordo. Il concerto aveva molto successo. Lo facemmo a Roma, al San Carlo di Napoli, al Teatro di Verdura di Palermo. Chissà perché, malgrado il fascino della musica di Grieg, non lo ricordo con gioia. Nel 1987 l’ultima mia esperienza come voce recitante in orchestra. Era L’ Arlesienne di Bizet, su testo di Alfred Daudet. Teatro Comunale di Bologna. Un giugno rovente. Una musica bellissima. Un direttore d’orchestra francese, odioso. Pierre Delvaux è l’unico musicista che ho conosciuto che fosse scostante e totalmente privo di fascino. Io che m’innamoro anche di quello che suona il triangolo, purché stia lì in orchestra a suonare, mi trovai di fronte a un muro di antipatia. Mi compensarono i magnifici professori d’orchestra che, agli applausi, quando sfilavo io , mi sorridevano incantati e battevano gli archetti sul leggìo, in segno di approvazione.

Dal sito di Anna Proclemer