sabato 26 maggio 2007

Piscinas – l'infanzia nella natura




Piscinas – l'infanzia nella natura

di Giorgio Casera


“Se si vuole ancora avere l'impressione grandiosa di ciò che doveva essere un tempo gran parte della costa occidentale sarda, bisogna raggiungere questa incantevole e selvaggia costa che si stende tra Capo Pecora e Capo Frasca. Qui il vento ha spinto poderosamente all'interno le dune marine per diverse centinaia di metri, modellando così un paesaggio incredibile di gialle sabbie interminabili, capace di evocare dappresso quello di un vero deserto. Vi si può arrivare attraverso la strada che da Montevecchio va a Marina di Arbus, oppure attraverso quella che da Ingurtosu discende a Piscinas…”
Così scrivevano Fulco Pratesi e Franco Tassi nella “Guida alla natura della Sardegna” stampato da Mondadori nel 1973, ed aggiungevano: “Purtroppo quest'area di aspetto quasi tropicale sta già subendo le prime gravi manomissioni. Sfregiata da una serie di strade, germina ora le consuete degradanti lottizzazioni… Ma questo è solo l'inizio. Tutto il resto è già confezionato, pubblicizzato con il neologistico appellativo di “Costa Verde”, pronto ad essere rivenduto senza scrupoli né rimorsi al miglior offerente”.

Quasi venticinque anni prima, quindi molto tempo prima dei turismi di massa e del fenomeno delle seconde case, la costa era frequentata da pochi pescatori di razze e gattucci (una specie di squaletto) e di arselle. Nell'immediato entroterra greggi di capre, com'è ancora oggi, con i loro pastori, e pochi orti coltivati. Più all'interno, a cinque – sei chilometri dal mare, erano situate le miniere, con i loro pozzi ed i paesi dei minatori. Tutt'intorno una rigogliosa macchia mediterranea.


La spiaggia di Piscinas veniva utilizzata dalle miniere come terminale per il trasporto del minerale nelle fonderie. Allo scopo una strada sterrata collegava le miniere al mare e sulla sabbia, di fronte al mare aperto, era stato costruito un pontile, in legno e ferro, che permetteva l'attracco dei velieri.

Siamo nei primi anni '50, il Paese si sta faticosamente risollevando dalle distruzioni della guerra, ma la vita è in generale dura. Lo è in particolare per i minatori e le loro famiglie. Per sollevare gli animi, anticipando quelli che in seguito si chiameranno “benefits aziendali”, la direzione della miniera fa costruire sulla spiaggia di Piscinas delle capanne che assegna alle famiglie per tutta l'estate. Le capanne sono formate da un telaio costituito da pali di legno (di pino marittimo) ed hanno per tetto e per pareti (anche interne) dei fasci di canne o di frasche raccolte lungo i rivi dei dintorni. Sono piantate nella sabbia, che costituisce quindi il pavimento, a 30 – 40 metri dal mare, e sono dunque destinate ad essere danneggiate o distrutte dalle violente mareggiate invernali. Ogni anno venivano però riparate o ricostruite per la gioia di chi vi avrebbe trascorso l'estate.
Alla fine di giugno, finite le scuole, uno stormo di ragazzi dai 5 ai 20 anni si trasferiva dunque al mare con viveri, reti e materassi. Ogni famiglia occupava una capanna di cui assumeva la gestione una sorella maggiore. Il papà restava al lavoro fino alle ferie (che prendeva in genere intorno a Ferragosto) e la mamma e i figli troppo piccoli con lui, ma la domenica (allora si lavorava anche al sabato) raggiungevano i figli al mare. In “dispensa” soprattutto cibi conservati (scatolette di carne o di sardine, marmellate etc) ma ogni giorno un furgone portava dal paese il pane, damigiane di acqua e latte, e altri viveri freschi.

Di fronte a noi avevamo il mare aperto, con una spiaggia di chilometri di sabbia pulita a disposizione; sui fianchi enormi dune di sabbia con le piante di ginepro sulla sommità come per ancorarle e proteggerle dal vento; alle spalle la macchia mediterranea fino al paese.
Le dune, che avrei ritrovato nei libri di scienze delle medie, costituivano un fenomeno quasi unico in Europa, in quanto grandi e... mobili!


Vivevamo come “selvaggi”: al mare dalla prima mattina per i bagni, per le lunghe passeggiate alla scoperta di quel mondo, per i giochi di gruppo. A metà giornata pranzo e riposo (per il solleone) e da metà pomeriggio ripresa della vita libera ancora al mare, a cercare conchiglie o pulci di mare da usare come esca per la più semplice pesca, o sulle dune seguendo le orme dei conigli, volpi e gatti selvatici tra i ginepri.

Alla sera, prima o dopo cena, tutti a vedere il tramonto, spettacolo di cui non ci si stancava mai, e poi ancora a giocare fino a che, esausti, non si andava a dormire in capanna.
A riprendere dall'indomani, in giorni sempre simili ma mai noiosi. Ogni tanto qualche diversivo: la gita ad uno stazzo per l'acquisto di latte o formaggio di capra, oppure ad un orto per comprare angurie o meloni, oppure ancora, in caso di necessità, a fare rifornimento d'acqua ad una sorgente non vicinissima e dal nome (per me allora) magico: Scioppadroxiu (letteralmente: acqua che prorompe).
Il clou dell'estate era il Ferragosto. Praticamente tutto il paese si spostava al mare e così le famiglie erano riunite per qualche giorno. Con l'occasione si svolgeva, al mare, la festività di S. Barbara, patrona dei minatori, con fuochi d'artificio, gare di tuffi, di nuoto e relativi premi, e con gli inevitabili pasti delle feste, con piatti speciali non di rado preparati in lunghe ore notturne dalle padrone di casa.
In quei giorni da ragazzino spensierato vedevo nel volto degli adulti crescere la speranza di un mondo e futuro migliore.
Alla fine di agosto il rientro a casa, non troppo melanconico: l'autunno si sarebbe prestato a scorribande nei boschi e nelle vigne e comunque l'anno prossimo ci si sarebbe ritrovati ancora al mare.

Cerco di tornare a Piscinas almeno una volta l'anno, anche solo per un giorno. Non c'è più il pontile, demolito negli anni dalle mareggiate; non c'è traccia delle capanne, anche i pali sono stati lentamente consumati dalla salsedine. Per fortuna gli obbrobri del turismo moderno sono distanti e nascosti alla vista.
Rimane la lunga, intatta, favolosa spiaggia, con le dune alle spalle e l'immenso mare di fronte. Così doveva essere duecento anni fa, prima che l'uomo cominciasse a sfruttare i giacimenti minerari vicini e ne intaccasse l'integrità. Cessata questa attività, la natura ha ripreso il sopravvento, ancora una volta.

Pubblicato anche su Arengario - I bei momenti

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