La prima volta che mi trovai in mezzo a un’orchestra, come uno strumento solista o una cantante, fu nel 1945, al Teatro delle Arti di Roma, per Pierino e il lupo di Prokoviev. Dirigeva Franco Capuana. Rimasi sconvolta. L’impatto della musica, standoci in mezzo, è totalmente diverso dall’ascolto normale, sia pure dalla prima fila. Ero già innamorata della musica da tempo, ora persi la testa completamente e per sempre. C’era un problema, però. Ero poverissima e non avevo un vestito adatto alla circostanza. Mi feci prestare dalla mia amica Cecilia, lei era di famiglia facoltosa, un suo vestito da sera. Di moire di seta pura bianco, stretto in vita, con piccole maniche a sbuffo e scollatura a barchetta, come usava allora. Perfetto. Beh veramente non tanto, perché Cecilia era dieci centimetri più bassa di me. E le scarpe? Come rimediarle? Ritagliai due solette di cartone , ci feci delle piccole incisioni lungo i lati, ci infilai una fettuccia argentata che poi incrociai sul piede e la gamba (alla schiava, come usa adesso). Proprio niente male, e il vestito, coi sandali a terra, sembrava anche un po’ meno corto. Però, come in tutte le favole che si rispettino, la sciagura era in agguato. Per salire sul piccolo podio che era preparato per me alla sinistra del direttore d’orchestra io dovetti piegare il piede. La suola di cartone si trinciò di netto e, richiudendosi, mi afferrò la pianta del piede come in una tagliola. Pensai, in un lampo, alla Sirenetta di Andersen. E, come lei, rimasi imperturbabile. Un male cane. Che ben presto la felicità di trovarmi in mezzo alla musica, di dialogare con la musica, di farmi investire dalla musica, sembrò annullare del tutto. Un po’ più dura fu agli applausi. Nei concerti non è come a teatro. Si va in quinta e si torna al centro. Poi si rivà in quinta e si ritorna al centro. Per varie volte, soprattutto se è un successo. E il nostro lo era. La tagliola continuava a mordere, ma io ero così felice di questa mia avventura musicale che fingevo, con me stessa, di non sentirla. E forse non la sentivo davvero. L’anno dopo, 1946, fui la “voce recitante” nelle Trachinie di Ildebrando Pizzetti. Ricordo soprattutto la cortesia squisita del Maestro, i suoi capelli candidi e la sua giacchetta di velluto nero, che indossava sempre, anche di mattina. All’inizio degli anni ’50, al Teatro dell’Opera di Roma, feci La Sagesse di Milhaud, testo di Claudel, direttore d’orchestra Fernando Previtali. Mi piacque molto perché non stavo ferma dietro un leggio, ma mi muovevo col corpo di ballo. Recitavo e insieme ero parte di una coreografia. Io che ho sempre adorato la danza e ho sempre rimpianto di non aver potuto praticarla da professionista, mi sentivo gratificata da questa mia piccola ma incisiva partecipazione gestuale. Negli anni ’80, Peer Gynt, da Ibsen, musica incantevole di Grieg. Direttore d’orchestra il fascinosissimo Piero Bellugi. Oltre ad Albertazzi, che aveva ridotto il testo, c’erano anche la Toccafondi (mamma Aase), ed Elisabetta Pozzi (Solveig). Il solito Harem, insomma. Io facevo varie parti: il Fonditore di bottoni, la regina dei Trolls e… non mi ricordo. Il concerto aveva molto successo. Lo facemmo a Roma, al San Carlo di Napoli, al Teatro di Verdura di Palermo. Chissà perché, malgrado il fascino della musica di Grieg, non lo ricordo con gioia. Nel 1987 l’ultima mia esperienza come voce recitante in orchestra. Era L’ Arlesienne di Bizet, su testo di Alfred Daudet. Teatro Comunale di Bologna. Un giugno rovente. Una musica bellissima. Un direttore d’orchestra francese, odioso. Pierre Delvaux è l’unico musicista che ho conosciuto che fosse scostante e totalmente privo di fascino. Io che m’innamoro anche di quello che suona il triangolo, purché stia lì in orchestra a suonare, mi trovai di fronte a un muro di antipatia. Mi compensarono i magnifici professori d’orchestra che, agli applausi, quando sfilavo io , mi sorridevano incantati e battevano gli archetti sul leggìo, in segno di approvazione.
Dal sito di Anna Proclemer
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