sabato 30 giugno 2007

Via Col di Lana 12


Daumier: Interno di vagone di terza classe


Via Col di Lana 12

di Primo Casalini


Le alternative erano tre: o andare in macchina, o andare con i mezzi pubblici, o un mix delle prime due alternative. Ho scelto la quarta: andare in bicicletta alla stazione di Monza e poi con mezzi pubblici fino alla meta. In realtà ho praticato una quinta alternativa, come vedrete, ma ogni cosa a suo tempo. La ragione vera della scelta dei mezzi pubblici è stata la possibilità di leggere, nel lungo viaggio in metrò, ben due quotidiani: la Repubblica e l'Unità.
Sono uscito di casa alle ore 11,41 AM - come dite voi, che avete uso di mondo. Avevo dismesso i comodissimi Birkenstock per un paio di Reebock bianche da jogging. I giornali erano contenuti in una busta di similpelle che a dieci metri di distanza sembrava quasi bella. La busta era appoggiata sul portapacchi personalizzato realizzato, su mio disegno, dal ciclista (così a Monza chiamano il meccanico delle bici). Il mio portapacchi ha solo un inconveniente: per salire sulla bicicletta occorre che la gamba destra faccia un girotondo molto ampio, altrimenti ci si sfracella il ginocchio, destro pure lui, contro il portapacchi. L'alta statura mi facilita in tale bisogna. Montato in sella, si tratta di percorrere i due chilometri che separano (o congiungono?) casa mia dalla stazione. E' un tratto insidioso, in quanto solo 173 metri sono di pista ciclabile; il resto è on the road peggio di Kerouac. E' andata bene, infatti sono qui a raccontarvela.
Nei pressi della stazione, dopo essere sceso dalla bici previo il solito ampio girotondo, ho chiuso la catena antifurto che protegge il velocipede dai malintenzionati, notando che si stanno diffondendo catene sempre più massicce e pesanti: fra un po' i brianzoli giungeranno alle trappole per lupi. Tramite la catena, la bici è stata abbinata ad un palo in ferro di un cartellone stradale adibito a messaggi pubblicitari: c'era una scritta SHIATSU nera su fondo verdolino, ma vado di fretta e vi risparmio i dettagli. Sono entrato nell'atrio della stazione, ho guardato il video con i treni in partenza, e tramite sottopassaggio, sono giunto alla pensilina del binario 6, non dimenticando di convalidare il biglietto con la macchina obliteratrice. Nelle tasche dei calzoni, infatti, oltre alle chiavi di casa ed ad un fazzoletto fresco di bucato, c'erano biglietti per treni e per metrò a volontà. Ah, dimenticavo: indossavo calzoni di tela blu: avevo scelto la configurazione da ingegnere-operaio, da magut, insomma, come dicono qui. Pochi minuti dopo è arrivata la littorina (da Littoria, termine pre-resistenziale), sono salito, mi sono seduto. E la littorina è partita verso il Sud. Ho dimenticato una cosa: appena salito sulla littorina, prima di sedermi, ho fatto la consueta verifica, mi sono cioè rivolto ad una giovane donna dicendo: "Mi scusi, va a Milano questo treno?". Lo faccio sempre da quella volta che sono sceso a Bergamo, mentre credevo di essere a Novara. Eppoi... è piacevole avvertire quel frisson di terrore nella giovine interpellata ex abrupto, frisson che si placa appena il suo sguardo incontra il mio, abarthizzato per l'occasione.
La partenza della littorina è avvenuta alle 12,23 AM (o PM... boh... quand'è che si cambia?). Dopo pochi minuti, ero a Sesto FS, senza aver potuto dare neppure una scorsa ai due quotidiani custoditi nella busta in similpelle etc etc. Un magut con la busta... in genere pensano che io sia un odontotecnico, per questo sorridono. Sono quindi disceso negli anfratti del metrò, disinteressandomi delle edicole ricche di videocassette suddivise in due tipi: cartoni animati e video porno; sta sorgendo una terza categoria che è la miscela delle prime due. Pochi, a quell'ora, 12,31 AM, i venditori di articoli con autentica falsa griffe del vero produttore che usa la sua griffe vera come fosse falsa.
Linea 1 del metrò da Sesto FS a Cadorna: venti stazioni in mezzo. Mi sono spazzolato la Repubblica da Massimo Bucchi a Michele Serra. Ho detto di no alla zingarella sollecitatrice che il padre (?) conduce a Milano dalle montagne dell'Erzegovina. Il mio no tranquillo a simili questue non è deprecato dal popolo zingaro: sembra quasi che spregino chi li soccorre. Il metrò è un ambiente culturalmente elevato: per le tratte lunghe in ogni carrozza ci sono almeno cinque o sei persone che leggono libri non banali, filosofia e poesia in primis, ma anche musica. Edizioni Einaudi ed Adelphi prevalenti. Anche Feltrinelli, per qualche ragazza con le trecce.
Avevo appena iniziato a scorrere i titoli dell'Unità quando siamo giunti a Cadorna. Lì occorreva scendere e passare alla linea 2, sino alla stazione di Porta Genova. Questa è la quarta e penultima tratta del mio viaggio: la più breve, solo tre stazioni del metrò, verso una zona di Milano per me quasi sconosciuta, anche se contigua alla zona dei Navigli, nota a tutti. Ma di ciò poi.
A Porta Genova sono uscito da anfratti e meandri del metrò alla luce abbagliante del sole. Milano si avvia a diventare una città tropicale, come Giacarta o Bombay. Il giorno prima era piovuto tantissimo: ho ormai raccolto acqua piovana bastevole per i gerani di tutto il condominio; addirittura prima di partire per il viaggio ero incerto se prendere con me un golf di cotone, da indossare sulla camiciola, ovviamente da magut, azzurro stoviglia. E invece, in piazza di Porta Genova, tutti sudavano, compresi i tanti bambini. Si, è una zona con grande presenza di bambini, che è come dire che è una zona di extracomunitari, piena di bar-trattoria con fuori la lavagna con i prezzi. E mi sono sentito subito bene, benissimo. Poi ho capito perché: le tante passeggiate al Quartiere Latino fatte quando ero studente. Le lavagne, i bistrot, i tre menù diversi, le amicizie improvvise. Chi non c'è stato allora non conosce del tutto che cosa significa il piacere di essere vivo.
Ma sulla cartina, prima di partire da casa, non avevo guardato bene: credevo di essere a 300 metri dalla meta ed invece ero a due chilometri. Anche se ci sono le lavagne, non è bello camminare per chilometri alle 13,14 col sole cocente e la borsa in similpelle che ti si attacca alla mano. Per fortuna, ecco la darsena del Naviglio, le anatre e le oche: funzionano come le lavagne. Mi rassereno e mi accorgo delle cose. Perché le cose succedono, solo che non ce ne accorgiamo.
E finalmente, alle 13,27 ecco la meta: via Col di Lana numero 12. Si entra dal portone in un grande cortile su cui si affacciano una decina di condomini. Hai voglia, a trovare il seminterrato giusto! Perché in un seminterrato dovevo andare; finché un portinaio assai sgradevole mi ha indicato un foglio dentro una cartelletta trasparente attaccata con lo scotch al muro.
Giù per le scale, entro dall'unica porta: tre stanzoni disadorni con mobili spaiati; in fondo, due scrivanie affiancate a simularne una sola molto grande, tre personal computer, cinque donne con età variabile dai venti ai cinquanta, ed un portacenere - per fortuna. Le Girandole: questa è la sede fantasmagorica di una delle più note organizzazioni dei girotondini, quella in particolare che ha "fatto" il Palavobis. Facce appassionate e stanche. Dio, come possono essere belle le donne, quando non ci pensano proprio ad essere belle, quando hanno altro da fare che essere belle. Baudelaire l'aveva capito, centocinquant'anni fa.
Ho tirato fuori i miei 36 euro, ho avuto il mio tagliando per il treno speciale per Roma, ed abbiamo parlato un po'. Avevano avuto già mille prenotazioni, e gli ho detto che era il caso di pensare al secondo treno. Mi hanno risposto: "Aspettiamo che chi ha prenotato venga a pagare, non possiamo basarci solo sulle prenotazioni". Loro non me l'hanno detto, ma io lo so, perché non dormo all'umido: aiuto finanziario da parte dei partiti zero; aiuto organizzativo da parte dei partiti zero ( e questo sarebbe ancora più importante dei soldi).
Ognuno può pensarla come gli pare, ma se in questi giorni trovo qualcuno che mi blatera di radical-chic e di cachemire, lo prendo letteralmente a calci: noi magut, ogni tanto, possiamo anche venire a vie di fatto. A S.Giovanni, non più a piazza del Popolo, ci sarò, e passerò due notti in treno. Certo, potrei pagarmi l'aereo, ma persone così le trovo solo nei treni che viaggiano di notte.
Al ritorno, sentivo di meritarmi un premio. In via Col di Lana ho trovato un grande bar: toast, birra piccola e caffè. Di fronte al bar c'era la fermata del tram che portava alla stazione di Porta Genova. Ecco la quinta alternativa. L'ho scelta, felice di sceglierla.
7 settembre 2002 (rivisto per l'occasione)

Daumier: Interno di un vagone di prima classe

venerdì 29 giugno 2007

La signorina Doolittle


Audrey Hepburn in My Fair Lady


La signorina Doolittle

di Anna Proclemer



Eliza Doolittle e il suo Pigmalione.
A 15, 16 anni lo cercavo ardentemente il mio Pigmalione.
E anche dopo l’ho sempre inseguito.
Forse per questo ho spesso avuto vicino uomini importanti.
Importanti non per la ricchezza (per lo più erano poveri in canna come me), né per il potere, né per una particolare avvenenza. Ma erano, questo sì, degli intellettuali. Qualche volta degli artisti. Ho sempre avuto bisogno di una guida.
A 16 anni una guida importante la trovai.
Si chiamava Muzio Mazzocchi Alemanni. Nome di antica nobiltà umbra, erano conti, mi pare. Lui frequentava il primo anno di Lettere all’Università, io la seconda liceo al Mamiani.
Muzio era alto, magrissimo, le spalle un po’ curve, le guance incavate, bellissimi occhi verdi sempre un po’ arrossati, il mento aguzzo, il profilo da medaglia di un principe del Rinascimento.
Era mostruosamente intelligente e di raffinatissima e aggiornatissima cultura. Era abbonato a Solaria e a Corrente. Le critiche ermetiche di Carlo Bo per lui non avevano misteri. S’intendeva di musica, di pittura e soprattutto di poesia.
(E’ diventato più tardi un esperto di G.G.Belli, ha scritto molti libri su di lui, e ultimamente ha ricevuto un premio prestigioso per i suoi studi sul poeta romano).
Mi fece conoscere Eliot, Campana, Montale, Stravinskij, Louis Armstrong, Malipiero, John Donne, Braque, i Preraffaelliti, Bruno Barilli, Ungaretti, i Concerti Brandeburghesi… cito alla rinfusa, così come alla rinfusa io andavo spiluzzicando qua e là in questi mondi sconosciuti senza avere il tempo di approfondire. Capivo la metà di quello che leggevo o ascoltavo. L’altra metà l’assorbivo irrazionalmente, per istinto; prendevo anche molte cantonate, ma insensibilmente andavo formandomi un gusto. Quando non ascoltavamo musica o leggevamo insieme poesia si peregrinava per Roma. Camminavamo per ore ed ore, senza fermarci mai, senza sederci mai, senza mai entrare in un caffè, senza mai prendere un tram. E’ vero che fra tutti e due non avevamo letteralmente una lira, ma mi sembra così strano, visto da ora, quel nostro astratto vagabondare.
Ci muovevamo in un’atmosfera allusiva, metaforica, raggelata e incandescente, dove non c’era posto per bisogni comuni, per parole quotidiane. Io sarei morta, piuttosto che dire: sono stanca, ho freddo, mi fa male un piede, devo andare in bagno. Ma non ne soffrivo, mi andava bene così.
Mi andava molto bene così.


Dal sito di Anna Proclemer

Dalla tastiera del mio PC alla fame del mondo


Paolo Veronese: L'Aria 1560-62 Villa Barbaro Masèr (TV)


Dalla tastiera del mio PC alla fame nel mondo

di Solimano


L'altra sera, ho deciso di riparare la tastiera del PC. Mi sono organizzato: contenitore attrezzi sul tavolo, tastiera staccata dal PC e rovesciata, ricerca del cacciavite giusto - c'erano ben dieci viti da smontare per accedere ai penetrali del sacro oggetto. Già qui sono cominciati i problemi, perché le mie ditone non sono adatte a maneggiare cacciaviti e vitarelle.
Ma quando si è scoperto l'arcano, non ho potuto trattenere un Oh! di meraviglia atterrita. Figuratevi un porta-uova di carta trasparente, ma non uova di gallina, uova di lucertole – chi non le ha mai viste e toccate ha perso qualcosa nella vita. Sotto il porta-uova, c'era la circuiteria stampata, un elegante graffito di Mondrian nel suo inesistente periodo trapezoidale, poi i pirulini sottostanti ai singoli tasti e numerosi altri ammenicoli. Ho cercato di pulire con una spazzolina tutti gli anfratti, anche quelli più gelosamente celati (ritenevo ci fosse un contatto lasco), ed ho intrapreso il rimontaggio sapendo cosa mi aspettava: un lavurà de cinès. Altro che cinès, ci sarebbe voluto un cinese liofilizzato. Poco fiducioso sul risultato ottenuto, ho ricollegato la tastiera al PC, ed ho fatto un prova, schiacciando il tasto “e”. Ecco cosa è uscito sullo schermo: “ùùùùùùù”, sette u accentate.
Lì per lì ho pensato di dedicarmi alla scrittura creativa, scrivi una cosa e te ne esce un'altra, che è il tuo pensiero segreto, quello vero, poi ho staccato la tastiera, l'ho messa in una busta di plastica del GS e mi sono diretto al negozio del mio rivenditore di fiducia.
Prima di uscire di casa, mi sono accertato di avere in tasca il libretto degli assegni: infatti non avevo una idea di quello che mi sarebbe toccato spendere.
Un bel colpo di fortuna, inaspettato ma meritato, dopo un'ora di cacciaviti e vitarelle: riesco a parcheggiare proprio davanti al negozio. Entro. Solita ragazza cassiera-venditrice: si somigliano tutte, quando entri ti sorridono e ti soppesano su una loro inesorabile bilancia mentale, in genere trovandoti scarso, ma il vero problema è che è scarso il loro cedolino a fine mese ed incerto il loro futuro. Fatto saggio dal lavurà de cinés, dico: “Le tastiere non si riparano, vero?” “No, se ne compra una nuova. Meglio due”. “Tum tum, diceva il mio cuore, chissà cosa mi tocca spendere”. E seguo la ragazza che, con la mia vecchia tastiera in mano, si dirige verso una bacheca, il negozio è grande, poi estrae una tastiera nuova, una sola.
“Che prezzo ha?”
“Sei euro”
“Ci sono altri modelli?”
“Una Samsung che costa nove euro”
“Prendo la Samsung”.
In effetti, la busta che avvolgeva la tastiera Samsung su cui in questo momento sto pigiando i tasti, era di una plastica più morbida di quella dell'altra tastiera. Pago, faccio per uscire, e la ragazza mi fa: “E la tastiera vecchia? La butta lei o la butto io?” e me la porge. “La butti lei, grazie”, le ho risposto.
Poi, tornando a casa in auto - niente multa! - ho cominciato a pensare alla morale della favola. La tastiera Samsung l'avevo pagata 9 euro, l'altra l'avrei pagata 3 euro in meno, e probabilmente valeva la pena di non pagare la pubblicità della Samsung. Ma tant'è, era fatta e me ne tornavo a casa, pensando a quello che costavano trent'anni fa le macchine che perforavano le schede, non solo, erano macchine che avevano bisogno di personale specializzato, mica di un bru bru come me, che usa due dita sulla tastiera solo quando non fuma. “Eh, il progresso, signora mia!”, direbbe Arbasino.
Ma la ragazza che allora faceva la perforatrice o la verificatrice, che fa oggi? La figlia, intendo, della ragazza di allora. Non so se Arbasino lo direbbe ancora il suo il progresso signora mia. Si potrebbe fare un tazebao di confronto fra le due ragazze, pro e contro, non so chi ne uscirebbe meglio. E' difficile mescolare le componenti hardware e software della nostra vita, ci sono dei confronti che sono improponibili.
Resta un fatto: ci sono degli sviluppi della tecnica, la tastiera di un PC è un piccolo caso, a cui non corrispondono miglioramenti sia pur minimi della qualità di vita di chi quella tecnica impiega: a livello stipendio, a livello rapporto umano, a livello sicurezza per il futuro. E ci si aggiunge una osservazione di un mio amico: oggi sono vivi ed operosi su questo pianeta un numero di ricercatori superiore al totale numero dei ricercatori che ci sono stati in passato e che non ci sono più.
La storia che è così perché la gazzella corre sempre di più ed il leone deve anche lui correre sempre di più, appare un presa di fondelli che ogni giorno corre sempre di meno. Ma se ripartissimo dai quattro elementi: aria, acqua, terra, fuoco e dicessimo che oggi siamo tecnicamente in grado di fornirne uno zoccolo duro a tutti gli abitanti del pianeta? Piccola metafora per dire che il necessario oggi può e deve essere fornito a tutti, per il solo fatto che sono vivi. Fornirlo non perché siamo buoni , ma perché oggi è possibile, e crea più rogne il non farlo che il farlo. Poi c'è il superfluo, come no, ma l'uomo, quando ha il necessario va alla ricerca del superfluo: così è nata la civiltà, lungo il fiume Nilo, lungo il Tigri e l'Eufrate, lungo il fiume Giallo: non potevi non avere la pancia piena, quindi avevi del tempo da strutturare, e te lo strutturavi magari inventando la ruota o il mulino o domando i cavalli. Altrimenti, con la storia della gazzella e del leone, finirà che tutto il surplus che abbiamo lo dovremo spendere per difenderci da quelli che il surplus non ce l'hanno. Il che significa che non è più tanto vero che il lavoro è la condizione che rende cittadini: i plebei dell'antica Roma sono andati avanti per secoli in una situazione di ozio quasi generalizzato, permesso dal fatto che esistevano gli schiavi. Benissimo, noi abbiamo le macchine, facciamo sì che lavorino per noi, per tutti noi. E che ce ne faremo di tutto questo tempo libero senza aver soldi da spendere? Beh, intanto procuriamocelo… Paradosso? Non credo, peccato non esserci più fra cent'anni. La pre-condizione è una salutare doccia al cervello di ognuno di noi, e la domanda che ci si pone troppo poco: “Perché insisto, se mi nuoce?” Che è poi la morale, anzi la immorale, di tutta questa storia.


Paolo Veronese: La Terra 1560-62 Villa Barbaro Masèr (TV)

giovedì 28 giugno 2007

L'uomo che visse nel futuro



L'uomo che visse nel futuro

di Giuliano


La mattina dopo la prima trasmissione in tv di "Fahrenheit 451", il film di Truffaut tratto dal romanzo di Ray Bradbury, un mio compagno di classe (non dei peggiori) lo commentava così, parlandone con gli altri:- Oh, hai visto che roba? Bruciavano tutti i libri! Che bello... magari fosse vero!

Io facevo le medie, e me lo ricordo ancora. Come battuta poteva anche starci, soprattutto a scuola; ma a me non era piaciuta per niente.
A me piaceva leggere, e l'immagine dei libri bruciati mi aveva angosciato. Più che altro, di quel film mi aveva colpito molto l'idea degli "uomini-libro", cioè delle persone (messe ai margini della società e considerate pericolose, nel romanzo di Bradbury e nel film) che prendevano come missione della propria vita l'imparare a memoria un libro, anche lungo come "Guerra e Pace". Io non ne sarei mai stato capace, pensavo; e di questo mi sarebbe piaciuto parlare, la mattina dopo. Invece mi toccò di stare zitto, e forse anche far finta di essermi divertito alla battuta.

Nella mia memoria, le immagini di quel film - dove è vietato possedere libri, e averne in casa è grave delitto - fanno il paio con un altro caro film della mia infanzia che ( una volta ) era famoso. Il film è "L'uomo che visse nel futuro" di George Pal, tratto da "La macchina del tempo" di H.G.Wells. Il protagonista, proiettato in un futuro molto lontano, trova un mondo dove l'umanità è divisa in due: in superficie vive una popolazione di giovani molto belli e gentili, ma anche un po' idioti; sottoterra ci sono i terribili Morlock, che fanno un uso poco raccontabile degli umani di superficie.
Il protagonista, viaggiatore nel tempo, non ci si raccapezza e chiede ad una ragazza "di sopra" se ci sono dei libri che gli possano raccontare la storia. "Libri?" chiede la ragazza un po' stupita "Ah, sì, mi pare che ce ne siano, di là". E, infatti, di là i libri ci sono: ma sono così vecchi e abbandonati che, appena il protagonista ne prende in mano uno, il libro si sbriciola; e la stessa fine tocca a tutti gli altri, ormai inservibili.

Queste due sequenze molto forti, quella del rogo dei libri e quella dei libri che si sbriciolano perché inutili, mi tornano spesso alla mente. Non è una mia ossessione personale, di quelle da appassionato, o almeno lo credo: forse la mia unica colpa è quella di accendere la tv e di guardarla.
Una volta, quando facevo le medie e soprattutto prima, in tv ci andavano solo esperti e professori, e forse si esagerava; oggi siamo caduti nell'eccesso opposto. Oggi, radio e tv sembrano la saga del deficiente; i videogames la fanno da padroni e non sono sempre raccomandabili; e forse già i Morlock stanno cominciando a scavare le loro tane sotto di noi, e ci guardano con un certo appetito. Speriamo che qualcosa cambi, ma molto dipenderà da noi (noi che viviamo oggi) e non sono sicuro che le nostre mani siano le migliori...

Da Abbracci e pop corn

martedì 26 giugno 2007

Il delitto di Olga Arbélina




Il delitto di Olga Arbélina

di Gabriella Alù


All'inizio del romanzo, Olga Arbélina non è che un nome inciso su una pietra tombale in un piccolo cimitero parigino in cui sono sepolti russi fuggiti dalla Rivoluzione d'ottobre ed alle purghe staliniane. Un vecchio custode, anche lui russo, avvolto in un lungo e logoro vecchio cappotto militare, racconta ai visitatori del cimitero la loro storia.

Sotto quella lapide c'è la principessa Olga Arbélina, morta negli anni '60. Una bella donna nata all'inizio del Novecento. Fuggita ancora giovane alla rivoluzione sovietica e rifugiata assieme al figlio emofiliaco ed ancora piccolo in un paesino vicino Parigi, in una sonnolenta comunità di anziani esuli russi in cui solo le variazioni del cielo e delle stagioni costituiscono eventi significativi e dove la vita trascorre monotona.

Fino al giorno in cui un passante scopre sulla riva del fiume "nella quiete sonnolenta e campagnola" di una calda giornata estiva una scena assurda e raccapricciante: "un uomo dagli abiti inzuppati d'acqua, disteso sulla riva, con il cranio sfracellato, e una donna dai capelli scarmigliati e grondanti, dai seni nudi, una donna che sedeva immobile su una roccia, accanto all'uomo in agonia" (p.20)

Si tratta di un delitto oppure di un incidente? Al processo Olga non fa nulla per difendersi, al punto che il giudice istruttore -- il quale non crede si sia trattato di omicidio -- dice "E' la prima volta in vita mia che devo convincere una persona che non è stata lei ad uccidere" ed all'interprete, che perplesso gli chiede:"Ma non crede che attribuendosi questo delitto lei voglia tacerne un altro" il giudice risponde "Un assassino rompe una vetrina, lo confessa e, incarcerato, elude un omicidio. Ma non ci si fa carico di un omicidio per nascondere una vetrina rotta..." (p.33)

Olga viene assolta pienamente e poco dopo lascia il paese insieme al figlio. Di lei, gli abitanti di Villet-La -Forêt si disinteressano e non hanno più notizie. Comincia invece, per noi lettori, la discesa agli Inferi nella scoperta dell'inconfessabile delitto di cui Olga Arbélina si è resa colpevole, della straziante presa di coscienza della protagonista che dapprima intuisce, intravede, scopre concretamente, infine accetta -- se pure inorridita -- ciò che non può nemmeno essere pensato. Eppure, Olga deve trovare le parole per dirla, "questa cosa che non si lasciava nè pensare nè dire" Deve riuscire a "dire ciò che era proibito alle parole".

Fino ad una sera in cui "un pensiero la ferì con la sua verità dolorosa e bella. Se quanto stavano vivendo poteva chiamarsi amore, allora si trattava di un amore assoluto perchè colpito da un divieto inviolabile eppure violato, un amore visto solo da Dio perchè mostruosamente inconcepibile per gli uomini, un amore vissuto come l'eterno primo istante di un'altra vita..."

La grande bellezza di questo romanzo in cui la vita francese di Olga è spesso inframezzata da flash back della sua vita nella Russia pre-rivoluzionaria sta in questa lenta osservazione inframezzata da eventi dolorosi, nella descrizione di un tempo che passa ed allo stesso rimane immobile, nel comportamento da sonnambuli che Makine attribuisce ai suoi protagonisti, nella ineluttabilità allucinatoria in cui matura un "delitto" ("crime" nel titolo originale francese) ben più terribile di un omicidio...

Sono due le citazioni che Makine pone in epigrafe a questo bellissimo ma emotivamente molto impegnativo romanzo: la prima è da I fratelli Karamazov di Dostoevskij e dice: "Mia madre ha dovuto piegare Dio per me", depose l'accusato nell'inchiesta".

La seconda citazione è tratta da "Sentimenti filiali di un parricida" uno scritto di Proust -- importantissimo ma in genere noto più che altro agli "addetti ai lavori" --- che dice: "Che ne hai fatto di me? Che ne hai fatto di me? A volerci riflettere, non esiste forse una madre amorosa che non potrebbe, sul suo letto di morte, e spesso ancor prima, rimproverare così il figlio"

Di Makine, autore russo emigrato in Francia dove vive da anni e che ho scoperto da poco, avevo parlato parecchio quando ho scritto del suo La donna che aspettava

Con la lettura di questo Il delitto di Olga Arbélina Makine si conferma, ai miei occhi, un vero maestro nella creazione di particolari atmosfere, capace di evocare i mille aspetti che può assumere un paesaggio innevato, di trasmettere a chi legge il senso dei rumori misteriosi di una casa, il drammatico significato del banale cigolio di una porta, del rumore di passi che si fondono e si confondono con il sibilo dl vento.

La natura è molto presente, nei romanzi di Makine, ma non costituisce mai mero contesto e le sue descrizioni non sono mai fine a se stesse: gli elementi della natura sono utilizzati come codici e decodificatori linguistici del contenuto narrativo. Altrettanto importante il senso del tempo: in questo romanzo, come ne La donna che aspettava, il tempo sembra sospeso se non addirittura immobile. Come in Proust, è il tempo interiore dei suoi personaggi quello che conta, e non il tempo dei calendari.

Man mano che procedo nella conoscenza di questo autore scopro temi ricorrenti, analogie, elementi comuni tra i suoi libri. Per ora posso parlare, evidentemente, solo dei due che ho letto finora e tra le tante analogie sono rimasta colpita anche da un particolare apparentemente secondario: in entrambi i romanzi i personaggi più importanti indossano "un lungo, vecchio e logoro cappotto militare" che viene nominato talmente tante volte da assumere un robusto valore simbolico: vanno in giro con questo indumento (e le parole che Makine usa per descriverlo sono sempre le stesse) Vera, la protagonista di La donna che aspettava, il vecchio russo custode del cimitero, il figlio di Olga e il suo ex marito ne Il delitto di Olga Arbélina. Mi sono chiesta se questo cappotto non possa essere il simbolo del peso del tempo e del passato, del logoramento dell'anima dei personaggi, del loro tentativo di proteggersi indossando qualcosa fuori dal tempo. E della tragicità della guerra. Passata, ma i cui effetti sono, in entrambi i romanzi, sempre presenti. Chissà.

Andreï MAKINE, Il delitto di Olga Arbélina (tit. orig. Le crime d'Olga Arbélina), traduz. dal francese di Anna Zanetti, p.260, Passigli editore, 2000

Da NonSoloProust

Perseguitati da 3000 anni


Ossuari biconici villanoviani


Perseguitati da 3000 anni

di Solimano


Noi di famiglia siamo Villanoviani. Abbiamo sempre vissuto attorno a quel posto che oggi si chiama Bologna, a volte in pianura, a volte in collina, a seconda degli eventi, che oggi si chiamano opportunità.
Tremila anni fa ce ne stavamo tranquilli a divertirci facendo ciotole e piattini, che ancora oggi gli archeologi della domenica recuperano con entusiasmo e Vinavil.
Poi, sono arrivati gli Etruschi. Gli abbiamo tirato addosso di tutto, dai piatti agli sgabelli, ma avevano arnesi di ferro, ed abbiamo dovuto transare. Le perdite umane, per fortuna, sono state limitate: solo il 40% della famiglia. Per 200 anni ce la siamo passata abbastanza bene, però. E' vero, comandavano loro e avevano quel modo di scrivere del tutto incomprensibile. Però sbevazzavano e copulavano alla grande, e la cosa piaceva fin troppo ai nostri giovani, che erano peggio dei nostri vecchi. Credo che con tutte queste copule, fra di noi ci fosse anche qualche bastardino, ma la prova del DNA non l'avevano ancora inventata, e la famiglia comunque numericamente cresceva.
Poi, sono arrivati i Galli. Nudi e Capelloni! Se la sono presa soprattutto con gli Etruschi; a noi è andata bene: abbiamo perso solo il 20% della famiglia. Con i Galli è stata una goduria. Grandi feste nei boschi guidati dai Druidi, i loro animatori, per capirsi. Gente strana i Galli. Capace di distruggere un villaggio e di tornarci il giorno dopo per far musica con gli abitanti e di mettersi a piangere perché gli abitanti non c'erano più. E per altri 200 anni siamo andati avanti con rubalizi di galline, heavy metal e frotte di bastardini. Sempre senza il DNA.
Ma arrivarono i Romani. Gente seria ed organizzata. Eravamo già predisposti a perdere il 30% della famiglia, ma, stranamente, non li hanno fatti fuori. Li hanno solo portati via per fargli fare i lavori di casa a Roma. Invece i Galli, sempre Nudi e Capelloni, sono stati fatti fuori quasi tutti. I pochi rimasti, a Roma come gladiatori negli spettacoli: sempre fortunati, gli heavy metal!
C'eravamo appena abituati ai Romani, quando c'è stata la sceneggiata dei Cartaginesi, che è durata solo 20 anni. Era un piacere veder passare il loro esercito multinazionale: Punici, Iberici, Numidi e nuovi Galli (i parenti incazzati dei gladiatori...). Ho visto anche il Grande Satana Annibale, persino guercio, tanto era cattivo. E la loro Arma Assoluta: gli elefanti! Spaventavano le poche galline rimaste, ma l'audience presso i nostri ragazzi era alta. Questo rebellotto, che è durato veramente poco, appena 20 anni come ho già detto, è costato solo il 20% della famiglia, largamente compensato dai bastardini, qualcuno anche moretto.
Poi i Romani hanno stabilito la "pax romana". Quanti posti di lavoro hanno creato! Le Grandi Opere! Strade, acquedotti, ponti tutti costruiti da manodopera nostra, che, nel tempo libero, faceva i lavori di casa per i geometri Romani. Per 600 anni ci siamo annoiati. L'unico svago erano le tantissime divinità portate dai Romani. Diversissime ed imprevedibili. L'una in concorrenza con l'altra. E' allora che è nato il libero mercato.
Ma il Monopolio era in agguato. Con delle offerte speciali sull'aldiquà e sull'aldilà ha fatto il dumping. Noi, però, con l'invenzione dei Santi, l'abbiamo fregato: San Giorgio è Marte, Santa Maria Maddalena è Venere, San Sebastiano è Apollo, San Rocco è Esculapio, San Cristoforo è Ercole, San Gennaro è San Gennaro, che non c'è mai stato... ma non ditelo in giro, mi raccomando... Quando il Monopolio se ne accorgeva, picchiava duro, raccomandandoci per l'aldilà.
La storia non è finita, con la Pax Romana e col Monopolio. Ci sono stati i Visigoti, gli Ostrogoti, i Bizantini, e Longobardi, Franchi, Sassoni, Svevi... Quisquilie, comunque: la partita dare/avere è stata sempre a nostro favore: ogni volta 10% in meno, compensato dal 15% in più di bastardini. E tanti, tanti posti di lavoro.
Ora ci stiamo trasformando in annoiati fancazzisti. Stiamo offrendo posti di lavoro a gente di tutti i colori. Facciamo del bene, insomma. Abbiamo un grande vantaggio, oggi: la prova del DNA. E possiamo finalmente dire quello che abbiamo sempre pensato: basta con i bastardini!!!
16 maggio 2003 (rivista per l'occasione)


Pieter Pawel Rubens

Riflessioni

Habanera



"Uno dovrebbe iniziare un blog con lo stesso spirito con cui comincia un suo diario privato, l'unica differenza è che il diario è a disposizione dei passanti. E qui si pone una domanda: quanti blogger, prima di Internet, tenevano un diario privato? Secondo me pochissimi, il che significa che il loro vero impulso è il narcisismo."

Così scrive Solimano in " Splendori e miserie dei blog". Ottimo spunto di riflessione per me che sono una bloggerina ai primi passi. Ho tenuto un diario anch'io, quando ero molto giovane, in maniera però discontinua, senza dargli mai eccessiva importanza.
Qualcuno, ricordo, me lo aveva regalato ed io, per qualche tempo, ci ho scritto su qualcosa.
Le solite scemate che si scrivono a quella età, niente che meriti di essere ricordato e tramandato ai posteri.
Poi di scrivere note personali non ho avuto più tempo, nè voglia, ed ancora oggi è così.
Perchè, dunque, un blog? Non per narcisismo, si direbbe, eppure...
Non sono in grado di leggere in me stessa fino al punto di darvi, e soprattutto di darmi, una risposta. Preferisco, come sempre, parlare non di me ma degli altri.

Rileggo gli ultimi post su Nonblog:
Contatti, di Roby, il suo ricordo della morbidezza avvolgente della nonna contrapposta alla durezza del banco di scuola. Non vedo traccia di narcisismo nelle sue parole, trovo invece una commovente umanità ed un grandissimo amore per la vita.

Rileggo LA Musica, I presume di bao, il suo desiderio di raccontarci, per condividerli con noi, i momenti indimenticabili vissuti a Berlino ascoltando Musica, nella sala maggiore della Philarmonie di Berlino, e gliene sono grata.

Rileggo Clelia, il suo ricordo doloroso e vivo di quella mano che le ha passato il testimone e ammiro il suo coraggio, la sua forza, la sua capacità di comunicarci emozioni in maniera schiva e sincera. Leggendola mi sento legata a lei, a lei che non mi conosce e che non conosco...

Anche questo è blog, sì, tutto questo è blog, per come lo intendo io.

lunedì 25 giugno 2007

LA Musica, I presume



LA Musica, I presume (un appello a DC)

di baotzebao


È da subito dopo i primi quindici, venti secondi nei quali la musica ha raggiunto le mie orecchie, alle 8.00 precise di venerdì 15 giugno.
E’ in quell’attimo che mi sono fatto due domande: ma cos’era, allora, quella cosa che ho ascoltato fino ad ora? E come farò, senza mandare chi mi legge o ascolta a un concerto nella sala maggiore della Philarmonie di Berlino, a spiegare cosa è stato?
La musica, lì e allora, mi ha trascinato via. Ma adesso ben forte, e da quando finì la 4a di Bruckner già in un pianissimo, la seconda domanda risuona OGNI volta che la radio, il cd player, o il mio piccolo Mac ‘suonano’qualcosa.
Alla prima ho trovato una prima banale, incompleta, parziale e personale risposta: era musica anche quella del Teatro Verdi, del Politeama Rossetti, della Scala…: Serie B, o C, se volete, ma sempre pur musica. E sto parlando, sia chiaro, non dei musicisti ma dell’acustica.
Ecco, ho detto la parola: acustica.
Per cercare di rispondere alla seconda e per me più importante domanda, io non basto.
Ecco tutto, mi sono detto ieri sera, ammettendo di non avere le parole, l’educazione lessicale, la capacità e le competenze tecniche per farlo. Stavo per andare a nanna, dopo una travolgente esecuzione della prima sinfonia di Gustav Mahler, a Radio Tre Suite.
(Gli dei e la RAI proteggano l’esistenza e la crescita, nonché il miglioramento delle sintonie dell’unica radio ascoltabile in italia, quando si vuole sentire – e non solo ascoltare – qualcosa. )
E stamattina, la risposta è arrivata.
La risposta si chiama DC.
Ecco. So già che qualcuno, per un attimo soltanto, ha strabuzzato gli occhi.
No, non alludo al partito morto e mai sepolto, lo Zelig dell’arco costituzionale italiano.
(Se qualcuno per Zelig ha inteso il cabaret, beh: fa ridere chi ha capito la vera allusione. Grazie ma si informi. Citofonare Woody Allen.)
Ma a un amico, di pelle e di bips, che ha la competenza, il lessico, le parole… per dire a me cosa sia l’acustica, in che modo influisca sull’ascolto. Eccetera.
So che lo chiamo, e per di più pubblicamente, a una prova non proprio di facilissima soluzione. E per un uomo discreto, nonostante il suo peso, essere chiamato allo scoperto è cosa che potrebbe infastidire. Ma DC se vuole, se si lascia essere, è l’unico che io conosca in grado di rispondere a me, e a voi, che mi auguro, se siete arrivati a leggere fin qui…
Gli do però tutto il tempo che vuole, e tutte le risposte: da cento anni e poi due parole, in giù.
A voi che leggete, però, rivelo una parte, quella virtuale, della ragion per cui ho tanta fiducia in DC.
Fate un giro qui, da Olgy, a Remitur ( sin dal nome un parente carissimo, un gemello: un modello, per a vànvera).
In attesa della sua risposta, che -se verrà- sarà pubblicata sia nei commenti che come post autonomo ( e, se DC vorrà anche nel suo spazio di Rete), vado a Bach, clavicembalo ben temperato, nella trascrizione per pianoforte, esecutore Daniel Barenboim.
La di da…

Da a vànvera

Splendori e miserie dei blog


Blanche Ritratto di Proust (1892) Parigi, Musée d'Orsay


Splendori e miserie dei blog

di Solimano


Quello che frega chi comincia un blog è l'illusione di credere di aprire una finestra sul mondo, e che il mondo sia ansioso di ascoltarlo. Detta così, sembra del tutto evidente l'assurdità della illusione, ma occorre mettersi nella testa di chi decide di cominciare il blog. L'illusione, il sogno, chiamiamolo come vogliamo, è quello, per quanto lo si neghi anche a se stessi, le bugie più insidiose. Uno dovrebbe iniziare un blog con lo stesso spirito con cui comincia un suo diario privato, l'unica differenza è che il diario è a disposizione dei passanti. E qui si pone una domanda: quanti blogger, prima di Internet, tenevano un diario privato? Secondo me pochissimi, il che significa che il loro vero impulso è il narcisismo. Intendiamoci, anche nel diario privato c'è una componente di narcisismo ma c'è una schiettezza maggiore, anche se ci sono quelli che barano facendo i solitari.
Quando iniziano, informano alcuni amici chiedendo loro di inserire dei commenti (trappoletta pestifera) e si buttano con entusiasmo nella nuova impresa, che viene praticata spesso dal posto di lavoro, nell'intervallo mensa. Nel primo periodo, che dura alcuni mesi, ogni giorno nel loro blog aggiungono una novità, e cercano di pubblicizzarlo inserendo commenti in altri blog, scegliendo caratteri colorati, sfondi particolari, immagini, liste di blog segnalati (la tentazione della lobby è sempre in agguato). Una agitazione piuttosto frenetica, me li immagino quante volte nella vita reale dicano a tutti che loro hanno finalmente un blog.
Ma dopo alcuni mesi inizia la sensazione di fatica e si chiedono il perché. Cominciano a saltare qualche giorno, a fare dei copia/incolla da altri blog, ma raramente hanno il coraggio di chiudere dicendo semplicemente: "Mi sono stufato”, che è una ragione plausibilissima. In questi casi, la fine del blog si verifica dopo sei mesi dall'inizio, e dopo aver sofferto gli ultimi tre mesi per non dargliela vinta. Dargliela vinta a chi? Il meccanismo è il piccolo orgoglio personale che si sente offeso. Meglio, molto meglio, quello che hanno fatto due ottimi blog, Mimmina e Galline si nasce che hanno anche avuto un certo successo e che hanno deciso di chiudere così, quasi di botto, dopo circa due anni dall'inizio. Ci avranno riflettuto su per una quindicina di giorni al massimo. Si tratta di fare un calcolo di costi/ricavi, se non è più un piacere, che piacere è? D'altra parte, anche nel diario personale succede così: scrivi certe volte anche tre volte in un giorno, poi per tre settimane non ci pensi proprio. Questa è un'altra fregatura del blog: l'ossessione dell'aggiornamento quotidiano, da cui si è mirabilmente sottratto il blog Lo scopriremo solo vivendo il cui ultimo aggiornamento è di gennaio. Secondo me l'autrice si diverte ogni giorno a vedere le visite di quelli che attendono quando lei si degnerà di scrivere di nuovo. Ma più che un blog è un vero e proprio romanzo a puntate, solo che non si sa quando uscirà la prossima puntata. Da questo punto di vista, l'esperienza del blog è simile a certe esperienze dei mistici, che prima di giungere alla illuminazione debbono passare attraverso il todo es nada. Solo che non giungono alla illuminazione… passano ad altro. Cosa fa un ex blogger? Sarebbe interessante una indagine conoscitiva. L'esperienza che mi sentirei di caldeggiare è quella di scriversi un diario personale, munendosi di un notes, che si può portare sempre appresso e su cui si può scrivere alla fermata dell'autobus. Il tema del diario potrebbe essere: “La volta che decisi di aprire un blog”. Recupererebbero un sano senso dell'umorismo, ed un po' di amore per se stessi, il che non guasta.
Poi c'è un'altra fregatura: l'effetto rullo. Tu puoi aver scritto un brano molto bello, ma dopo pochi giorni, con la storia dell'aggiornamento quotidiano, è completamente passato di cottura.
E' la sensazione che io definirei “Molto rumore per nulla” che è ad esempio fortissima nei forum, in cui si cominciano discussioni che per qualche giorno coinvolgono molti partecipanti, poi improvvisamente finiscono, e dopo un po' nessuno si ricorda più il tempo e l'entusiasmo, la rabbia magari che ha speso dietro quella discussione di cui non gli importa più nulla. Alla ricerca del tempo perduto. In fondo, queste due fregature, quella del credere di parlare a tutto il mondo e quella di passare di cottura dopo pochi giorni, sono due formidabili leve per toccare con mano l'esperienza fondamentale sempre negata e sempre riaffermata: solo l'impermanenza è permanente, come la musica, come il respiro.
Per cui, la soluzione del problema io non la vedo, salvo rare eccezioni, nel blog personale, ma in un multiblog in cui confluiscono i diari di persone diverse, ognuna delle quali liberamente fa le sue scelte, ha i suoi tempi di reazione, ancor meglio se le persone si conoscono e sono in corrispondenza fra di loro o nella vita reale o tramite e-mail. Il che non vuol dire evitare l'impermanenza (anche Stile libero finirà, ha già più di due anni) ma creare più frequentemente un effetto sorpresa, una polifonia di voci. Per dirla tutta, sono convinto che solo così si può evitare di mettersi in punta di piedi, con le vene del collo tirate, e risparmiarsi le forzature assurde, il chiasso inutile che sembra la obbligatoria condanna della rete. Quale è in fondo il tempo che si può ritrovare? Quello che si è perduto, perché è gratis: fata volentes ducunt, nolentes trahunt.
13-15 marzo 2005

P.S. L'immagine l'ho presa dal sito Marcel Proust di Gabriella Alù , e la ringrazio.

sabato 23 giugno 2007

Contatti




Contatti

di Roby


Uno dei miei primi ricordi "tattili" è la morbidezza e la consistenza pastosa delle braccia grassocce della nonna, fra le quali potevo sonnecchiare in tutta comodità. Non era, in realtà, una donna particolarmente espansiva ed affettuosa, tutta presa dalle impegnative incombenze domestiche che non amava delegare a nessun altro: ma la sensazione del suo avambraccio largo e soffice come un cuscino di piume resta indelebile, nella mia memoria di bambina. Quanto erano scomodi, invece, i vecchi banchi di legno che per buona parte delle elementari hanno accompagnato le mie esperienze scolastiche! Qualcuno di voi ha fatto in tempo a conoscerli? Sedile e piano di scrittura erano fissati ad un’unica base, senza possibilità di dondolarsi, spostarsi, "distrarsi": i quarti posteriori si indolenzivano presto, e i piedi scalpitavano sotto il tavolo… ma nessuna di noi scolarette –escluse un paio di pecore nere additate al pubblico ludibrio- osava lamentarsi, interrompendo l’ordinata lezione della signorina maestra. Alla fine, per fortuna, arrivavano le vacanze: e al mare uno dei passatempi più gettonati era buttarsi in acqua, uscire di corsa, rotolarsi sul bagnasciuga "impanandosi" come cotolette e rituffarsi, per tornare belle pulite. Il bello stava nel sopportare la sensazione fastidiosa del contatto con i granellini finissimi, un attimo prima di risciacquarsi fra spruzzi e risate, quelle risate "di gola" che da adulta non ti riescono più. Poi di colpo, un giorno, ti riscuoti e capisci che l’infanzia è finita. Succede quando, eludendo la sorveglianza di mamma e papà, entri nella camera in penombra dove tua nonna è distesa immobile, completamente vestita, gli occhi chiusi e ai piedi le scarpe "buone". Ti hanno detto che è morta, ma tu hai nove anni e mezzo, un’età in cui la morte ancora non esiste. Allora ti avvicini al letto, la guardi, allunghi la mano e le tocchi il braccio. Solo così, attraverso quel contatto, capisci. E scoprendo, tuo malgrado, di esser diventata grande, sconsolatamente piangi.

Mani


Judith Leyster: La serenata (particolare)


Mani

di Clelia Mazzini


376. Mi dicesti: "Non mi è rimasto che il tempo, dove sono bruciati tutti i miei amori". Era un punto solo, appena, ma bastava per rompere gli specchi, per elargirti un futuro che non avevi, che non volevi.
Azzurri, gli occhi, e azzurro anche il cuore, ma le tue ciglia erano una barriera insormontabile, uno sbarramento fitto di sentimenti e ragioni, utile - forse - a preservare il tuo io, da quel silenzio profondo a cui stavi andando incontro.
"Perdonami" e con una sola mano risolvesti un enigma vecchio di secoli.
Li ho ricordati dopo così tanto tempo, e dopo un repentino risveglio, quello sguardo e quella mano che accompagnarono il tuo viaggio, il tuo coraggio.
"Voglio che tu sappia..." mi dicesti poi con la voce di un vecchio giovane, con la modulazione del pazzo che sa bene cosa dice. Ma le tue parole si ruppero sul frangivento del destino. E lì rimasero, appese, come la sera che stava per arrivare, sola, in un cuneo di vento.
Uscii sfinita ma contenta, in fondo la vita mi aveva passato il tuo testimone, tutto tempestato di sogni, pronto a restituirmi di te ogni profumo, ogni gesto, ogni più utile persuasione.
E queste, in fondo, sono le tue parole, sulle quali io ho versato soltanto l'inchiostro dell'amore.

377. …dove io non ricevo alcun resto / in vita spicciola dall’esistenza, / ma segno solo ciò che spendo, / e spendo, / tutto quello che conosco.
[Vladimir V. Majakovskij]

Da Akatalepsia

giovedì 21 giugno 2007

Tre amici: Lagerino




Il mio amico Lagerino

di Solimano



A Verona, a circa due chilometri di distanza dal mio amico Giovanni, abita un altro mio amico, che ho sempre chiamato Anonimo, solo da poco tempo ho imparato che potrebbe chiamarsi Lagerino Stefano, qui con voi lo chiamerò Lagerino, ma quando sono con lui preferisco chiamarlo Anonimo, lui ci ride su un po' sardonico, sono secoli che ci si diverte, con la storia dell'anonimato. Come carattere, tanto ombroso è Lorenzo, tanto tranquillo è Giovanni, tanto allegramente furioso è Lagerino. Lui si diverte solo se c'è da lavorare con le mani, secondo me si divertiva anche a menarle, secoli fa, ma io allora non c'ero. Il suo divertimento sono le lamine in bronzo, non è che, come fanno altri, lui faccia delle vere e proprie porte in bronzo, no, fa delle lamine abbastanza sottili e quando sono pronte, cioè quando ha fatto in modo che ci fosse una specie di bassorilievo tutto suo, le inchioda sulla porta, che è di legno massiccio.
All'inizio era il solo a farlo, poi ci si sono aggiunti altri due scultori bravi anche loro, ognuno ha il suo stile, però sono meno allegri e meno furiosi di lui, l'Anonimo amico mio. C'è da dire che Lagerino faceva parte di un bel giro, tutto di scultori in pietra, soprattutto Nicolò, anche Guglielmo, che hanno lavorato fianco a fianco con lui, ma c'era uno molto importante, un po' più vecchio, che però non abitava a Verona ma a Modena, un certo Wiligelmo, che dal nome doveva essere uno molto del Nord. Con l'Anonimo, ovvero Lagerino, non c'è verso: o piace o non piace. Ha rischiato molto quando hanno ingrandito la sua porta, qualcuno dei preti più importanti voleva prendere l'occasione di chiamare qualche suo raccomandato che aveva anche studiato, ma quello che ha sempre difeso Lagerino è stato il fatto che il popolo era con lui. Non guardava le irregolarità dell'anatomia, la mancanza degli sfondi: ai popolani di Lagerino sono sempre piaciute la vivacità ed il senso del movimento. Anche anni dopo l'hanno criticato: nel Settecento un certo Maffei parlò di "fantocci strani", nel Novecento Venturi, il padre non il figlio, parlò di "regno delle scimmie", roba da querela. Ma Lagerino non vuole andare in tribunale, preferisce far festa con i suoi amici, gente rozza e sveglia come lui. Una sola cosa gli dà fastidio, che i pretoni attuali della chiesa di San Zeno facciano pagare per entrare in chiesa, così sono di meno gli amici che vengono da lui, per giunta l'hanno un po' sacrificato tenendo la porta semichiusa, in questo modo gli amici non riescono a guardarlo in faccia e non lo può nemmeno lui, sono cose a cui tiene, secondo me ha ragione: uno estroverso come lui non bisogna metterlo in un angolo come se fosse l'asino della classe.
23 aprile 2007

P.S.
Al battenti bronzei della porta di San Zeno ho dedicato a suo tempo un Bel Momento.

Qui sotto c'è la danza di Salomé, arrotolata su di sé, davanti al tavolo su cui si stanno passando la testa del Battista.


Camera con vista



Camera con vista

di Roby


Mentre Ivory girava a Firenze questo film, io ero impegnata nella faticosa stesura della mia chilometrica tesi di laurea, giusto a due passi dai luoghi principali delle riprese. Ricordo di aver visto Piazza SS. Annunziata "travestita" da piazza d'inizio Novecento, piena di figuranti in costume, con la macchina da presa che inquadra da sotto in su la protagonista, per evitare le vetrine moderne di via dei Servi: e poi, in S. Croce, il cast impegnato nell'ennesimo ciak della scena dell'accoltellamento fra i due giovinastri, che tanto turba con il rosso violento del sangue l'anglosassone miss Lucy Honeychurch, giunta in riva all'Arno insieme alla cugina-chaperon Charlotte e all'immancabile guida Baedeker. Strano tipo, quest'inglesina "perbene", in apparenza freddina e sotto sotto, invece, tutta fuoco: la Bonham-Carter e il bel Julian Sands -George, suo aitante ma problematico "seduttore"- s'impegnano molto ma non riescono ad entusiasmarmi più di tanto, penalizzati dal confronto con tre "mostri" come Judy Dench, Maggie Smith e Daniel Day-Lewis. L'emancipata scrittrice della Dench è irresistibile quando coinvolge l'impettita Smith-Charlotte in una passeggiata nei vicoletti del centro storico, tra gli sguardi equivoci e le grossolane avances dei bellimbusti locali: e la Smith è perfetta nella caratterizzazione del personaggio di parente povera e zitella, costantemente bisognosa di attirare l'attenzione sui suoi innumerevoli problemi di salute: mentre Daniel Day-Lewis -molto attraente in altre pellicole- qui riesce a trasformarsi in un Cecilio ridicolo, al limite della macchietta. Memorabile la scena del bacio (???) fra lui, tutto rigido e sussiegoso, e Lucy, la quale, avendo sperimentato in precedenza le infuocate labbra di George, rimane lì perplessa, dubbiosa e insoddisfatta. E' in quel momento, probabilmente, che decide: non sarà certo con questo dandy impomatato che trascorrerà il suo prossimo soggiorno in una "camera con vista"... perchè del panorama esterno, in certi casi, si può benissimo fare a meno: di quello interno (oh my God!) assolutamente no.
PS: oltre alle musiche originali di Robbins, da segnalare nella colonna sonora la presenza di veri gioiellini, tra i quali spicca l'aria "O mio babbino caro" tratta dal Gianni Schicchi.

Da Abbracci e pop corn

mercoledì 20 giugno 2007

Tre amici: Giovanni



Il mio amico Giovanni


di Solimano



Già che ero da quelle parti, decisi di andare a trovare Giovanni, che non abitava poi a grande distanza. Giovanni è molto diverso da Lorenzo. Innanzitutto è un frate, ma di tipo molto particolare, perché ha studiato matematica, e l'ordine saggiamente lo adopera come architetto e come intarsiatore, perché la prospettiva si basa sulla matematica e Giovanni si è accorto che nelle tarsie di legno le prospettive vengono benissimo. Non gli rompono le scatole con funzioni, prediche e novene, gli chiedono spesso di viaggiare, e Giovanni va negli altri conventi, non solo, siccome la fama circola, adesso lo chiamano anche a Napoli ed a Roma. Poi, è un frate che ha molti amici nel mondo, come dicono loro.
Il suo commercialista si chiama Luca, ed ha inventato un sistema di contabilità molto comodo, inoltre ha degli amici di alto livello: Luciano, Piero, Leonardo, gente veramente tosta. Luca impara e siccome è un po' birichino come tutti i commercialisti, va in giro a dire che certe cose le ha inventate lui, voi non credetegli ma lasciate perdere, è un po' una sua debolezza.
Giovanni non ha di queste fisime, bada alle architetture ed alle tarsie. Curioso com'è, non rappresenta solo degli oggetti liturgici o dei santi, ma tante altre cose: le vie di Verona, che è la città dove è nato, le piazze, persino l'Arena, poi i monti sopra Verona, con il castello in cima, poi nelle vie ogni tanto inserisce qualche persona che dà le spalle a noi che guardiamo la tarsia, poi i poliedri, che Luca dice che li ha inventati lui, ma secondo me ci hanno messo le mani Piero e Leonardo, poi gli strumenti musicali di ogni tipo, canestre di frutta, conigli, galli, quaglie, persino pipistrelli, poi libri, chiusi ed aperti, compassi, clessidre, erbe che crescono sulle mura, viti con i pampini e grappoli d'uva, uccelli in volo, anche due rondini belle grosse, però ferme sotto una colonna, poi chiese viste da fuori, anche viste dal di dentro. Ha fatto uno scherzo magnifico: le tarsie le doveva fare per una chiesa che si chiama Santa Maria in Organo (proprio così, la gente ride, voi non fateci caso), bene, in una tarsia ha rappresentato la chiesa ed anche il campanile che non c'era ancora - lo stanno finendo - un bel campanile diverso dai soliti, ha un'aria un po' esotica.
Giovanni è sempre indaffarato e sempre di buon umore, tempo fa gli è giunta notizia che il Papa nuovo, una testa un po' balzana, aveva deciso di togliere le tarsie che lui aveva fatto per il Palazzo Vaticano, Giovanni ha fatto spallucce ed ha detto ecchissenefrega! non ditelo in giro, mi raccomando. Qualche altro frate - il mondo è pieno di invidiosi - si è permesso di dirgli che le sue tarsie sono troppo allegre, Giovanni si è grattato la chierica e gli ha detto: "Hai ragione, ci metterò anche un teschio!" E l'ha fatto, solo che persino il teschio gli è uscito allegro, se la ride pure lui.
La prima volta che ho visto le tarsie ho avuto una impressione di disordine, le tarsie avevano tutti gli sportelli metà aperti metà chiusi, poi mi sono accorto che non c'erano sportelli, era tutto un inganno che aveva architettato Giovanni. Gli ho chiesto quanti amici lo vengono a trovare, mi ha risposto. "Poca brigata vita beata!" Così ho capito che anche lui, come Lorenzo, non ha tanti amici, qualche migliaio all'anno, malgrado se ne meriterebbe molti di più, ma non si può avere tutto dalla vita. Ogni tanto gli chiedo come mai si è fatto frate e lui mi risponde: "Non l'ho fatto io, sono stati i miei, ed hanno fatto bene". Ho capito quello che voleva veramente dirmi: se non si fosse fatto frate non avrebbe imparato tutte le belle cose che sa.
Prima di andar via, ha voluto che vedessi bene il campanile quasi finito, è un po' una sua debolezza, ma ha ragione, il campanile è persino più bello delle tarsie. Siamo andati a bere alla osteria lì all'angolo, ed ha voluto assolutamente pagare lui. Quando gli ho detto che ieri ero da Lorenzo, ha tirato un sospiro e mi ha ribattuto: "Ma quando la smetterà di procurarsi dei problemi da solo?" "Mai", gli ho risposto, e ci abbiamo fatto su una risata, non cattiva però.
19 aprile 2007

P.S.
A Fra' Giovanni da Verona ed alle sue tarsie in Santa Maria in Organo ho dedicato un Bel Momento:

domenica 17 giugno 2007

Poesie di Arsenij Tarkovskij




Poesie di Arsenij Tarkovskij

A cura di Giuliano



tratte da “LO SPECCHIO” di Andrej Tarkovskij (1975)


1.
Dei nostri incontri
ogni istante festeggiavamo
come un'epifania,
soli nell'universo tutto.
Più ardita e lieve d'un battito d'ali
per le scale correvi
come un capogiro,
precedendomi tra cortine di umido lillà
nel tuo regno dall'altra parte dello specchio.
Quando la notte venne
ebbi da te la grazia.
Si spalancarono le porte dell'altare
e le tenebre illuminò,
chinandosi lenta, la tua nudità.
E io, destandomi, "sii benedetta", dissi,
pur sapendo che oltraggio era
la mia benedizione.
Tu dormivi,
e a sfiorarti le palpebre col suo violetto
a te tendeva, dal tavolo, il lillà.
E le tue palpebre sfiorate di violetto
erano quiete, e calda la tua mano.
E nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumavano le montagne, luceva il mare.
E tu tenevi in mano la sfera di cristallo,
e tu in trono dormivi,
e, Dio ! ,
tu eri mia.
Poi ti destasti,
e trasfigurando il quotidiano vocabolario umano
a piena voce pronunciasti
" Tu ! "
E la parola svelò il suo vero significato,
e zar divenne.
Nel mondo tutto fu trasfigurato,
anche le cose semplici,
- il catino, la brocca, l'acqua
che sta fra noi come una sentinella,
inerte e dura.
Chissà dove fummo spinti...
Dinanzi a noi si stesero, come miraggi,
città nate da un prodigio.
La mente sola si stendeva
sotto i nostri piedi,
e gli uccelli c'eran compagni di viaggio,
e i pesci balzavano dal fiume,
e il cielo si spalancava ai nostri occhi
quando il destino seguiva i nostri passi
come un pazzo con il rasoio in mano.

2.
Ieri ti ho attesa fin dal mattino,
ma loro sapevano che non saresti venuta.
Ricordi che bella giornata era?
Una festa. Ed io uscivo senza il cappotto...
Oggi sei venuta, e ci hanno preparato
una giornata particolarmente grigia.
La pioggia, l'ora così tarda,
le gocce scorrono per i rami freddi...
La parola non serve a placarle,
né le asciuga il fazzoletto.


3.
Nei presentimenti non credo,
e i presagi non temo.
Non fuggo la calunnia né il veleno,
non esiste la morte:
immortali siamo tutti, e tutto è immortale.
Non si deve temere la morte,
né a diciassette né a settant'anni.
Esistono solo realtà e luce:
le tenebre e la morte non esistono.
Siamo tutti ormai del mare su la riva,
e io sono tra quelli che traggono le reti,
mentre l'immortalità passa di sghembo.
Se nella casa vivrete,
la casa non crollerà.
Un secolo qualsiasi richiamerò,
e una casa vi costruirò.
Ecco perché, con me, i vostri figli
e le vostre donne siederanno
alla stessa tavola
la stessa per l'avo ed il nipote.
Si compie ora, il futuro.
E se io una mano levo
i suoi cinque raggi rimarranno a voi.
Del passato ogni giorno,
come una fortezza,
io con le spalle ho retto.
Da agrimensore ho misurato il tempo,
e attraversato io l'ho
come gli Urali.
Il mio secolo l'ho scelto a mia misura.
Andavamo a Sud,
sostenendo la polvere della steppa,
il fumo delle erbacce.
Scherzavano i grilli
sfiorando i ferri dei cavalli con le loro antenne,
come monaci profeti di sventura.
Ma il mio destino fissato avevo alla mia sella,
e ancora adesso,
nei tempi futuri,
come un fanciullo sulle staffe
io mi sollevo.
La mia immortalità mi basta,
ché da secolo in secolo scorre
il mio sangue...
Per un angolo sicuro di tepore
darei la vita di mia volontà
qualora la sua cruna alata
non mi svolgesse più,
come un filo,
per le strade del mondo.


Il narratore: (...) faccio spesso questo sogno, ci sono abituato. E non appena vedo le pareti di legno scurite dal tempo, e la porta socchiusa che si apre nel buio dell’ingresso, so già, anche nel sonno, che si tratta solo di un sogno, e la mia incontenibile gioia si spegne nell’attesa del risveglio. Talvolta succede qualcosa per cui smetto di sognare la casa, e... e i pini della mia infanzia... Allora mi assale la nostalgia, e io comincio ad aspettare con ansia il ritorno del sogno, nel quale mi vedrò di nuovo bambino e tornerò ad essere felice. Felice perché tutto è davanti a me, e tutto è ancora possibile.

4.
L'uomo ha un corpo solo,
solo come la solitudine.
L'anima è stanca
di questo involucro senza connessure,
fatto d'orecchi e d'occhi,
quattro soldi di grandezza
e di pelle, cicatrice su cicatrice,
tirata sulle ossa.
Dalla cornea vola dunque via
nel pozzo spalancato del cielo,
sulla ruota di ghiaccio,
sulle ali d'un uccello,
e sente dalle inferriate
della sua vivente prigione
il sussurrare dei boschi e dei campi,
il rombo dei sette mari.
Senza corpo l'anima si vergogna,
come un corpo svestito.
Né pensieri né azione né progetti né scritti,
un enigma senza soluzione.
Chi ritorna sui suoi passi
dopo aver ballato sul palco
dove nessuno ballò?
E sogno io un'anima diversa,
in una nuova veste,
che arde passando dal timore alla speranza
come fiamma che s'alimenta nell'alcool,
priva d'ombra,
che vaghi per la terra
lasciando a suo ricordo, sul tavolo,
un lillà.
Corri, bambino,
non piangere sulla misera Euridice.
Con la tua piccola asta,
per le vie del mondo,
sospingi ancora il tuo cerchio di rame.
Anche se udibile
solo per un piccolo quarto,
in risposta ad ogni tuo passo,
allegra ed asciutta,
la Terra ti mormora nelle orecchie.



tratte da “STALKER” di Andrej Tarkovskij (1979)

1.
... che si avverino i loro desideri... che possano crederci,
e che possano ridere delle loro passioni!
Infatti, ciò che chiamiamo passione in realtà non è energia spirituale,
ma solo attrito tra l'animo e il mondo esterno.
E, soprattutto, che possano credere in se stessi,
e che diventino indifesi come bambini:
perchè la debolezza è potenza,
e la forza è niente.
Quando l'uomo nasce è debole e duttile,
quando muore è forte e rigido.
Così come l'albero, mentre cresce, è tenero e flessibile,
e quando è duro e secco, muore.
Rigidità e forza sono compagni della morte;
debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell'esistenza.
Ciò che si è irrigidito non vincerà.

(Arsenij Tarkovskij)

“ Quando nasce, l’uomo è tenero e debole; quando muore è duro e rigido (forte)” :
è una frase del Tao te ching LXXVI

2.
E' fuggita l'estate, più nulla rimane.
Si sta bene al sole,
eppure questo non basta.
Una foglia dalle cinque punte
mi si è posata su una mano,
eppure questo non basta.
Né il bene né il male sono passati invano,
tutto era chiaro e luminoso,
eppure questo non basta.
La vita mi prendeva sotto l'ala,
mi proteggeva, mi salvava: ero davvero fortunato,
eppure questo non basta.
Non sono bruciate le foglie, non si sono spezzati i rami,
il giorno è terso come il cristallo,
eppure questo non basta.





sabato 16 giugno 2007

Tre amici: Lorenzo



Il mio amico Lorenzo

di Solimano


L'altro giorno sono andato a trovare il mio amico Lorenzo, era proprio ora, un bel po' che non ci vedevamo. La colpa è solo mia, lui non può muoversi, io invece sì. Se ne sta da quasi cinquecento anni a Trescore, in provincia di Bergamo, in una chiesetta talmente piccola da sembrare una capanna. I vicini la chiamano "oratorio" per tenerla un po' su, ma non ci va nessuno a pregare, credo che invece ci vada un po' di gente nelle giornate calde di agosto perché è un posto fresco: muri grossi, finestre piccole, tetto tenuto su da travoni di castagno. Lorenzo è un po' un piangina, si lamenta che l'anno scorso lo sono venuti a trovare solo 3000 amici. A me sembrano tanti, ma lui ne vorrebbe almeno il doppio. Secondo me tende ad allargarsi un po', tanto più che non sono amici che vengono dalle frazioni vicine, ma anche dall'America, dalla Germania, diversi persino dal Giappone. Gli americani sono quelli che gli fanno più festa, i tedeschi quelli che lo conoscono meglio, i giapponesi sono i più gentili, fanno tante foto con lui. Gli italiani vengono in gruppi, ci sono persino delle classi scolastiche di ragazzini delle medie inferiori che però preferiscono mangiarsi panini sui prati vicini. Lorenzo protesta, perché dice che i suoi padroni, i conti Suardi, poi se la prendono con lui, preferirebbero che non avesse amici così il prato se lo godrebbero solo loro.
Però c'è da starci attenti, a certi amici: ne sono capitati alcuni che gli hanno fatto perdere un sacco di tempo, giornate intere, eppoi hanno scritto dei libri per parlar male di Lorenzo con accuse molto fumose, tipo che non ha un senso unitario dello spazio, che usa dei colori stridenti, che le figure sono o troppo grandi o troppo piccole, che sembrano contadini e contadine, che ha copiato un po' dai tedeschi, che magari sotto sotto è pure protestante.
Lorenzo si è sfogato: "Me l'avessero dette in faccia 'ste cose! Avrei saputo cosa rispondergli". Oddìo ho pensato, ma era ormai tardi, quando Lorenzo parte così non lo ferma nessuno. E' proprio un gran permaloso, a Venezia bastava portare un po' di pazienza invece li ha mandati a quel paese per venirsene qui, nella capanna di Trescore. Lorenzo, mentre io sbuffavo, ci ha tenuto a dirmi che il senso unitario dello spazio lui ce l'ha, per lui lo spazio è fatto di aria e tutte le sue figure, grandi e piccole, respirano la stessa aria. Poi, che alcune siano grandi ed altre un po' meno è che Gesù l'hanno voluto grande i preti, poi i conti Suardi hanno voluto essere più grandi dei contadini, i lanzichenecchi anche loro, guai a non contentarli. Tutti in gradazione, ognuno secondo le raccomandazioni, bisogna pur vivere. Certo che sembrano contadini e contadine, lo sono, dove poteva andare Lorenzo a procurarsi qualche studente e qualche mercantone, quelli con la bottega? Qui si è dovuto accontentare di qualche vu' cumprà con l'insalata per terra, al massimo con un banchetto per il pane. I colori stridenti dipendono dal fatto che Lorenzo voleva lanciare una sua linea di moda, in quel momento non ha attecchito, salvo attecchire trent'anni dopo, che era ormai tardi. I tedeschi: di lì ne passavano tanti, i contadini tenevano le donne chiuse in casa, il fatto che 'sti lanzichenecchi avevano dei bei costumi con gli sbuffi, dei bei cappelli, delle alabarde che non finivano mai, credo che Lorenzo gli abbia anche fatto qualche quadretto fuorivia. I tedeschi gli hanno sempre voluto bene a Lorenzo, dicono che sembra il figlio naturale di un loro zio di Norimberga, un certo Alberto. Il fatto della religione poi è inutile rinfacciarlo a Lorenzo, è soltanto uno che prega molto e dice il rosario ogni giorno, ma catechismo zero, figuriamoci se Lorenzo potrebbe abbandonare la religione dove è nato e che gli dà pure da vivere, sembra che i protestanti quadri in chiesa non ne vogliano, a queste cose chi ci deve badare? Quei criticoni falsi che sparlano di lui senza conoscerlo? Da questi non c'è da aspettarsi niente di buono, anche se a qualcuno di loro non ci si crede più, le balle prima o poi si sgonfiano. Date retta a me, andatelo a trovare Lorenzo: è gentile, ha un suo modo di dire le cose e se ci pensate un po' non è mai noioso, riserva sempre delle sorprese del tutto inattese. Con un piccolo sforzo gli amici possono passare da 3000 a 6000, così Lorenzo smette di rompere quando lo vado a trovare.
15 aprile 2007

P.S. A Lorenzo Lotto a Trescore ho dedicato un Bel Momento: http://www.arengario.net/momenti/momenti08.html
Nell'immagine in alto si vede il particolare del mercato nella piazza, durante il martirio di Santa Barbara. In quella sotto si vede l'ordinazione di Santa Chiara, prostrata davanti all'altare, avendo a fianco le vesti profane che ha abbandonato. A destra ci sono le donne di Casa Suardi, dall'altra parte non riportata ci sono gli uomini. Lorenzo ha fatto un grande buco nel muro della Chiesa per far vedere la Santa che si dà da fare subito, senza perdere tempo.

venerdì 15 giugno 2007

Pensieri



Pensieri

di Clelia Mazzini


328. Tutto quello che mi è rimasto dentro di ciò che è accaduto - intendo tutto quello che non è stato coperto dalla nebbia dell'inevitabile dimenticanza - è stato filtrato non dal vaglio della mia coscienza (troppo facile, no) ma da quello del sentimento.
Tutto ciò che non appartiene a questa sfera, nell'istante dato, è come se per me non fosse mai accaduto.
Domani tutto potrà cambiare, lo so bene, ma ora è così. E non c'è traccia del fatto che - almeno a breve - questa condizione possa mutare.

329. Mi sono sempre chiesta se la crescita sia "verticale" o "orizzontale"; se si proceda cioè verso l'alto (qualunque e ovunque esso sia) o per gradi simmetrici - un po' verso il lato destro della ragione, un po' verso quello sinistro del cuore - acquisendo in questo modo dati e conoscenze.
La risposta "vo ancora cercando", invocando ora il cervello, ora l'anima, ora il silenzio serale che tutto sembra conoscere.

330. Un giorno o l'altro mi tornarò, / no' vùi tra zénte strània morir, / un giorno o l'altro mi tornarò / nel me paese.
Dentro le pière che i gà inalzà / su le rovine, mi çercarò, / dentro le pière che i gà inalzà, le vecie case.
Sarò pai zóveni un forestier, / che varda dove che i altri passa, / sarò pai zóveni un forestier, / no' lori a mi.
Carghi dei sogni dei me vint'ani, / vedrò i burci partir ancora, / carghi dei sogni dei me vint'ani, / dal Piave al mar.
Cussì che in ultimo mi no' starò, / coi altri vèci intorno al fògo, / cussì che in ultimo mi no' starò / a dir "noialtri...".
E a un dei tósi che andarà via, / voltando i òci de nòvo al porto, / e a un dei tósi che andarà via, / ghe darò el cuor.

[Giacomo Noventa - da Versi e poesie, Edizioni di Comunità, 1956]

Un giorno o l'altro io tornerò / non voglio morire tra gente straniera, / un giorno o l'altro io tornerò nel mio paese.
Dentro le pietre che hanno innalzato / sulle rovine, io cercherò, / dentro le pietre che hanno innalzato / le vecchie case.
Sarò per i giovani un forestiero, / che guarda dove gli altri passano, / sarò per i giovani un forestiero, / non loro per me.
Carichi dei sogni dei miei vent'anni, / vedrò i burchi partire ancora, / carichi dei sogni dei miei vent'anni, / dal Piave verso il mare.
Così che alla fine io non starò, / con gli altri vecchi intorno al fuoco, / così alla fine io non starò / a dir "noialtri...".
E a uno dei ragazzi che andrà via, / voltando gli occhi di nuovo al porto, / e a uno dei ragazzi che andrà via, darò il cuore.


Da Akatalepsia

giovedì 14 giugno 2007

Turista a casa propria (3)




I calzettoni di Sivori

di Solimano



Prima di uscire dal palazzo Pepoli Campogrande ho detto ai custodi di procurarsi un po' di quelle comode sedie a sdraio - meglio ancora i lettini - delle spiagge romagnole: contemplare distesi gli affreschi dei soffitti sarebbe meglio. Lì per lì mi hanno guardato male, ma quando ho detto che loro potrebbero passare col il carrello delle bibite hanno cominciato a vedere la cosa da un altro punto di vista. Si annoiano, a stare lì fermi per delle ore, spero che ogni tanto abbiano una mezz'ora senza turisti, così si fanno una partita a carte.
Ed ora, verso San Domenico, previo una sosta su una panchina di Piazza Minghetti, a contemplare gli zampilli della piccola fontana; complice la giornata calda, l'acqua che scorre rialza il morale. In San Domenico, diritto verso l'Arca. La Cappella era abbastanza affollata da un gruppone di turisti a casa propria (pure loro) che un sabato si fanno San Petronio, l'altro sabato palazzo Re Enzo e così via; il più istruito, che in genere è quello che rompe di più, gli fa la spiega live, possono permettersi di non utilizzare il playback di quegli aggeggi infestanti che si vedono soprattutto alle mostre temporanee. Molto interessato, mi sono intruppato pure io, e sono stato immediatamente premiato: adesso so i nomi degli otto patroni di Bologna e so quale statua li raffigura, ad uno ad uno. Sant'Agricola può essere anche il ritratto di Giovanni II Bentivoglio – altra cosa che non sapevo – e San Vitale, che è lo schiavo di Sant'Agricola, è quel giovane con una specie di stivaloni arrotolati all'ingiù, che mi hanno fatto sempre pensare a Sivori, con i suoi calzettoni arrotolati a sfottere a forza di dribbling i terzini di allora. Ma attribuire nomi precisi alle statue dei quattro evangelisti, nisba, sono tutti vestiti in modo orientaleggiante, diceva il provvisorio cicerone. Bravo nel suo volontariato competente, solo che ha alzato gli occhi ed ha indicato la Gloria di San Domenico del Reni, lassù nella semicupola, ed è cominciata la solita solfa del sì… ma… Col Reni fanno sempre così, prima lo lodano poi lo ridimensionano, che è anche giusto, ma non di fronte al concerto di angioloni che avevamo sotto, pardon, sopra gli occhi. Se il Paradiso c'è, quella è l'orchestra che voglio, magari con un coro di angiolesse, da soprano di agilità a contralto, passando per soprano drammatico, lirico, leggero, mezzosoprano. Ah, mi convertirei volentieri, con un repertorio di Purcell, Bach, Haendel, anche Haydn toh! E qualche voce di basso profondo dalla cantina.
Ma torno all'Arca di Niccolò, su cui ho scritto un Bel Momento che mi è costato fatica e piacere, tanto. E' mirabolante la vegetazione verso l'alto della cimasa, dove si annidano due puttini vivacissimi. Si vede che Michelangelo, che aveva meno di vent'anni, era (lui!) intimidito dalla grandezza di Niccolò; lo si vede nei suoi due patroni, inferiori a quelli di Niccolò, meno liberi, più fermi. Ma nell'angelo porta-candelabro accetta, come è giusto, la sfida da pari a pari. Niccolò comincia quando finisce Donatello e finisce quando comincia Michelangelo. Molto, molto dopo ci saranno il Mochi e soprattutto il Bernini. La grande scultura italiana che conosciamo ed amiamo tanto meno della pittura, e non è giusto. Ce lo insegneranno i turisti colti che pian piano cominciano ad affollare Bologna, meravigliosa città d'arte.
Un buon giro da Feltrinelli sotto le due Torri, una delusione in San Martino – Amico Aspertini è in restauro – un chinotto, seduto nei pressi della stazione, 4 euro e 60, ladri! Ma li perdòno, dopo una giornata così.

Lo Specchio



Lo Specchio

di Giuliano


« Dalla stazione, la strada passava per Ignatieva, svoltava seguendo l’ansa della Gruna a un chilometro circa dalla cascina dove allora, prima della guerra, trascorrevamo tutte le estati; e insinuandosi in un fitto bosco di querce proseguiva oltre, verso Tomscinò. Di solito riconoscevamo i nostri solo quando li vedevamo apparire da dietro il grande cespuglio che si alzava in mezzo al prato: se dal cespuglio la persona si dirigeva verso casa, si trattava di papà; altrimenti non era papà. E un giorno papà non sarebbe più tornato.
- Scusate, è questa la strada per Tomscinò?
- Non dovevate svoltare al cespuglio.
- Ah. E voi, perché...
- Perché cosa?
- Perché ve ne state lì seduta.
- Io vivo qui.
- Dove, sullo steccato?
- Ma cosa volete sapere, la strada per Tomscinò o dove vivo io? » (...)
Una donna è seduta su uno steccato, in aperta campagna. Da lontano, un uomo che passa la nota e le si avvicina; la donna è molto bella. L’uomo, un medico, tenta un approccio educato e gentile, chiede informazioni; infine le si siede accanto, ma lo steccato non regge il peso e si rompe. I due finiscono a terra, la donna si rialza subito e l’uomo ride. Poi anche l’uomo si rialza, si spolvera, sorride, riprende la sua strada e fa un cenno di saluto. Un’improvvisa folata di vento piega dolcemente l’erba del prato.
Questa è la scena iniziale (ma, prima dei titoli di testa, a un ragazzo balbuziente viene insegnato “a non aver paura della sua voce”) di uno dei film più difficili e affascinanti che mi sia mai capitato di vedere. E’ poco comprensibile perché è autobiografico e parla della madre di Tarkovskij, e dell’infanzia del regista, negli anni precedenti alla Guerra. Nella scena dello steccato, Tarkovskij ha la finezza di citare Cechov: ed è solo una delle piccole e grandi citazioni fatte in questo film. C’è il richiamo ai grandi pittori: Leonardo, Monet, ma anche Brueghel e Bosch, e Giorgione con la sua Tempesta.
Ma i protagonisti sono gli elementi atmosferici, il fuoco, l’acqua, il vento, la luce, gli elementi primordiali. I movimenti di macchina hanno una magia nascosta, il vento arriva nel momento esatto in cui ce ne è bisogno, un uccellino si posa sul berretto di un ragazzo e il ragazzo lo prende, un oggetto cade dal tavolo proprio quando la telecamera si ferma ad osservarlo, passato e presente si fondono, perfino un alone di vapore su un tavolo diventa importante. La comunione con la Natura, paganesimo e panteismo, religione panica sono tra i protagonisti dei film di Tarkovskij. Il film è composto di vari episodi, quadri apparentemente semplici che vanno a formare un disegno complesso, un arazzo, un tappeto persiano, leggibile solo a pochi e anche ad essi con grande difficoltà. I colori sono i colori dei sogni, colore pieno oppure altri colori; il bianco e nero non è mai quello classico, è piuttosto un grigio, un seppia, un verdastro, il colore dei sogni e dei ricordi. Tarkovskij filma i sogni, e i ricordi.
Come Bertolucci, anche Tarkovskij è figlio di un grande poeta: e “Lo specchio” comprende molte poesie del padre di Andrej, poesie bellissime lette, nella versione italiana, dalla voce toccante di Romolo Valli.

Amo gli occhi tuoi, amica mia,
e i loro giochi.
Splendidi di fiamme quando
li alzi all'improvviso e,
come fulmine celeste,
guardi veloce tutt'intorno.
Ma c'è un fascino più forte:
gli occhi tuoi rivolti verso il basso,
negli attimi che un bacio appassionato,
e fra le ciglia semichiuse del desiderio,
il fumo, il fosco fuoco...

( Arsenij Tarkovskij )

Da Abbracci e pop corn