venerdì 29 giugno 2007

La signorina Doolittle


Audrey Hepburn in My Fair Lady


La signorina Doolittle

di Anna Proclemer



Eliza Doolittle e il suo Pigmalione.
A 15, 16 anni lo cercavo ardentemente il mio Pigmalione.
E anche dopo l’ho sempre inseguito.
Forse per questo ho spesso avuto vicino uomini importanti.
Importanti non per la ricchezza (per lo più erano poveri in canna come me), né per il potere, né per una particolare avvenenza. Ma erano, questo sì, degli intellettuali. Qualche volta degli artisti. Ho sempre avuto bisogno di una guida.
A 16 anni una guida importante la trovai.
Si chiamava Muzio Mazzocchi Alemanni. Nome di antica nobiltà umbra, erano conti, mi pare. Lui frequentava il primo anno di Lettere all’Università, io la seconda liceo al Mamiani.
Muzio era alto, magrissimo, le spalle un po’ curve, le guance incavate, bellissimi occhi verdi sempre un po’ arrossati, il mento aguzzo, il profilo da medaglia di un principe del Rinascimento.
Era mostruosamente intelligente e di raffinatissima e aggiornatissima cultura. Era abbonato a Solaria e a Corrente. Le critiche ermetiche di Carlo Bo per lui non avevano misteri. S’intendeva di musica, di pittura e soprattutto di poesia.
(E’ diventato più tardi un esperto di G.G.Belli, ha scritto molti libri su di lui, e ultimamente ha ricevuto un premio prestigioso per i suoi studi sul poeta romano).
Mi fece conoscere Eliot, Campana, Montale, Stravinskij, Louis Armstrong, Malipiero, John Donne, Braque, i Preraffaelliti, Bruno Barilli, Ungaretti, i Concerti Brandeburghesi… cito alla rinfusa, così come alla rinfusa io andavo spiluzzicando qua e là in questi mondi sconosciuti senza avere il tempo di approfondire. Capivo la metà di quello che leggevo o ascoltavo. L’altra metà l’assorbivo irrazionalmente, per istinto; prendevo anche molte cantonate, ma insensibilmente andavo formandomi un gusto. Quando non ascoltavamo musica o leggevamo insieme poesia si peregrinava per Roma. Camminavamo per ore ed ore, senza fermarci mai, senza sederci mai, senza mai entrare in un caffè, senza mai prendere un tram. E’ vero che fra tutti e due non avevamo letteralmente una lira, ma mi sembra così strano, visto da ora, quel nostro astratto vagabondare.
Ci muovevamo in un’atmosfera allusiva, metaforica, raggelata e incandescente, dove non c’era posto per bisogni comuni, per parole quotidiane. Io sarei morta, piuttosto che dire: sono stanca, ho freddo, mi fa male un piede, devo andare in bagno. Ma non ne soffrivo, mi andava bene così.
Mi andava molto bene così.


Dal sito di Anna Proclemer

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