domenica 30 settembre 2007

Ci vuole il suo tempo


Filippo Brunelleschi: Sacrificio di Isacco
Museo Nazionale del Bargello, Firenze


Ci vuole il suo tempo
Sicumera di gioventù

di Rossella Vita


Anni, anni, anni. È il titolo di una canzone di Paolo Conte.
Dice che a diventare quel che si è non basta un attimo.
E io voglio qui tessere l’elogio della maturità e persino della vecchiaia, e il necessario recupero dei suoi valori all’orizzonte dei nostri valori.
Mi è capitato di dover rileggere tanti scritti di “giovani” studiosi, ricercatori, aspiranti professori, tutti patentati dall’università.
Posso dire di aver registrato una tale quantità di prosopopea, di semplicismo e saccenteria da risultarmi, tutta questa gioventù, con poche felici eccezioni, quasi stomachevole.
E parlavano – e scrivevano – con l’idea di mangiarne sempre nei giorni feriali, di Luchino Visconti, di Paul Klee, di Fritz Lang … Persone e opere davvero troppo più grandi di loro.
È il rischio della divulgazione e della scolarizzazione sclerotizzata nella ricerca di sintesi e certezze commestibili: Mi parli di Raffaello… Difficile non sembrare cretini, nelle risposte. Ma è l’ingresso nella parte dell’intellettuale, l’infilarsi nei modi del conoscitore che dà fastidio, quell’ostentare familiarità e possessione della materia attraverso facili resumé, quanto di più lontano dall’amore, che è attenzione, circospezione e dubbio. Forse la sicumera premia nel mondo accademico di oggi, e quel vezzo di apparire sprezzanti e sicuri di sé dà veramente sicurezza anche a chi le cose non le ha capite nemmeno tanto bene.

Mi ricordo di una ragazza ai tempi della mia università, che un mattino di giugno, proprio a ridosso dell’esame del corso di storiografia delle arti tenuto dal bravissimo professor Massimo Ferretti – interamente dedicato alle formelle di Ghiberti e Brunelleschi e al concorso del 1401 per il battistero di Firenze – dichiarò di averli sognati, loro due in persona. Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi, col manto e tutto, davanti a lei, con aria minacciosa e sprezzante le dicevano: “Tu, delle nostra formelle, non hai capito niente!” Che ridere, e che umile inconscio... Un’umiltà che le avrebbe impedito di parlare con quei toni, con quelle frasi fatte che appaiono intelligenti e insopportabili sulla bocca di tanti giovani “brillanti”. Umile è chi rispetta le tappe necessarie di un processo: si impara a tenere in mano la penna, e poi a scrivere il proprio nome e poi persino pensierini e poi una poesia o una storia… Ciascun passo con una sua importanza, necessario a passare ad altro ostacolo con la giusta misura. E i passi sono, in una vita, innumerevoli.
E a incoronarli troppo presto, questi giovani talenti, sin dai primi passi intendo, si fa loro piuttosto del male che del bene. Non conoscono che raramente l’energia dell’errore e della critica che spinge a spostarsi, a rivoltare se stesso come un calzino con una certa disinvoltura, senza curarsi dei lividi; e a studiare, ad ascoltare quello che gli altri hanno da dire e da dirti.
A questo stupendo senso del relativo, divenuto così raro in mezzo alla gara delle firme, pensavo davanti ai Sei brillanti di Paolo Poli, classe 1929, felice di essere lì. C’è qualcuno che sappia essere così sapiente e spiritoso, ampio negli orizzonti e rapido nelle associazioni fra testi, visioni, canzoni? C’è qualcuno che abbia espresso con altrettanta chiarezza le secolari vessazioni della chiesa sulle donne, attraverso le sue eroine e le sue innumerevoli invenzioni ? C’è qualcuno che sappia essere più attuale e graffiante o meno retorico di lui o di Monicelli che di anni ne ha Novanta? E allora sarà vero che questi anni, fatti di attimi, ore e settimane di ascolto e di attenzione, perché possiamo cavarci qualcosa di buono, a noi comuni mortali, ci servono proprio tutti, e tanti.
01.03.2007

Anche su Golem l'Indispensabile


Lorenzo Ghiberti: Sacrificio di Isacco
Museo Nazionale del Bargello, Firenze


Fine dei lavori in corso

Habanera



Lo so, in questi giorni vi ho fatto venire il mal di mare.
Volevo avere uno spazio meno asfittico per lo scritto e nello stesso tempo dare più risalto alle immagini.

Molto più facile a dirsi che a farsi.

Infatti i vari modellini messi a disposizione dalla premiata ditta Blogger sono uno più rigido dell'altro: o puoi fare una cosa o ne puoi fare un' altra e te ne accorgi, purtroppo, solo dopo averli salvati. Li ho dovuti provare tutti (quasi tutti, alcuni -per vostra fortuna- li ho scartati subito) prima di trovare finalmente qualcosa che corrispondesse, almeno in parte, ai miei desideri. Forse avrei continuato all' infinito ma da più parti ormai saliva la protesta.

Mia figlia mi ha detto testualmente: "Mamma, la vuoi piantare di cambiare modello ogni giorno? Mi stai facendo venire il mal di mare!"
Solimano è stato più gentile, mi ha solo scritto una email che iniziava così: "Ma che sta succedendo? Vorrei capire... parliamone."
Giuliano, sempre arguto e sottile, ha scritto il commento che potete vedere qui sotto.

Insomma, che io fossi convinta o meno del risultato finale, a questo punto non aveva più importanza. Dovevo mettere fine a questi interminabili lavori in corso ed è quello che -in fondo con gran sollievo- faccio in questo momento.

Buon proseguimento di lettura a tutti, nella casa nuova.




venerdì 28 settembre 2007

In auto, guardando le finestre illuminate


Vincent Van Gogh: Caffè di notte (1888)



In auto, guardando le finestre illuminate

di Remo Bassini




Mi guarda. Ha una faccia buona. Serena. Un uomo buono.
Gli chiedo un caffè e un bicchiere di acqua minerale frizzante. Gradisce una fettina di limone? mi fa. Ne sono certo: è l’uomo ideale per Sara.
L’uomo che si sveglia al mattino, le sorride, magari le prepara il caffè. L’uomo che sa dire cose dolci, regalare un fiore.
L’uomo che non sono io.
Non lo sa, lui, chi sono io. Non ho la minima intenzione di presentarmi. Non voglio che Sara sappia: sappia che ho fatto 400 chilometri solo per vedere la faccia di lui. Dell’uomo che fa l’amore con quella ragazza che, proprio il giorno dell’esame di maturità, felice e con un vestitino a fiori, venne con me al fiume: la prima volta, per tutti e due, sotto un sole cocente.
Un giorno che non dimenticherò mai, sai Sara? (ma io questa cosa non te l’ho mai detta).
Ho impiegato due anni a prendere questa decisione. Ora eccomi qua, nel suo bar. Nella loro città.
Ma il problema non è la sua o la mia faccia. Il problema è la casa, le case. Sono affascinanti la sera. Dall’autostrada, o da altre strade, statali o secondarie, vedo e mi piace, sfrecciando, vedere le finestre illuminate. Intravedere dietro le tende. Immaginare. Mi si stringe il cuore. Ripenso a me, con mamma e papà, da piccolo. Ripenso a Sara. Al calore di una casa.
La salutavo, un bacino sulla porta, poi con le mie stecche da biliardo percorrevo chilometri e chilometri, quasi ogni sera, per gare, allenamenti, incontri.
O solo per assistere ad altre gare. L’importante era respirarlo, il biliardo. E quando uscivo di casa, dopo averla salutata, dopo pochi chilometri ecco che vedevo le prime luci, i primi lampadari, o il bagliore di una televisione. Pensavo, sapevo, che avrei fatto bene a tornare, tornare da Sara, da lei. Che mi aveva salutato dicendomi, Vai non ti preoccupare per me.
Le rivedo oggi quelle luci e provo nostalgia per le mie due case: quella con mamma e papà, quella con Sara. E mi fanno, anche, uno strano effetto: mi fanno, solo per un attimo, odiare il biliardo, che mi ha rovinato la vita. O forse me l’ha resa più bella, non so. Perché di notte io, sempre, oggi come quando dormivo accanto a Sara, sognavo il tavolo, quel colore verde che per me è il più bello di tutti, e il rumore, dolce e secco, della stecca sulla palla che rotola e va, spinta dal pensiero, mentre il cuore, per un piccolo attimo, corre, ma solo un po’: corresse troppo non sarei un campione. Il problema è che quelle luci della case viste dalle autostrade a un certo punto si spegnevano. Si spengono.

(Racconti di un attimo)
Venerdì 14 Luglio 2006

Da Appunti di Remo Bassini

René Magritte: The Empire of Light (1954)


giovedì 27 settembre 2007

Della borsa delle donne



Della borsa delle donne

di Annarita



Il requisito fondamentale della mia borsa deve essere uno solo: poter contenere un piccolo libro.
Che sia fatta a sacco, a zainetto, che sia divisa in scomparti o dotata di tasche e taschini non ha molta importanza. Deve essere abbastanza comoda per contenere anche un libro.

Ma da un po' di tempo a questa parte c'è qualcosa che non va. E credo di interpretare il sentimento di altre donne.

Sono alla cassa del supermercato. La cassiera aspetta paziente, accenna pure un sorriso di comprensione, ma io, con la coda dell'occhio, sbircio la fila che si ingrossa dietro di me. Che cosa sto facendo? Frugo nella borsa alla ricerca dell'unica cosa che in quel momento mi occorra davvero: il portafogli. Pagare in contanti o con la carta di credito è irrilevante purché quel piccolo oggetto si faccia trovare e io non percepisca più gli sguardi malevoli dei clienti e non immagini i loro commenti, che non saranno da meno.
E trovo il libro.

Piove. Sono davanti al portone di casa, in una mano la borsa e nell'altra l'ombrello. Malgrado la faccenda del pollice opponibile non sono capace di cercare nella borsa tenendo l'ombrello in mano, così lo chiudo. E comincio a bagnarmi mentre frugo nella borsa alla ricerca dell'unica cosa che in quel momento mi occorra davvero: il mazzo delle chiavi. E trovo subito il portafogli. E poi il libro.
Un pomeriggio ventoso. Gli occhi cominciano a pizzicare e a lacrimare; il naso non tarda a partecipare con solidarietà all'evento. Allora frugo nella borsa alla ricerca dell'unica cosa che in quel momento mi occorra davvero: il pacchetto dei fazzoletti di carta. E infilo un dito nell'anello del mazzo delle chiavi.
E poi trovo il libro.

Al parcheggio. Non sono ancora in vista della macchina e già mi assale il dubbio; per un momento voglio credere di vederlo biancheggiare sul cruscotto o lo immagino nel vano portaoggetti accanto al sedile.
Perché illudermi? Rammento con sicurezza il gesto inconsulto con il quale l'ho lasciato cadere nella borsa. Non infilato giudiziosamente in un taschino, proprio lasciato cadere nella borsa, dove capita. A rispettosa distanza dalla cassa frugo nella borsa alla ricerca dell'unica cosa che in quel momento mi occorra davvero: il biglietto del parcheggio. E trovo un fazzolettino di carta sfuggito al pacchetto.
E poi trovo il libro.


Basta, non ne posso più. Eppure la soluzione è così ovvia: ci vuole una borsa più piccola.
Piena di entusiasmo mi dedico alla ricerca e finalmente la individuo, negletta in fondo all'armadio. Eppure è carina e i colori non fanno a pugni con le scarpe.

Come ho fatto a non pensarci prima? D'ora in avanti affronterò baldanzosa ogni situazione, mi basterà infilare la mano nella mia piccola, graziosa borsa e il gioco sarà fatto. Ogni cosa al suo posto. Niente più code al supermercato, docce improvvise, lacrimazioni inopinate e panico da parcheggio. Ogni cosa al suo posto.

Non è possibile! La ricerca dell'unica cosa che di volta in volta mi occorra davvero continua ad essere affanosa e caotica.
Per una severa disamina rovescio sul tavolo tutto il contenuto della borsetta, dalla quale fuoriescono, in ordine sparso:
- il libro (ho premesso che non ne faccio a meno)
- il cellulare (e se avessi bisogno di fare o ricevere una telefonata all'improvviso?)
- la rubrichetta telefonica (e se si cancellassero i numeri dalla rubrica del cellulare?)
- l'auricolare per il cellulare ( e se davvero le onde del cellulare facessero male?)
- le foto dei ragazzi (niente se, come poteri stare senza?)
- la carta d'identità e la patente (niente se, al massimo potrei metterle insieme in un piccolo porta documenti)
- l'abbonamento del pullman (niente se, bisogna fare qualcosa contro l'inquinamento)
- gli orari dei pullman e dei treni (e se perdessi il pullman, chi si ricorderebbe a che ora partono i treni?)
- qualche bustina di zucchero (e se avessi un improvviso calo di pressione?)
- il porta schede telefoniche (e se non potessi usare il cellulare?)
- le bustine di sale di lisina (e se mi venisse mal di testa all'improvviso?)
- il portafogli (niente se, è indispensabile)
- l'i-pod (e se non volessi solo leggere?)
- il moleskine ( e se dovessi prendere appunti?)
- la penna (niente se, quella non mi manca manca mai)
- i fazzoletti di carta (niente se, sono molto più pratici del vezzoso fazzoletto di stoffa)
- la pen drive ( e se dovessi spostare dei dati da casa all'ufficio o viceversa?)
- le chiavi di casa (niente se, mica c'è sempre qualcuno che ti aspetta!)
- gli occhiali da sole (niente se, la luce può irritarmi gli occhi anche in inverno)
- le chiavi della macchina (e se cambio idea sull'opportunità di usare il pullman o il treno?)
- l'ombrello pieghevole (e se dovesse piovere all'improvviso?)
- il portamonete con le monetine souvenir dei viaggi (e se a me facesse piacere portarmelo dietro, avreste qualcosa da ridire?)

Come può stare tutta 'sta roba in uno spazio così piccolo? Secondo me la spiegazione è una sola: noi donne abbiamo la borsa di Mary Poppins...
giovedì, 13 settembre 2007

Da L'angolo di Annarita



mercoledì 26 settembre 2007

The man who was Thursday




The man who was Thursday
(Livre mon ami 8)

di Solimano



Bologna, in quegli anni, era piena di preti svegli. Non avevano niente da perdere: il PCI controllava tutto, era imbattibile alle elezioni, tanto valeva permettersi il lusso di essere anticonformisti, perché lo spazio non mancava, ed il cardinale, quello di allora, non tirava il freno, tutt'altro. Semmai, il problema erano i fedeli che erano molto più clericali di questi preti, che dovevano starci attenti, agli umori della messa delle 11 di domenica. Però si potevano sfogare, quando un po' di giovinastri e di giovinastre credenti e miscredenti li invitavano a parlare, parlare, parlare... Come erano bravi a parlare! Il loro vero modello era Padre Ernesto Balducci: chi non l'ha sentito almeno una volta non sa cosa sia ascoltare a bocca aperta uno che te la conta, qualsiasi sia quello che ti racconta. Una grande cultura abbinata ad un linguaggio scintillante e una capacità di creare empatia con gli ascoltatori – non, sia chiaro, l'empatia pericolosa che accelera i battiti dei cuori, quella invece che accelera il flusso dei neuroni. Una sera, eravamo in una decina, ci trovammo con don Contiero, parroco di una chiesa semi-centrale, praticamente una sinecura. Aveva tanto tempo per leggere, e lo sfruttava bene. Fu così che conobbi Gilbert Keith Chesterton, la cui lettura sanò per sempre (quasi...) le ferite inferte al mio buonumore dall'estate trascorsa a leggere Pavese.
Chesterton ha scritto tanto, sicuramente troppo, ma I Racconti di Padre Brown ad esempio sono oggi sottovalutati rispetto al loro valore, anche se a volte hanno un che di troppo voluto, troppo costruito. E' la formula che li frega un po', l'adozione dello schema problema-soluzione, robe adatte ad Agata Christie, che ci ha sguazzato per decenni. Chesterton è essenzialmente uno scrittore in overdose di fantasia, è una mirabile dote che non si confà a chi scrive gialli, o presunti tali. Sì, la fantasia si può applicare anche all'intrigo, come no, e la Christie e tanti dopo di lei sono maestri; la fantasia che interessa Chesterton è la fantasia dei rapporti umani, la continua sorpresa che dà l'incontrare persone inaspettate, si diviene inaspettati... soprattutto per se stessi, che è la cosa migliore.
I due grandi libri sono Le Avventure di un Uomo Vivo, Manalive e L'Uomo che fu Giovedì, The Man who was Thursday, il più bel titolo che sia stato dato ad un libro dai tempi della scrittura cuneiforme.
Il protagonista di "Manalive" una sera si mette a rastrellare il prato attorno alla sua casa, alza la testa, guarda le persiane e la cassetta della posta e dice a se stesso: “No. Il verde delle persiane non è più quel verde, ed il rosso della cassetta non è più quel rosso. Debbo fare qualcosa”. E parte, col rastrello in spalla, per tornare a casa passando per gli antipodi, facendo il giro del mondo. Semplice, no?
In "The Man who was Thursday" c'è il grande professore di matematica De Worms, ma c'è un simulatore che gli somiglia come una goccia d'acqua e che si spaccia per lui. Infastidito, De Worms organizza una pubblica riunione per smascherarlo, ma il pubblico, alla fine del dibattito, decide che il simulatore è lui, non l'altro. Il De Worms vero è troppo vero per essere credibile...
Come era Chesterton? Grande e grosso, come Innocence Smith, il protagonista di Manalive. Quando era molto giovane, era filiforme, però. Forse non era lieto come sono i suoi libri, ma ci rispettava troppo per tediarci con i suoi guai. Pardon, non ci rispettava, ci amava.
P.S. Inserisco tre immagini. Quella in alto è una caricatura di Chesterton uscita su Vanity Fair nel 1912. Quella di fianco è un autoritratto di Chesterton a vent'anni. Quella in basso è un disegno di Chesterton: "Despair of Herod on finding children convalescing from the massacre".
13 settembre 2004


lunedì 24 settembre 2007

Due donne


Charlotte Gainsbourg nel film Jane Eyre (Franco Zeffirelli)


Due donne

di Simona


Perché una giovane e introversa ragazza, austera come una quacchera, cresciuta in un rigido istituto per orfanelle, decisamente scialba, con il solo dono di una mano felice che dipinge e disegna con trasporto, dovrebbe affascinarmi? Perché Jane Eyre è stata ritratta da Charlotte Brontë come una donna che affronta la forza dei propri sentimenti con una mente vivace e meravigliosamente moderna. Una donna dell'Ottocento che s'innamora di un uomo sposato, il signor Rochester, provando non il solito sentimento languido, ma una forte passione, resa ancora più vivida dalla sua intelligenza e dalla lotta interiore che lei, razionale e rigorosa, intraprende contando solo sulle proprie forze. Jane si guadagna da vivere da sola, è indipendente, lucida, osservatrice; col tempo il suo carattere si addolcisce, svelando una sensibilità acuta e il dono della sincera compassione. Priva delle comuni attrattive femminili e di denaro, questa eroina atipica è comunque un personaggio positivo; volitiva, pienamente consapevole dei propri limiti e quindi capace di rigenerarsi, nonostante i colpi inferti dal destino. Il romanzo di Charlotte Brontë, nonostante sia ombroso in alcuni punti e pervaso da una rigida morale cristiana, cattura non solo l'attenzione, ma l'ammirazione per questo personaggio femminile incredibilmente riuscito, tanto più se si riflette sulla vita certamente poco brillante e infelice dell'Autrice.

La protagonista del bellissimo Ritratto di signora, indiscutibilmente superiore all'opera precedente per stile e impianto narrativo, è una figura completamente diversa. Hanry James, dotato di una maestria eccezionale nel descrivere la psiche umana, ci regala un personaggio incantevole e struggente. Isabel Archer è graziosa, intelligente, audace, spigliata, indipendente, insomma molto americana; ma è anche una giovane donna sentimentale e ingenua che, sognando un futuro brillante, rimane imprigionata nel proprio ideale sino a doverne pagare le conseguenze più crudeli. La sua voglia di libertà prima, il suo matrimonio infelice poi - Osmond viene prescelto con totale, sorprendente cecità, per quello che avrebbe potuto rappresentare, ma non per chi era veramente - suscitano l'affetto del lettore che assiste alla sua caduta. Isabel matura, ma a caro prezzo. La ricchezza sarà la sua sventura, così come il desiderio di protrarre il più a lungo possibile la sua indipendenza sentimentale la farà restare invischiata in una storia senza sbocchi. E' un'antieroina: irruente e sin troppo sicura di sé all'inizio, si rivela fragile, sprovveduta; commette un grosso errore, ma a quel punto conquista una consapevolezza così lucida da elevarsi al di sopra di tutti gli altri, come una protagonista delle tragedie classiche, così meravigliosamente umana e fallibile.

Entrambi i romanzi sono divenuti dei film. La Jane Eyre di Franco Zeffirelli è deludente, perché manca di complessità e dell'originalità che la contraddistinguono sulla carta; nonostante Charlotte Gainsbourg ce la metta tutta, la modernità del personaggio viene continuamente mortificata. Nicole Kidman, invece, è a mio parere una splendida Isabel, intensa e coinvolgente, anche perché diretta dalla bravissima Jane Campion.
(08 giugno 2007)

Da Immersioni Libridinose

Nicole Kidman in Ritratto di signora (Jane Campion)


domenica 23 settembre 2007

Cercare tesori nascosti


Robert Louis Stevenson by John Singer Sargent


Cercare tesori nascosti

di Giuliano




Quando uscì "L'isola del tesoro", Henry James ne scrisse una recensione un po' delusa.
" Anch'io sono stato bambino, - scrisse - ma non sono mai andato a cercare tesori nascosti."
" Se Henry James non ha mai cercato tesori nascosti, - rispose Stevenson sullo stesso giornale - allora si può ben dire che non è mai stato bambino."

Colpito da questa risposta, Henry James volle incontrare il giovane scrittore scozzese. Ne nacquero un'amicizia e una stima reciproca, testimoniata dalle molte lettere che i due si scambiarono. Si frequentarono pochissimo, di persona, perché Stevenson partì quasi subito per terre lontane (Australia, Honolulu, Samoa) e non tornò più in Inghilterra.

Non posso non ripensare a questo episodio quando trovo, su Repubblica del 21 maggio scorso, questa presentazione proprio a "L'isola del tesoro", che è stato scelto per la collana di libri abbinata al quotidiano. L'intervistato si chiama Richard Ambrosiani, ed è lui che ha curato il volume e scritto una nuova prefazione:
- Un romanzo che si distacca dalla narrativa d'avventura inglese tipica di quel periodo?
- Nei romanzi di Stevenson è quasi sempre il male che trionfa, in questo caso sono i pirati.
- Lo stesso Stevenson nella sua vita contestò fieramente l'autorità costituita.
- Lo fece per i diritti degli indigeni delle isole Samoa, dove si ritirò dopo il 1887. La sua fama tra gli indigeni era tale che fu accolto a tutti gli effetti nella comunità. E le prime opere tradotte in samoano sono proprio quelle di Stevenson.

Il compilatore del breve articolo insiste: "è un romanzo sulla fascinazione del male. L'introduzione al volume di Richard Ambrosiani si concentra soprattutto su questo aspetto".

Come si fa a parlare di "fascinazione del male" per Stevenson? Forse stanno cercando di vendere la storia del bambino e del tesoro nascosto ai patiti di Stephen King e di Dario Argento? In questo caso si tratterebbe di tecniche di marketing più che di critica letteraria, ma insomma...
Mi chiedo quante scemenze ancora dovrò leggere e ascoltare, tra tv e quotidiani: provo a voltar pagina ma proprio non ce la faccio a mandare giù anche questo rospo. Mi chiedo come può un "traduttore e curatore" di Stevenson fraintendere in questo modo il suo libro più famoso e più letto; e mi chiederei anche tante altre cose, ma di certo non posso dare lezioni partendo dal mio alto scranno di lettore semplice (diploma di perito chimico, 40/60, nel 1978). Infatti smetto di far domande, tiro un sospiro e vado a far giù un po' di polvere dal carteggio fra Henry James e Robert Louis Stevenson.

Honolulu, marzo 1889
Mio caro James,
sì, lo confesso, sono infedele all'amicizia e (meno grave, ma comunque importante) alla civiltà. Non tornerò a casa prima di un altro anno. Ecco la verità, nuda e cruda, e adesso non potrete più credere affatto in me, e mi darete il benservito (lo dite voi) e che il diavolo mi porti. Ma state a sentire, e giudicatemi affettuosamente. Nei mesi scorsi ho goduto e mi sono divertito più che in ogni altro periodo della mia vita, né la mia salute è mai stata altrettanto buona nei dieci lunghi anni precedenti. E dire che anche qui a Honolulu ho sofferto il freddo. Queste profondità preziose sono disseminate di isole, che aspettano ancora di essere visitate. Quand'anche il mare celi la morte, mi piace essere qua, mi piacciono le burrasche (soprattutto quando sono finite) e non posso dirvi quanto mi piaccia avvicinarmi a un'isola nuova. In breve, mi regalo un altro anno di una vita del genere, ho intenzione di continuare a farmi largo tra frecce avvelenate per poi (se sarà possibile) tornare indietro a esperienza conclusa e riprendere a conversare con Henry James come un tempo, continuando nel frattempo a esortare Henry James. perché mi scriva ancora. Che mi indirizzi le sue lettere qui a Honolulu, perché ho le idee ancora confuse: se verranno spedite qui riusciranno a seguirmi e raggiungermi, se dovrà darsi che mi si trovi. E se non sarà così, l'uomo James avrà fatto la sua parte, mentre noi riposeremo in fondo al mare, dove non si potrà più sperare che alcun impiegato di alcun ufficio postale potrà scovarci, o languiremo su un'isola corallina, stoicamente sottomessi a qualche capotribù o magari a un qualche missionario americano. (...)


(Robert Louis Stevenson a Henry James, dal volume "Amici rivali", editore Rosellina Archinto, Milano 1987)
(23 giugno 2004)


Henry James by John Singer Sargent


sabato 22 settembre 2007

La passione di Joséphine



La passione di Joséphine

di Laura Tavanti


La rosa; una passione per Marie-Joseph-Rose Tascher de la Pagerie, soprannominata "Rosa", più nota come Joséphine, moglie di Napoleone Bonaparte.

Il suo amore era coinvolgente: chiunque, botanico o vivaista, veniva mobilitato per reperire varietà che lei ancora non possedeva, il suo scopo era di raccogliere ogni tipo di rosa proveniente da qualsiasi parte del mondo.

Il luogo dove si cimentava a vivere il suo amore per le piante, era la Malmaison, grande tenuta alle porte di Parigi, che lei trasformò; portandosi impressa nella memoria la natura lussureggiante della sua isola natale, la Martinica, e con quei ricordi, iniziò a ripristinare il giardino nel 1799.

I gusti di Napoleone in fatto di giardinaggio erano classici, ordinati, rigorosi, non certo quelli di Joséphine.

Nasce così un parco romantico, dai sentieri sinuosi, dove ogni arbusto e ogni albero veniva collocato strategicamente. Furono costruite enormi serre, con tappeti e mobili antichi, e una gran quantità di vasi con felci gigantesche e fiori esotici, dove Joséphine riceveva i suoi ospiti.

L’imperatrice incominciò a popolare di animali rari il parco. Cicogne, canguri, uno struzzo, un camoscio e scimmie di ogni specie.

Accanto alla fauna c'è poi la flora, sua intima passione, facendo ricco il parco di piante e fiori mai prima acclimatati in Francia: rododendri, mirti, hibiscus, hydrangea,camelie, flox......un grande dispendio di denaro che Napoleone, nonostante collere e violente proteste, continuò a sostenere anche dopo il divorzio.

Ma è la rosa che Joséphine ama di più, una passione rimasta proverbiale.

Alla morte di Joséphine il roseto contava almeno 250 specie e varietà diverse; 167 Galliche, 27 Centifolia, 22 Chinensis, 9 Damascena, 8 Alba, 4 Spinosissima e dozzine di altre specie, comprese Rosa moscata.

Con la sua morte e l’esilio di Napoleone, la più grande collezione botanica privata di Francia, fu abbandonata e quasi distrutta durante la guerra tra Francia e Prussia.

La casa , oggi, è diventata museo. E solo nelle opere dell’illustratore botanico Pierre-Joseph Redouté che possiamo immaginare la grande creazione che furono i giardini della Malmaison.

A quel tempo, in un’ora inconsueta
e memorabile,
la terra produsse un nuovo fiore,
che spuntò adornato di sfumature rosate,
e si divertiva ad arrampicarsi tra i rami
e le foglie.
Gli dei contemplavano
questa splendida nascita,
e salutarono la rosa
come dono della terra.

(Anacreonte)


Souvenir de la Malmaison

venerdì 21 settembre 2007

L'Allegoria dell'Amore e del Tempo

Solimano


Il quadro più celebre di Agnolo Bronzino è "L'Allegoria dell'Amore e del Tempo", attualmente esposto alla National Gallery di Londra. Fu eseguito attorno al 1546, ed immediatamente mandato da Cosimo, duca di Firenze, a Francesco, re di Francia. E' certamente una allegoria, il titolo che ho riportato è quello più diffuso.
Così ne narra il Vasari: "Fece un quadro di singolare bellezza, che fu mandato in Francia al re Francesco, dentro il quale era una Venere ignuda con Cupido che la baciava, ed il Piacere da un lato e il Giuoco con altri Amori, e dall'altro la Fraude, la Gelosia et altre passioni d'amore". C'è qualche inesattezza, ma è comprensibile, il Vasari scriveva a memoria, il quadro era già in Francia da diverso tempo.
Se si dovesse scegliere l'emblema del manierismo maturo non c'è alcun dubbio, sarebbe questo quadro, considerato da molti un'opera di sensualità affascinante, ed il re di Francia lo gradì soprattutto per questo motivo, come ben sapeva quella volpe di Cosimo de' Medici.
Ma è proprio così? O, per meglio dire, è solo così? Nel particolare che inserisco si vede un putto bellissimo che va spargendo petali di rose: è il simbolo del Piacere, su questo sono tutti d'accordo, fin dal Vasari, ma chi è la fanciulla assai bella – di una bellezza diversa - il cui volto si vede a fianco del putto?
Il grande Erwin Panofsky ha dedicato alcune delle sue pagine più belle a quest'opera. Racconto quale è la sua interpretazione, oggi universalmente condivisa.


La fanciulla il cui bel volto sbuca dietro il putto, è piuttosto strana, se si cerca di guardarne il corpo, che in parte si nasconde sempre dietro il putto, e non è un caso. Perché la bella veste verde che indossa è in parte sollevata, ed appare un corpo squamoso, da pesce o da rettile. Più in basso, compariranno delle zampe con artigli ed anche una lunga coda. In una mano tiene un favo di miele, nell'altra cerca di nascondere un piccolo animale venefico. Non solo, a ben guardare le due mani sono scambiate: la destra è una sinistra, e la sinistra una destra.
Qualche critico, fermandosi alla pelle squamosa, ha ritenuto che fosse una Arpia, ma sono le mani, a svelare l'identità: la mano cattiva che offre il dono, la mano buona che nasconde il veleno: una duplicità vertiginosa.
E' la Frode (anche l'Inganno o l'Ipocrisia, secondo gli iconologi del '500), la cui caratteristica fondamentale è proprio la duplicità: per questo il viso è bellissimo ed il corpo orribile, per questo le mani sono scambiate, per questo non sta in primo piano, ma si nasconde dietro al putto, che è il simbolo del Piacere e del Gioco.
Proprio negli anni in cui opera il Bronzino si diffonde il gusto dei labirinti: grafici, scolpiti, realizzati nei giardini, quasi a significare la perdita di senso, la difficoltà di trovare una risposta univoca: la Frode è una moderna Sfinge, più insidiosa di quella che incontrò Edipo.


Se si esamina il particolare in basso a destra del quadro del Bronzino, si scoprono altri aspetti di cui alcuni inattesi. Non lo è il pomo nella mano (splendida!) di Venere, un dono che la dea intende offrire ad Amore o Cupido (si badi, è suo figlio, in quasi tutti i miti, e quindi c'è pure il coté incestuoso); tiene il pomo in modo che Cupido lo veda - però con l'altra mano tiene una freccia, che Cupido non può vedere, ma di ciò poi. Si intravedono anche parte delle gambe della dea, che è di una bellezza non so dire se divina o diabolica, ed il Bronzino a questo voleva portarci, ad una ammirazione tanto forte quanto turbata.

Si vede che il putto ha una cavigliera ornata con campanelli, un motivo dell'antichità ellenistica che rimanda al Piacere ed al Gioco. Si intravedono anche le zampe con gli artigli della bella fanciulla, la Frode, e la sua lunga coda, simile, diremmo noi, a quella di un enorme serpente a sonagli, che presumibilmente il Bronzino non conosceva (ma che strano, sonagli-campanelli!).
Ma soprattutto si vedono due maschere, una giovane donna ed un uomo anziano che ha l'aria trista (triste+cattiva). Le maschere, dice Erwin Panofsky, da sempre simboleggiano “la mondanità, l'insincerità e la falsità”. Un raccordo con la Frode (la fanciulla), ma anche con il Piacere ed il Gioco (il putto).
Tutto continua ad essere chiaro ed ambiguo, duplice.


Nel particolare qui sotto del quadro del Bronzino, si vedono in parte i corpi bellissimi dei due amanti, Venere e Cupido, e continuano a comparire dei simboli, dei sublimi feticci. Ambiguamente, il voyerismo si nasconde dietro il significato morale e viceversa.
Proprio nell'angolo in basso si vede una colomba, ma se si guarda bene, si vede anche spuntare il becco e la testa di una altra colomba. “Tubare come colombi” si dice ancor oggi, ed Erwin Panofsky scrive che era un simbolo usuale di “tenera sollecitudine”, a cui è da aggiungere che le coppie di colombi sono note per la monogamia. Il contesto non sembra quello, considerando il cuscino evidentemente morbidissimo sotto le ginocchia di Cupido, oggetto piuttosto raro allora. Ancora oggi parliamo dei cuscini in “piumino d'oca” proprio per intendere che la morbidezza è il primo requisito del cuscino, che è un simbolo di lascivia e di mollezza. “I Racconti del Cuscino” è il titolo di un film pregevole ed originale di Peter Greenaway, l'autore de “I misteri dei Giardini di Compton House”. Il tema ricorrente di Greenaway è una acuta indagine sull'erotismo, un po' quello che fa il Bronzino qui. Dietro Cupido, si intravedono le foglie di un mirto, simbolo classico dell'amore. Ma il corpo di Cupido, è maschile o femminile? Ci tornerò alla fine.


In alto c'è un vecchio assai vigoroso, attento e lucidamente iracondo, la testa pelata ed una strana barba assai folta, dove c'è. I baffi spioventi gli coprono le labbra. Ancora più in alto si vede un'ala biancastra e, vicino alla testa del vecchio, si intravede parte di una clessidra. Corrisponde con la colomba nell'angolo opposto, quella di cui si vede solo il becco e la testa - il Bronzino era assai lucido nell'organizzare, nel pesare la rappresentazione, ed in questo caso si tratta musicalmente di due note in minore, ma indispensabili.
Questo vecchio è il simbolo del tempo, lo comprendono tutti, ma è bene porsi due domande, una particolare, ed una generale. Che cosa sta facendo il tempo, anzi il Tempo? Sta tirando in alto un drappo, una specie di grande tenda, sta svelando il quadro, con tutti i suoi significati e la loro ambiguità che, per il fatto stesso che ce ne accorgiamo, non c'è più, perché “Veritas filia Temporis”.
Perché il Tempo è vecchio? Una domanda ovvia, ma solo in apparenza. Parrà strano, ma nella antichità classica il Tempo non era rappresentato come un vecchio, non c'era questa attenzione all'età del Tempo, anzi, spesso era rappresentato come un giovane con le ali ai piedi: Kairòs, l'Opportunità, che passa veloce e la devi cogliere subito, difatti aveva un gran ciuffo davanti e la nuca rasata.
Il Tempo è rappresentato come un vecchio per l'equivoco tardo-antico fra due parole greche che hanno significato diverso: Chronos, il tempo e Kronos, il padre di Zeus, vecchio e cattivissimo, un mangiabambini, alla lettera. Lascio a voi la riflessione su quanto questa identificazione negativa del Tempo abbia pesato sulla visione di vita di tutto l'Occidente. Per gli antichi Greci, Chronos era una cosa e Kronos tutta un'altra cosa. Kronos, il nostro Saturno, si è mangiato pure Chronos... ed è un bel guaio.


Sono rappresentate due donne, nella parte del dipinto in alto a sinistra. La simbologia di una delle due, la donna che piange ed urla strappandosi i capelli, è stata sempre chiara, dal Vasari ad oggi, anzi ben prima del Vasari e del Bronzino: è il simbolo della Gelosia disperata, altro inconveniente dell'amore, forse quello che più fa soffrire.
Riguardo la donna più in alto ci sono state molte discussioni; Erwin Panofsky credette di essere arrivato nel giusto definendola come Verità che aiuta il Tempo ad alzare il velo: Veritas filia Temporis, appunto. Quindi ritenne che il titolo più appropriato del quadro era: "La lussuria smascherata". Ma ebbe la correttezza di cambiare idea quando osservò che nel quadro c'è una contrapposizione fra questa donna ed il Tempo: si scambiano sguardi irosi e sembra che la donna cerchi più di continuare a coprire col drappo piuttosto che alzarlo. Oggi l'interpretazione più diffusa ritiene che questa donna rappresenti la Notte, colei che cela gli amanti ed in cui sembra che il tempo si fermi.
Al centro del quadro Cupido e Venere si baciano e si carezzano lascivamente, ma le forme di Cupido hanno ben poco di maschile, sembra un androgino. Qui c'è tutta la cultura neoplatonica di Firenze che tendeva ad una rappresentazione molto simile dei corpi maschili e femminili, lo si vede benissimo dai disegni di Leonardo, Michelangelo e Raffaello. L'aspetto più sorprendente è la gestualità dei due amanti: Venere ha in mano una freccia, Cupido tiene una mano sui capelli di Venere, sino ad arrivare al diadema. Non possono essere gesti vacui, e l'interpretazione è singolare: entrambi stanno perseguendo la stessa finalità, che è quella di sottrarre qualcosa senza che l'altro se ne accorga. Venere disarma Cupido privandolo della freccia, e Cupido disarma Venere privandola del suo diadema. Entrambi operano in modo nascosto, difatti i loro gesti non possono essere reciprocamente visti. Trovo convincente questa interpretazione, perché dopo che la si è sentita la prima volta non si può fare a meno di vedere la specularità dei due gesti, che sono fra di loro in corrispondenza fraudolenta.


Rivediamolo tutto intero, il quadro, dopo gli spezzettamenti faticosi della spiegazione.
Un altro titolo, forse vicino alle intenzioni dell'artista, è “L'Allegoria del Trionfo di Venere”. Il quadro è stato eseguito attorno al 1546 e segna la fine del periodo dei manieristi eroici e furiosi : il Parmigianino, il Rosso fiorentino, il Pontormo, i pittori della crisi politica italiana. Due poteri politici assoluti, il Vaticano e la Spagna, hanno vinto, e “la lucida intenzionalità con cui il Bronzino dà forma incorrotta alla materia pittorica, fissando le immagini in una statica e aulica preziosità, si pone come superamento delle inquietudini della precedente generazione manieristica”. E' “un emblematico riflesso della volontà assolutistica della politica”. Nel tempo succederà altre volte, ancora con grandi artisti: Guido Reni, dopo la tempesta sublime e terrestre del Caravaggio, e Jean Dominique Ingres, dopo la Rivoluzione francese, in piena Restaurazione.
Ma se seguiamo Erwin Panofsky, ci accorgiamo di quanta duplicità, ambiguità, insicurezza, ci sia dietro questo trionfo allegorico, ed il Bronzino ne era consapevole, solo che i tempi erano quelli. La scialuppa di salvataggio non è il trionfo, è la consapevolezza, ed il sorriso che ne scaturisce, non ironico né grottesco, è il sorriso di chi ha capito, e va bene così, perché chi se ne accorge già è fuori dal gioco fraudolento della ipocrisia fatta sistema, dei disvalori elevati a valori. Questo può essere il senso catartico del capolavoro del Bronzino.

6-26 settembre 2004, ma rivisto per l'occasione



giovedì 20 settembre 2007

Il quaderno di mia madre


Alessandro Lafôret: Maternità


Il quaderno di mia madre

di Remo Bassini




Quando ero piccolo mi terrorizzava, bastava un suo sguardo.
Dovevo essere ordinato e puntualissimo: Se ti ho detto che devi tornare a casa per le sette, devi arrivare almeno con cinque minuti di anticipo.
A volte, questa mia dura madre, era esasperata: e ricorreva al battipanni.
Picchia, le dicevo, fingendo di non aver paura di lei; invece ne avevo, e mi sentivo solo e abbandonato quando non ero protetto dalla complicità di mio padre (ce n’erano anche per lui di rimbrotti).
Ha avuto una vita di inferno mia madre.
Di tanta povertà e di tanta, troppa, sensibilità.
Figlia di mezzadri, da piccola andava a “guardare le pecore”, oppure i maiali. Quando arrivava il momento di far festa, perché si ammazzava il maiale, lei scappava via, e piangeva. Di nascosto, sempre. Perché bisogna essere forti…
Dura, durissima madre.
Leggi e studia, leggi e studia, mi dicevi.
E non ti lamentare, mi dicevi sempre, ché c’è sempre chi sta peggio di noi.
E non ti lamentare se hai mal di pancia, “non fiezzare”, che non serve. Non serve piangere.
Non pianse, lei, quando le morì un figlio, mio fratello Fabrizio. Avevo sei anni. Non un lacrima ma poi, quando vide che la piccola bara bianca veniva ricoperta di terra nera, le gambe cedettero e fu sorretta da mio padre. Solo un attimo, ché si riprese, poi.
E non pianse nemmeno quando, solo due anni fa, perdette un secondo figlio. Nessuna lacrima: mai di fronte agli altri.
E poi ci sono io, vero mamma?, che ti ho fatto piangere tante volte. Anche negli anni scorsi…
Speravo che crescessi, ma non cresci mai, mi dici. Fortuna che hai avuto Silvia, la mia sorellina. Che ti ha inondato d’affetto.
Tu non hai famiglia, sei uno zingaraccio, mi dicevi, severa e adirata, quando ero piccolo.
(Ricordi quanta paura ti feci prendere quando, a sei anni, scappai di casa per ore e ore? Risento il tuo abbraccio, quando mi rivedesti).
Ora non è più una dura madre. E’ un madre mite.
Sono stata troppo dura con te, mi dice.
Mamma, sai che su un cosa che si chiama blog ho scritto di te, e dei cantastorie.
Non ha detto nulla, mia madre, mentre le dicevo “ho scritto di te”.
Giorni fa mi si presenta davanti. Con un bloc notes.
Mi dice: Lo sai che io non ho scuole e faccio gli sbagli.
Leggo.
Ci sono i canti che da ragazza aveva imparato.
Nel tempo che dei guelfi e ghibellini….
E ci sono storie contadine, d’amore e di povertà.
Ha fatto solo la terza elementare mia madre. I suoi genitori, analfabeti, la sgridavano: perché nel quaderno di matematica sprecava carta, c’erano troppi spazi bianchi tra un’operazione e un’altra.
Solo la terza elementare fatta nei giorni pari, perché in quelli dispari c’erano da guardare i maiali, ma, mentre leggo, vedo che i congiuntivi son giusti. Perché mia madre sapeva ascoltare “le belle parole della gente istruita”.
Basta orecchio, a volte.
(18 Settembre 2007)

Dal blog Altri Appunti di Remo Bassini



mercoledì 19 settembre 2007

Ad un pensiero sprecato




Ad un pensiero sprecato
(Francesca non è mai esistita)

di Jomarch




A Firenze quando piove succede che le foglie si impastano.
E il fiume s’ingrossa. E il tempo si mischia perfettamente agli imperativi e alle cioccolate calde.
Tengo sempre la scrivania davanti alla finestra, anche lì al campus lo facevo. Ma adesso ho una ruga e una stanza tutta per me.
Adesso apro la finestra quando piove, adesso tra i corpora e calvino e con le bacchettine di incenso che spengo di corsa al primo odore di pioggia prima che piova, so raddrizzarmi le spalle che ho creduto piegate senza rimedio.
Adesso è un'acquerugiola stanca, un salmodiare atono che non spande paure, adesso non sono io quel silenzio e non è lei il mio schiamazzo, il frusciare di sottofondo. Non è le porte che sbattono, tonfi di dizionari che si chiudono esausti, non è Degas appeso al muro. Adesso che porto anelli alle dita e i capelli biondi, adesso so spiegare i batticuori, le nuvole, il vento dell’est. E distinguo un pioppo da un faggio, una peonia da un ranuncolo. Adesso che il mio mare è giallo di spighe di grano mature, ho le mani pulite di un amore sereno, che piega la testa di sera per una carezza e che con ossa pesanti e robuste stufa verdure e pazienza, riscalda di polvere e di argilla.
Adesso vivo. Di fonemi e grammatiche.
Dei polsi di Francesca e del sorriso largo, dell’odore di sapone e latte, di un fiato accennato, sfiorato appena e una penna tra i suoi capelli, di ricordi, ricordo, circondata di memoria, solo la tenerezza di non sentirmi intera e non saperlo. Solo di una perduta carezza.
(mercoledì 18 luglio 2007)

Da languori, nevrosi e altri tic



Fantasia



Fantasia

di Roby


Pomeriggio uggioso nella casa ormai vuota dei miei genitori, tra mobili da smontare e scaffali da liberare, con l’assillo di dover eliminare chili di paccottiglia e cartacce e l’ansia di salvare quello che di buono è nascosto fra tante scartoffie.
D’improvviso, da un cassetto del salotto, spunta una cartellina giallo-sole che custodisce alcuni fogli protocollo pieni di una scrittura larga, irregolare, inframmezzata da vivaci disegni tracciati con pennarelli a punta spessa. Sul frontespizio, l’ambizioso titolo “Storie fantastiche grandi e piccole” e la data “25 dicembre 1997”. Leggo e sorrido: è il regalo natalizio ai nonni della mia bambina di allora, che per l’occasione aveva pensato di ricopiare i temi liberi svolti in III elementare, ricavandone un libro fai-da-te assolutamente (e del tutto involontariamente) esilarante.
Seduta per terra fra scatole e cianfrusaglie, mi trovo a ridere da sola –proprio come una bimba di 8 anni- leggendo storie in cui la sintassi e la punteggiatura seguono regole molto personali, rivelando nell’autrice insospettabili propensioni futuriste e riuscendo ogni volta a stupire con soluzioni uniche.
Sorvolando (!) su “La mia notte con Babbo Natale” –titolo vagamente piccante- in cui si trova la saggia affermazione: “Babbo Natale come voi sapete è molto vecchio e non può portare tutti i regali che i bambini vorrebbero” (logica conseguenza di una prudente spiegazione materna, dopo l’inserimento nella lista dei doni di un costosissimo e voluminoso robot telecomandato), si passa alla commovente vicenda del mostro triste, abbandonato dalla sua famiglia, che viene adottato dallo scolaro Tomas (sic): “… però c’era un piccolo problema, che in casa di Tomas la porta era troppo piccola, così dovette lasciarlo in giardino”.
La figura della creatura aliena, magari orribile a vedersi ma sotto sotto buona come il pane, torna anche in altri componimenti, segno evidente che la maestra si prodigava a insegnare con dovizia di esempi la tolleranza verso il prossimo, per quanto diverso possa essere. Ed ecco il "gigante verde a forma di cactus con gli occhi rossi" che terrorizza con il suo aspetto gli abitanti di un intero paese, ma non il piccolo Tom (aridàlli!), il quale lo trova subito simpatico e intercede per lui, convincendo i suoi concittadini ma non il suo cane, tenacemente persuaso dal suo fiuto che quello sia un “cactus assassino”; oppure l’extraterrestre “così brutto che quando entrò in un supermercato tutti lo cacciarono via a calcioni”, e che per fortuna trova poi un dottore comprensivo che lo cura “gratis” e che vive con lui “molte avventure”; o ancora il genio di una lampada magica (parente forse di quello di Aladino?) che salva un bambino sepolto dal crollo di una casa e che viene a sua volta da lui sottratto al linciaggio da parte dei genitori, erroneamente convinti della sua responsabilità nell’incidente. “Morale:” è annotato diligentemente in calce “non bisogna mai spaventarsi prima di conoscere bene una persona”. Dunque –rifletto amaramente– è per reazione a quest’overdose di buonismo ricevuta alle elementari che oggi la mia cara figliuola, scorgendo per strada gruppi di extracomunitari, mastica fra i denti espressioni gentili quali “immigrati di m….” o “stranieri del c…”!?
Ma nel 1997, per lei, il mondo era ancora un’allegra scoperta, l’amicizia tra razze e culture diverse del tutto normale e qualsiasi essere vivente un simpatico tenerone: ne sia prova, fra tutti, il caso della feroce tigre Uan, troppo grassa, che “decise di fare un po’ di ginnastica in palestra” e che “la sera tornava stanchissima nella grotta dove abitava”, perché “la sua insegnante era una formica, anche se era piccola era forzuta e la faceva faticare dalla mattina alla sera”.
Ultima perla, un altro temino natalizio, “Immagino che i personaggi del presepe possano parlare”, in cui sarebbe stato fin troppo facile scadere nella retorica mielosa, e dove al contrario la giovanissima autrice tocca vette di comicità mai più raggiunte nella sua produzione letteraria scolastica. “Giuseppe e Maria si misero in cammino verso Betlemme, mentre stavano camminando Maria disse: Giuseppe, devo partorire! Giuseppe rispose: Non ti preoccupare, troveremo un albergo!” Le ultime parole famose… Segue l’elenco di buoi, asinelli, pastori, pecore e altri visitatori approdati alla capannuccia della Sacra Famiglia, finchè “dodici giorni dopo arrivarono i Re Magi a portare oro, incenso e mirra. Questo” (e qui si avverte chiaramente un certo malcelato sollievo) “fu l’ultimo arrivo per il Bambino Gesù”. Ingenua freschezza, ironia consapevole o semplice spirito pratico? Ah, saperlo!
Sospiro, ripongo con cura la cartellina gialla fra le cose da conservare gelosamente e torno al mio noioso lavoro di cernita. Dalla finestra sul retro il mostro, lasciato in giardino perché troppo grande, fa capolino col suo sguardo triste, mentre la tigre Uan, in tuta e scarpe da ginnastica, passa di corsa lungo il viale alberato, laggiù, fino a scomparire ruggendo dietro l’angolo…


martedì 18 settembre 2007

Vent'anni senza ridere


Vent'anni senza ridere
(Livre mon ami 7)

di Solimano



Da bambino mi presi il morbillo, come tutti, ma anche la difterite, che non era uno scherzo: ricordo ancora una siringona piena di siero e le facce preoccupate dei miei.
Più tardi, la parotite epidemica, in gergo orecchioni, anche una bella tonsillite all'anno, di quelle per cui deglutire faceva venire le lacrime agli occhi dal dolore.
Però le tonsille ce le ho ancora, fiero di averle. Non si fanno sentire, non fanno nulla da decenni, che è il fortunato mestiere che ha loro assegnato l'evoluzione della specie.
Ma da adolescente, quindi un po' più tardi, mi beccai Cesare Pavese, e ce ne volle del tempo per guarire. Una dose massiccia: Il mestiere di vivere e Lavorare stanca, certamente l'estate più triste della mia vita.
Pavese allora era come Garibaldi: guai a parlarne male. Ancora oggi, migliaia di insegnanti vorrebbero che i ragazzi leggessero i libri di Pavese, e li prescrivono nei consigli di classe. I critici più avveduti, già da qualche decennio scrivono che Pavese, comunque, è stato un grande operatore culturale, ed in quel comunque, a leggerlo bene, si capisce che cosa ne pensano, di Pavese.
Non è che sia obbligatorio leggere libri allegri: La malora di Fenoglio, Con gli occhi chiusi di Tozzi e Una vita di Svevo, altro che allegri, sono libri terribili, ti scavano dentro, ti fanno toccare (ecco la parola!) con mano che la vita è anche un dramma, spesso irresolubile, ma tu alzi la testa dal libro, tiri un respiro di quelli profondi (un respiro, non un sospiro) e vai fuori e lo affronti, 'sto dramma, che è un dramma onesto, non un belato erudito né il soffri e sii grande! del conte Alessandro Manzoni.
Pavese era contagiosissimo, anche a causa della egemonia culturale della sinistra (sinistra? Pavese?) in generale e della Einaudi in particolare: per almeno vent'anni nella letteratura italiana è stato vietato ridere.
Italo Calvino, che già di suo non era un mattacchione, ha dovuto fare il giro lungo, con Marcovaldo e le Cosmicomiche, ed era considerato un po' così, come un settecentista a cui perdonare qualche calembour.
Tempi finiti, meno male. Nel senso che c'è di peggio, di molto peggio, ma nessuno osa dire che sia il meglio, che questo peggio sia un must.
Qualche anno fa ho scoperto i libri di uno scrittore con una vita personale molto difficile, Attilio Bertolucci, il padre del regista. Nelle sue poesie-romanzo, la racconta questa vita, e avverti tutto il suo autentico dolore, che lui sa irresolubile, perché nasce dal di dentro suo, non dal di fuori. Eppure quei suoi libri dai titoli bellissimi: Fuochi di novembre, Viaggio d'inverno, La capanna indiana, La camera da letto (il titolo più bello di tutti) li leggi camminando sul filo del suo disagio, che è anche il tuo, e la serenità – senza che tu la cerchi - ti prende come un satori di campagna.
E' quella che ti insegna che l'arte di vivere (altro che mestiere!) è aprire le mani, non stringere i pugni.

P.S. Metto alcuni versi di Attilio Bertolucci. Li ho trovati in un sito francese, non so da quale raccolta provengono, ma la voce è la sua, la voce che Montale lodò, quando Bertolucci era agli inizi:

L’insonnia allunga la giornata, dunque
sia benvenuta –
Essa ti aiuta
a gabellare il sergente Morfeo
nella garitta
già d’ombra fitta,
a aggirare il borgo murato
nel coprifuoco,
a farsi gioco
d’ogni ordinanza al fine di carpire
sui picchi assorti
raggi qui morti,
beata luce in porti ancora diurni.


2 settembre 2004 (ma la poesia di Bertolucci l'ho trovata due giorni fa, e anche la foto)



lunedì 17 settembre 2007

Vacanze romane


Piazza di Spagna - Vacanze Romane


Vacanze romane

di Roby



La mia passione per i vecchi film hollywoodiani, ed in particolare per il genere "commedia", deriva in buona misura dai racconti di una mia cara zia, la più giovane fra le sorelle di mio padre, la quale - quando ero bambina - preferiva raccontarmi trame cinematografiche piuttosto che favole o filastrocche. I film di Audrey Hepburn erano uno dei suoi cavalli di battaglia, e fra tutti mi affascinava "Vacanze romane", con la principessa triste che si concede 24 ora di fuori-programma sotto il sole capitolino.

Vacanze Romane: Audrey Hepburn, Gregory Peck

Prima ancora di vedere la pellicola in TV, più o meno 35 anni fa, sapevo come andava a finire la storia, ma questo non mi impedì affatto di gustarmela, nè mi impedisce di farlo ancora, ogni volta che inserisco nel lettore il dvd da collezione, con tanto di contenuti speciali. Quando Ania scavalca il davanzale e scompare nella notte romana, infilandosi nel camioncino della lavanderia (guidato da un giovanissimo Maurizio Arena), io sono lì con lei, e provo la sua stessa emozione, l'eccitazione dell'avventura e il gusto del proibito. Lei sa bene che in capo a poche ore tutto tornerà alla normalità, così come lo so io: ma il divertimento resta intatto per entrambe. Quindi, insieme accettiamo l'ospitalità di Gregory Peck nel suo pied-à-terre di giornalista squattrinato, insieme ci infiliamo il suo pigiama ed insieme ci risvegliamo, a mezzogiorno della mattina seguente, stupefatte ma in fondo incuriosite dalla novità della situazione. Poco dopo, Roma ci spalanca le braccia, e fra le sue strade, le sue piazze e le sue scenografiche scalinate noi ci perdiamo, felici e spensierate.

Dal film: Vacanze Romane

La principessa dimentica per un po' i suoi doveri reali, ed io quelli quotidiani, certo non meno impegnativi. Sulla Vespa bianca (sono sicura che è bianca sul serio, e non solo perchè il film è in bianco e nero), bianca come il cavallo di un Principe Azzurro, sfreccio anch'io tra i palazzi in travertino e le fontane, sfuggendo ai vigili urbani e ai pensieri molesti... bevo anch'io champagne alla rotonda del Pantheon, brindando alla vita che passa e va... ed infine spacco anch'io la chitarra in testa all'agente segreto che tenta di ricondurmi alla realtà, durante una festa da ballo sul Tevere ancora "biondo"... Alla fine, Ania e il suo bel giornalista si dicono addio in silenzio, durante la conferenza stampa che segna la fine della visita in Italia della principessa: gli occhi di lei sono pieni di lacrime, ma le labbra sorridono specchiandosi nelle foto-ricordo, souvenir delle sue (delle mie) indimenticabili, trasgressive, deliziose "vacanze romane".
12 aprile 2007

Anche su Abbracci e pop corn

Audrey Hepburn e Gregory Peck in Vacanze Romane


New York




New York

di Massimo Marnetto



L'uomo di Boccioni esposto al Guggenheim è una scultura di una potenza rara e girandoci intorno scopro che ha tante prospettive quante sono le infinite angolazioni da cui si può godere.
Arriva mia figlia e mi avvicina una moneta da venti centesimi: è lui!

C'è la stessa statua di Boccioni che ho davanti.
Chissà perché sento il bisogno di condividere il mio stupore con un gruppo di turisti americani che come me girano come squali intorno alla statua. Sono colpiti dalla storia della moneta, ma ancor di più quando gliela regalo (è stata un'idea sempre di mia figlia, io 20 centesimi non li avrei mai dati via così…)

Il Museo ha una struttura elicoidale molto bella e le sue geometrie sono molto eleganti. Scatto foto a volontà cercando l'enfasi delle intersezioni tra linee curve e rette. Insomma, quelle che quando le rivediamo, le mie figlie giudicano assolutamente insulse.

Abbiamo comprato la tessera per girare in autobus e metro e dopo poco abbiamo già capito come funzionano i mezzi.
Il bus, in particolare, ci offre un rifugio caldo e comodo (c'è quasi sempre posto a sedere) per riprenderci da lunghe passeggiate e il traffico prolunga piacevolmente la nostra pausa con tanto di panorama della città che ci scorre dai finestrini. Inoltre, posso guardare le persone, una cosa che mi piace tantissimo. I passeggeri sono di tutte le razze e sono tante le persone obese. Penso che in un capitalismo così competitivo come quello americano, chi non può avere altre soddisfazioni finisce per lenire la propria frustrazione nella violenza o nel cibo, tanto e scadente.

C'è una ragazza su una sedia a rotelle che aspetta alla fermata. L'autista si accosta tira giù la sua pedana. Guardo in rapida sequenza i visi dei passeggeri: tutti si sono resi conto della causa del ritardo, ma nessuno tradisce né insofferenza, né pietà. La ragazza viene assicurata dall'autista e pochi tolgono lo sguardo dai loro giornali. Insomma, è tutto splendidamente normale.

Siamo finalmente a Soho, nella galleria d'arte Ward-Nasse Gallery, uno posto specializzato nella vendita di opere di sconosciuti, dove penso di poter comprare un bel quadro senza svenarmi.
Non ce n'è nessuno che mi colpisca alla mia portata, visto che quelli più belli hanno quotazioni ben al di sopra di quelle degli emergenti. Ma è bello lo stesso guardare tutta quell'arte e penso alle stanze disadorne del Queens dove sono stati probabilmente dipinti, negli studi abusivi occupati da eserciti di artisti che ci dormono anche e che con la loro ostinazione hanno resistito anche agli sgomberi di Ralph Giuliani.

Mangiamo un minestrone caldo al ristorante Il Corallo.
E' incredibile vedere come la cucina italiana si sia affermata in tutte le fasce, dalle bettole ai grandi ristoranti dell'Upper West Side, ma nelle bettole di solito i nuovi gestori sono sudamericani.

Poche strade più in là, scopro per puro caso un negozietto che vende solo scacchi. "Qui nel nostro Chess Forum – fa il proprietario con compiaciuta cortesia – vendiamo circa 200 tipi di scacchi dal fantasy, ai pompieri, dai manager a quelli fatti con pezzi di tubo".
E debbo dire che rimango incantato da tutte quelle squadre schierate sugli scaffali. Chissà come sarebbe una partita tra politici del Polo e dell'Ulivo? Con il re-Prodi e la regina-Bindi ad affrontare il re-Berlusconi e la regina-Follini…

Col sole si sta bene, ci sediamo in un parco, dove una parte è stata recintata per potervi far correre i cani, un'unica banda di 15 taglie diverse, che non si fermano mai. Facciamo il punto sulla carta e siamo al Village, che sta a New York, come Trastevere a Roma. Mi fa una certa emozione pensare che Bob Dylan abbia iniziato a suonare come ambulante proprio in queste strade…

Mia figlia (l'altra) si trova bene nella sua famiglia. Le hanno dato una stanza tutta per sé e sono gentili. Un tipo del college le ha anche scritto una lettera d'amore.
Anch'io all'estero ero bello.
(3 marzo 2004)


domenica 16 settembre 2007

Colazione da Tiffany

Habanera

Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany

Non è stato un amore a prima vista.
Non che non mi fosse piaciuto quando l' ho visto al cinema, solo che in quel momento non sapevo ancora che sarebbe diventato uno dei film che avrei rivisto sempre volentieri,
un film amico.
L' ho scoperto quando ho avuto occasione di rivederlo la seconda volta, in TV, e ne sono passati di anni.
Non è sempre vero che un film lo si apprezza realmente solo al cinema, dipende dalle circostanze, dallo stato d' animo.
Invece è assolutamente vero che niente può sostituire il teatro, la sua magia, il rapporto diretto che si stabilisce tra gli attori e gli spettatori, ma questo è un altro discorso.

Torniamo al film e ai due protagonisti, Paul (George Peppard) ed Holly (Audrey Hepburn).
Paul, scrittore in crisi d' ispirazione, è l' amante strapagato di una sofisticata signora dell' alta borghesia, Holly frequenta il giro delle persone in vista sperando di accalappiare un marito ricco per riscattarsi, insieme al fratello, dalla miseria in cui sono cresciuti. Sono vicini di casa e diventano amici, con estrema naturalezza, nel momento stesso in cui si conoscono. Nessuna formalità tra di loro, mai un attimo di imbarazzo, solo confidenza e fiducia reciproca, come si conoscessero da anni.

Alba a New York - Colazione da Tiffany


Holly entra ed esce senza preavviso da casa di Paul, anche in piena notte, direttamente dalla finestra e lui sembra trovarlo del tutto naturale. E' un' amicizia complice ed allegra, come tra due adolescenti, che si rafforza di giorno in giorno; tutto sembra filare a meraviglia finchè Amore ci mette lo zampino e inevitabilmente la situazione si complica. Holly ha paura di amare e di essere amata, non vuole appartenere a nessuno, teme di trovarsi ingabbiata, lei così interiormente libera da non avere mai arredato il suo appartamento nè dato un nome al suo gatto, che infatti chiama Gatto.

Paul è il primo a capire che l' amicizia si sta trasformando in qualcosa di diverso e si comporta di conseguenza. Lascia senza rimpianti l' amante non amata, ricomincia a scrivere, cambia casa e stile di vita. E Holly? Adorabilmente testarda, come sempre, non si arrende. Resiste, si rifiuta di mettersi in gioco, cerca di fingere, anche con se stessa, che niente sia cambiato. Spera ancora di realizzare un matrimonio in cui l' affetto non rischi di trasformarsi in amore per continuare così a sentirsi libera, senza radici.

Colazione da Tiffany, Happy End


Ma alla fine cederà anche lei. Sotto una pioggia torrenziale, cercando e ritrovando il Gatto che aveva abbondonato, ritroverà anche Paul. Si guardano negli occhi e per un tempo che sembra interminabile nessuno dei due si muove verso l' altro... L' Happy End, prevedibile ma non tanto, arriverà con l' abbraccio più inzuppato della storia del cinema, un abbraccio a tre perchè c'è anche Gatto, bagnato fradicio anche lui ma felicemente al riparo sotto il bavero dell' impermeabile di Holly.

Il tutto condito da una sognante colonna sonora, Moon River, e dalle immagini di una New York sul finire degli anni cinquanta con la sua mitica Quinta Strada, emblema di quel sogno americano che ha accompagnato tante generazioni e in cui oggi è tanto più difficile credere, per tutti.
Ho detto molto ma non ho detto tutto, chi ha visto il film lo sa. Occorre ascoltare il dialogo, battuta per battuta, ma soprattutto vedere lei, Audrey Hepburn, perchè senza i suoi incantevoli occhi questo film sarebbe un' altra cosa ed io, probabilmente, non sarei qui a parlarne.
(giovedì 26 aprile 2007)

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Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany