martedì 18 settembre 2007

Vent'anni senza ridere


Vent'anni senza ridere
(Livre mon ami 7)

di Solimano



Da bambino mi presi il morbillo, come tutti, ma anche la difterite, che non era uno scherzo: ricordo ancora una siringona piena di siero e le facce preoccupate dei miei.
Più tardi, la parotite epidemica, in gergo orecchioni, anche una bella tonsillite all'anno, di quelle per cui deglutire faceva venire le lacrime agli occhi dal dolore.
Però le tonsille ce le ho ancora, fiero di averle. Non si fanno sentire, non fanno nulla da decenni, che è il fortunato mestiere che ha loro assegnato l'evoluzione della specie.
Ma da adolescente, quindi un po' più tardi, mi beccai Cesare Pavese, e ce ne volle del tempo per guarire. Una dose massiccia: Il mestiere di vivere e Lavorare stanca, certamente l'estate più triste della mia vita.
Pavese allora era come Garibaldi: guai a parlarne male. Ancora oggi, migliaia di insegnanti vorrebbero che i ragazzi leggessero i libri di Pavese, e li prescrivono nei consigli di classe. I critici più avveduti, già da qualche decennio scrivono che Pavese, comunque, è stato un grande operatore culturale, ed in quel comunque, a leggerlo bene, si capisce che cosa ne pensano, di Pavese.
Non è che sia obbligatorio leggere libri allegri: La malora di Fenoglio, Con gli occhi chiusi di Tozzi e Una vita di Svevo, altro che allegri, sono libri terribili, ti scavano dentro, ti fanno toccare (ecco la parola!) con mano che la vita è anche un dramma, spesso irresolubile, ma tu alzi la testa dal libro, tiri un respiro di quelli profondi (un respiro, non un sospiro) e vai fuori e lo affronti, 'sto dramma, che è un dramma onesto, non un belato erudito né il soffri e sii grande! del conte Alessandro Manzoni.
Pavese era contagiosissimo, anche a causa della egemonia culturale della sinistra (sinistra? Pavese?) in generale e della Einaudi in particolare: per almeno vent'anni nella letteratura italiana è stato vietato ridere.
Italo Calvino, che già di suo non era un mattacchione, ha dovuto fare il giro lungo, con Marcovaldo e le Cosmicomiche, ed era considerato un po' così, come un settecentista a cui perdonare qualche calembour.
Tempi finiti, meno male. Nel senso che c'è di peggio, di molto peggio, ma nessuno osa dire che sia il meglio, che questo peggio sia un must.
Qualche anno fa ho scoperto i libri di uno scrittore con una vita personale molto difficile, Attilio Bertolucci, il padre del regista. Nelle sue poesie-romanzo, la racconta questa vita, e avverti tutto il suo autentico dolore, che lui sa irresolubile, perché nasce dal di dentro suo, non dal di fuori. Eppure quei suoi libri dai titoli bellissimi: Fuochi di novembre, Viaggio d'inverno, La capanna indiana, La camera da letto (il titolo più bello di tutti) li leggi camminando sul filo del suo disagio, che è anche il tuo, e la serenità – senza che tu la cerchi - ti prende come un satori di campagna.
E' quella che ti insegna che l'arte di vivere (altro che mestiere!) è aprire le mani, non stringere i pugni.

P.S. Metto alcuni versi di Attilio Bertolucci. Li ho trovati in un sito francese, non so da quale raccolta provengono, ma la voce è la sua, la voce che Montale lodò, quando Bertolucci era agli inizi:

L’insonnia allunga la giornata, dunque
sia benvenuta –
Essa ti aiuta
a gabellare il sergente Morfeo
nella garitta
già d’ombra fitta,
a aggirare il borgo murato
nel coprifuoco,
a farsi gioco
d’ogni ordinanza al fine di carpire
sui picchi assorti
raggi qui morti,
beata luce in porti ancora diurni.


2 settembre 2004 (ma la poesia di Bertolucci l'ho trovata due giorni fa, e anche la foto)



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