Mi guarda. Ha una faccia buona. Serena. Un uomo buono.
Gli chiedo un caffè e un bicchiere di acqua minerale frizzante. Gradisce una fettina di limone? mi fa. Ne sono certo: è l’uomo ideale per Sara.
L’uomo che si sveglia al mattino, le sorride, magari le prepara il caffè. L’uomo che sa dire cose dolci, regalare un fiore.
L’uomo che non sono io.
Non lo sa, lui, chi sono io. Non ho la minima intenzione di presentarmi. Non voglio che Sara sappia: sappia che ho fatto 400 chilometri solo per vedere la faccia di lui. Dell’uomo che fa l’amore con quella ragazza che, proprio il giorno dell’esame di maturità, felice e con un vestitino a fiori, venne con me al fiume: la prima volta, per tutti e due, sotto un sole cocente.
Un giorno che non dimenticherò mai, sai Sara? (ma io questa cosa non te l’ho mai detta).
Ho impiegato due anni a prendere questa decisione. Ora eccomi qua, nel suo bar. Nella loro città.
Ma il problema non è la sua o la mia faccia. Il problema è la casa, le case. Sono affascinanti la sera. Dall’autostrada, o da altre strade, statali o secondarie, vedo e mi piace, sfrecciando, vedere le finestre illuminate. Intravedere dietro le tende. Immaginare. Mi si stringe il cuore. Ripenso a me, con mamma e papà, da piccolo. Ripenso a Sara. Al calore di una casa.
La salutavo, un bacino sulla porta, poi con le mie stecche da biliardo percorrevo chilometri e chilometri, quasi ogni sera, per gare, allenamenti, incontri.
O solo per assistere ad altre gare. L’importante era respirarlo, il biliardo. E quando uscivo di casa, dopo averla salutata, dopo pochi chilometri ecco che vedevo le prime luci, i primi lampadari, o il bagliore di una televisione. Pensavo, sapevo, che avrei fatto bene a tornare, tornare da Sara, da lei. Che mi aveva salutato dicendomi, Vai non ti preoccupare per me.
Le rivedo oggi quelle luci e provo nostalgia per le mie due case: quella con mamma e papà, quella con Sara. E mi fanno, anche, uno strano effetto: mi fanno, solo per un attimo, odiare il biliardo, che mi ha rovinato la vita. O forse me l’ha resa più bella, non so. Perché di notte io, sempre, oggi come quando dormivo accanto a Sara, sognavo il tavolo, quel colore verde che per me è il più bello di tutti, e il rumore, dolce e secco, della stecca sulla palla che rotola e va, spinta dal pensiero, mentre il cuore, per un piccolo attimo, corre, ma solo un po’: corresse troppo non sarei un campione. Il problema è che quelle luci della case viste dalle autostrade a un certo punto si spegnevano. Si spengono.
(Racconti di un attimo)
Venerdì 14 Luglio 2006
Da Appunti di Remo Bassini
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