Anni, anni, anni. È il titolo di una canzone di Paolo Conte.
Dice che a diventare quel che si è non basta un attimo.
E io voglio qui tessere l’elogio della maturità e persino della vecchiaia, e il necessario recupero dei suoi valori all’orizzonte dei nostri valori.
Mi è capitato di dover rileggere tanti scritti di “giovani” studiosi, ricercatori, aspiranti professori, tutti patentati dall’università.
Posso dire di aver registrato una tale quantità di prosopopea, di semplicismo e saccenteria da risultarmi, tutta questa gioventù, con poche felici eccezioni, quasi stomachevole.
E parlavano – e scrivevano – con l’idea di mangiarne sempre nei giorni feriali, di Luchino Visconti, di Paul Klee, di Fritz Lang … Persone e opere davvero troppo più grandi di loro.
È il rischio della divulgazione e della scolarizzazione sclerotizzata nella ricerca di sintesi e certezze commestibili: Mi parli di Raffaello… Difficile non sembrare cretini, nelle risposte. Ma è l’ingresso nella parte dell’intellettuale, l’infilarsi nei modi del conoscitore che dà fastidio, quell’ostentare familiarità e possessione della materia attraverso facili resumé, quanto di più lontano dall’amore, che è attenzione, circospezione e dubbio. Forse la sicumera premia nel mondo accademico di oggi, e quel vezzo di apparire sprezzanti e sicuri di sé dà veramente sicurezza anche a chi le cose non le ha capite nemmeno tanto bene.
Mi ricordo di una ragazza ai tempi della mia università, che un mattino di giugno, proprio a ridosso dell’esame del corso di storiografia delle arti tenuto dal bravissimo professor Massimo Ferretti – interamente dedicato alle formelle di Ghiberti e Brunelleschi e al concorso del 1401 per il battistero di Firenze – dichiarò di averli sognati, loro due in persona. Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi, col manto e tutto, davanti a lei, con aria minacciosa e sprezzante le dicevano: “Tu, delle nostra formelle, non hai capito niente!” Che ridere, e che umile inconscio... Un’umiltà che le avrebbe impedito di parlare con quei toni, con quelle frasi fatte che appaiono intelligenti e insopportabili sulla bocca di tanti giovani “brillanti”. Umile è chi rispetta le tappe necessarie di un processo: si impara a tenere in mano la penna, e poi a scrivere il proprio nome e poi persino pensierini e poi una poesia o una storia… Ciascun passo con una sua importanza, necessario a passare ad altro ostacolo con la giusta misura. E i passi sono, in una vita, innumerevoli.
E a incoronarli troppo presto, questi giovani talenti, sin dai primi passi intendo, si fa loro piuttosto del male che del bene. Non conoscono che raramente l’energia dell’errore e della critica che spinge a spostarsi, a rivoltare se stesso come un calzino con una certa disinvoltura, senza curarsi dei lividi; e a studiare, ad ascoltare quello che gli altri hanno da dire e da dirti.
A questo stupendo senso del relativo, divenuto così raro in mezzo alla gara delle firme, pensavo davanti ai Sei brillanti di Paolo Poli, classe 1929, felice di essere lì. C’è qualcuno che sappia essere così sapiente e spiritoso, ampio negli orizzonti e rapido nelle associazioni fra testi, visioni, canzoni? C’è qualcuno che abbia espresso con altrettanta chiarezza le secolari vessazioni della chiesa sulle donne, attraverso le sue eroine e le sue innumerevoli invenzioni ? C’è qualcuno che sappia essere più attuale e graffiante o meno retorico di lui o di Monicelli che di anni ne ha Novanta? E allora sarà vero che questi anni, fatti di attimi, ore e settimane di ascolto e di attenzione, perché possiamo cavarci qualcosa di buono, a noi comuni mortali, ci servono proprio tutti, e tanti.
01.03.2007
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3 commenti:
Delle sei formelle in gara al concorso del 1401 ce ne sono pervenute solamente due, fortunatamente quelle dei due artisti più importanti, anche se sarebbe una meraviglia se ci fosse pure la formella di Jacopo della Quercia.
La storia la imparai da ragazzo, in aula con Francesco Arcangeli, ma non si finisce mai di accorgersi di cose a cui non si era badato (le due immagini qui nel Nonblog sono felicemente cliccabili), ma non è di questo che voglio parlare. Quello che impressiona è come questi artisti dovessero attenersi ad un tema molto definito da chi aveva indetto la gara: quindi c'è Abramo col coltello, Isacco che sta per essere accoltellato sull'altare del sacrificio, l'angelo che accorre a fermare la mano di Abramo, il capro che sarà veramente sacricicato al posto di Isacco, i viaggiatori con l'asino, persono il tipo di paesaggio. In questa uguaglianza del tema (anche nel dettaglio) i due artisti, attenendosi regorosamente al tema (non si poteva altrimenti), inseriscono le loro personalità molto diverse, in un gioco senza fine, perché, ad esempio, è più moderno Brunelleschi o Ghiberti? Se ne discude da secoli, ma ancora non si è giunti ad una risposta, né mai ci si giungerà. Quello che conta è che, guardando le due formelle, sempre meglio conosciamo Filippo e Lorenzo.
saludos
Solimano
La due formelle sono un gentile omaggio di Solimano al Nonblog e lo ringrazio. Non so come faccia a trovare sempre tutto!
Io le avevo cercate disperatamente, in tutto il Web, senza riuscire a cavare un ragno dal buco. Ora le ho un po' schiarite, ed ingrandite, in modo che si possano vedere meglio tutti i particolari.
Credo che ne valga la pena.
Habanera, le hai schiarite benissimo, adesso chi le guarda ingrandite può confrontare l'una con l'altra, e capire meglio le differenze e le analogie fra Brunelleschi e Ghiberti.
In rete, e specie nei blog, c'è purtroppo un manierismo che non condivido: quello di mettere le immagini piccole e poco leggibili, come se fossero fiorellini per adornare il testo scritto dal blogghiere. Ma quando ci si trova di fronte alle due formelle del concorso del 1401, la cosa migliore è cercare di mostrare al meglio le immagini, e poi guardarle e riguardarle cercando di capire, e informarsi, e leggere, perché su due cose di questo livello non si finirà mai di capire, è questo il bello. E i manierismi piccoli di ogni tipo si azzittiscano: ubi maior minor cessat.
saludos
Solimano
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