venerdì 31 agosto 2007

Lo sguardo di Michelangelo

Massimo Marnetto


L'ombra di un uomo si allunga sul pavimento dell'uscio della chiesa sino a diventare scarpe, che camminano ed echeggiano nella solitudine assoluta.
Appare un Michelangelo Antonioni precario nell'incedere senile, ma senza esitazioni nel dirigersi verso il monumento funerario di Giulio II ed il Mosè di Michelangelo, arrogante nel suo ritrovato splendore marmoreo dopo un restauro accuratissimo.
Sono le immagini de "Lo sguardo di Michelangelo" il corto diretto e interpretato da Antonioni e presentato a Cannes, dove ha ricevuto un applauso lunghissimo.
Di quale dei due Michelangelo è lo sguardo?
Il vecchio regista vuole che la macchina da presa lo inquadri dall'alto in basso, come se fosse una "soggettiva" del Mosè; e poi, viceversa, in controcampo passa dalla lente dei suoi occhiali per arrampicarsi fino alla maestà della statua. I due sguardi si incrociano in continuazione, in primissimi piani sempre più stringenti in un montaggio serrato.
Antonioni è solo nella chiesa vuota; solo davanti alla bellezza che lo rapisce. E sente di dover aggirare la barriera che lo allontana dalla statua, per poterla toccare.
La mano ruvida, tremolante e scura di sole accarezza lentamente i profili bianchi dei drappi di marmo che avvolgono il ginocchio di Mosè, come per integrare la percezione che il solo sguardo non assicura pienamente.
Il contrasto è spettacolare: l'uomo che è invecchiato inseguendo la bellezza, finalmente la trova, l'affronta e ne rimane trasformato, placato.
Esce dalla chiesa lentamente, senza voltarsi, minuscolo nell'impotenza del colonnato e grandioso nel dono che ha voluto farci. Il suo testamento.

(2 giugno 2004)



giovedì 30 agosto 2007

Blob à la blob


Ciprì e Maresco: Totò che visse due volte


Blob à la blob

di Solimano


Mi sono registrato le tre notti di Fuori Orario dedicate ai quindici anni di Blob, e ci sono volute due videocassette di quelle da otto ore. Blob lo studieranno gli storici, se vorranno veramente capire questi quindici anni. Lo spasso è assai frequente, come è frequente vedere (oggi) che il destino di certi personaggi era già scritto nei loro occhi e nelle loro parole di allora. Non me lo guardo in modo sistematico, salto qua e là:

…il bianco e nero di Ciprì e Maresco, il tormentone intercosciale Sharon Stone - Alba Parietti, il prodigioso Aldo Busi che chiama l'erezione alzabandiera, le donne di Craxi, lo spaurito Maurizio Mannoni, Veltroni un po' a disagio pure lui, non sapeva il suo futuro ed aveva un passato di figurine, Bossi dice che bisogna votare sì ai referenda (testuale), il Noooo! di Prodi due giorni dopo aver perso il governo, gli ispettori ONU legati alle piante a Srebrenica, la tragedia dei parenti che scavano con le mani nelle fosse comuni, Emilio Fede cammina sui suoi giornalisti, Mino Damato cammina sui carboni accesi, e tutti e due se ne vantano, la Moratti dice che mamma RAI non entra in concorrenza col signor Cecchi Gori, il ministro Mancino col cappello di alpino e l'aria astemia, Craxi dà del mariolo a Mario Chiesa, il dibattito in fondo amoroso fra Bassolino e la Mussolini, lo sventurato Occhetto, col senno di poi, ma c'era già portato, lo sguardo algido di Nilde Iotti ad Occhetto piangente quando chiude il PCI, De Michelis non rilascia dichiarazioni e cammina svelto, chissà quanto gli è costato, Borsellino sapeva cosa lo aspettava, Caponnetto affranto e dignitosissimo, Di Pietro, tutti lo volevano scritturare e quando arrivava ci si alzava in piedi ad applaudire, Primo Greganti va in galera serio serio, Citaristi dovrebbe dire quanti avvisi di garanzia ha ricevuto, ma non lo sa e li dice il suo avvocato (sghignazzi di tutto il tribunale, carabinieri compresi), il lecca-lecca dei conduttori TV fine anni '80: Frizzi, Marzullo, Minoli e Lasorella, al confronto Pionati è un coraggioso, Vittorio Sgarbi vuole morto Federico Zeri, Fellini indaga sull'aggettivo felliniano, c'era una volta Berlusconi felice, Di Bella vuole spiegare la somatostatina, ma si impappina fra una molecola e l'altra, Forlani comincia a sentire odore di plof! e di plaf! e passa la mano a Martinazzoli, vendo tutto e mi ritiro, l'educazione sessuale, un signore dai capelli bianchi che maneggia preservativi, Cicciolina si offre a Saddam Hussein, messi come siamo era meglio provarci, Buttiglione dice che vincerà solo chi si allea con lui, Ferrara giovane, grassoccio, con i capelli lunghi che gli vanno negli occhi e l'aria buona anche se grida, Costanzo è il fratello brutto di Ferrara, senza i capelli negli occhi, non grida ma è più cattivo, Gad Lerner santoreggia, come tutti allora, Santoro, Santoro, Santoro veramente bravo e furbissimo, Annunziata dice le parolacce e Vespa si scandalizza, a lui ha telefonato il Papa, Corrado Guzzanti agli inizi è un po' tirato, Paolo Guzzanti prima della conversione, spiritosissimo e coi capelli rossi a raggera, come la rèclame della Presbitero, Cecchi Gori coi capelli a boccoloni e l'aria il padrone sono me, Valeria Marini prima di Cecchi Gori, Vittorio Dotti seduto alla destra di Berlusconi, la Ariosto inseguita fino alla toilette da Ignazio La Russa cattivissimo dopo Fiuggi e prima di Fiorello, Rauti cattolico apostolico romano e missino, Teodoro Buontempo che fa il saluto romano col braccio perfettamente teso, lo saprebbe fare ancora, Maceratini fascistone in aeternum, il tronco è quello, Scalfaro quando gli esce la frase retorica chiude gli occhi, cioè quasi sempre, Montanelli finge di cercare le parole per dirle meglio, Spadolini sorridente, sembra lo zio scapolo di Ferrara e di Costanzo e spera che Benigni non infierisca, Cossiga con le dita nel naso per operazioni di scavo, Woytila giovane riceve Gorbaciov con occhi felici e aria protettiva, non sapeva il dopo, Funari spiega i nostri guai e l'economia col pennarello e le urla, Feltri sardonico, che dice che tutti parlano male del suo giornale però lo leggono, come oggi, solo che lo leggono meno, le monetine del Raphael, gente veramente incazzata ed i poliziotti che faticano a contenerli, Formentini ancora leghista duro e puro, la sciura Augusta non l'ho vista, peccato, tanto simpatica, Martelli credeva di avere un grande futuro, Segni pure lui, il Ciro! Ciro! di Sandra Milo, Andreotti ed Amato tali e quali come oggi, le genealogie delle famiglie Marzullo e De Mita e dei loro fraterni rapporti, otto grossi imprenditori arrestati a mezzogiorno e rilasciati in serata, gli spot elettorali del partito socialdemocratico e di quello repubblicano, roba da Romolo Augustolo, Enrico Berlinguer spiega come si fa a votare PCI, il simbolo in alto a sinistra, Mike Bongiorno dice che Berlusconi non ha mai licenziato nessuno, neppure lui, lo spot di Berlusconi con i tre figli piccoli, D'Alema ancora col vestito dell'Upim o del Gum, pettinato alla mascagna e con l'aria di un gatto sotto l'armadio, Nuccio Fava parla bene di Bruno Vespa, era il primo della classe, Leoluca Orlando Cascio che aveva un grande presente…
19 aprile 2004

Sandra Milo e Giulietta Masina

mercoledì 29 agosto 2007

Dei ritorni e di altre imprudenze



Dei ritorni e di altre imprudenze

di Jomarch


Sogliano al Rubicone, 21 luglio 2007, ore 22
Daniele canta e mi accorgo di avere così tanti pensieri che tu non sei che l'ultimo pezzetto di questa infinita matrioska. Ho la mente che turbina, poi solo quella data, un piccolo sussulto nascosto e trovato per caso. Null’altro.

e tirava una brezza che dava un colore alla quiete
e profumo di pane alle olive
lei pure mi vide e forse sorrise non sono sicuro, ma forse davvero sorrise perché all'improvviso fu molto più forte
l'odore del pane alle olive


Intanto il telefona squilla e io sospesa, trattengo il fiato. Non so come toccarti. Ho ancora paura, non sono guarita da quell’ansia di rovinare e rotolare di fretta e futuro.
Da dove ti (ri)comincio?
Dopo 7 anni?
Dove sbaglierò adesso?
Dopo 7 anni.
E questa piccola idea, nata tra uno sbadiglio e una risata, mi si è trasformata in realtà tra le mani, forse per errore. Liscia come creta da plasmare in apnea, chè sgraziata saprei distruggere.
I RITORNI sanno essere più pericolosi delle ANDATE. Hanno lame più affilate.
Tasche piene di ricordi.
Di quell’inverno, quell’inverno che fu d’estate.

San Lazzaro di Savena, 18 marzo 2001, via Speranza
Quell’inverno sembrò d’estate, e non solo per il sole. No, non credo fosse quello. Quell’inverno sembrò lungo e caldo, sembrò gli occhi aperti, i panini al bar, i cappuccini e i sogni. Sembrò programmi e finzione di capire la vita, sembrò quasi felicità, sembrò spensierata e oziosa vitalità, sembrò tanto, quello che c’era e non avevo mai voluto avere. L’amore che credevo, che sapevo, era cerimonia e ripetizione di cose astratte e gigantesche. E poi Parigi, così inconsumabilmente bella, così commovente e gloriosa, lenta e furba, lasciva e seduttrice, una sciantosa ingioiellata che si fa dipingere, che si fa guardare, scrutare, frugare, che si fa pagare e scopare. Paris, mentre il mio amore affonda, Paris elegante e ribelle, capricciosa come il mio sentire, Paris e le sue brasserie nostalgiche mentre cado, mentre perdo, mentre balbetto e stringo i pugni, mentre conto i passi, i gradini, le parole, mentre è tutto nuovo e spalancato terrore.
Avrebbe dovuto essere una vacanza breve, appena 15 giorni e invece furono 2 mesi, avrebbe dovuto essere una semplice vacanza studio, è invece fu solo studio, studio della mia incoscienza, delle mie paure sconfitte solo da pensieri leggeri, avrebbe dovuto essere anche un amore senza senso, un non amore, qualcosa per celebrare l’incantevole Parigi, chiuderla nei miei sensi, darle un profumo e un sapore, e invece fu amore folle, vero, audace, bagnato di perroquet e consumato tra un café e la Senna, strofinato, toccato, bruciato in baci lenti, un amore che riempiva le ansie, schiudeva porte, spingeva navi con soffi delicati e carezze profumate, un amore con gli occhi spalancati, un amore che sconfiggeva la miseria, la guerra, la cattiveria. Un amore che non aveva misure, un amore senza storia, senza tempo, un amore che soffriva il freddo e scintillava di gioia.

Da languori, nevrosi e altri tic

martedì 28 agosto 2007

Aromi




Aromi

di Roby


Ho un’amica bravissima nell’acchiappare al volo tutti gli odori che le passano a tiro di narice. E’ capace di dirti, appena t’incontra, se ti sei messa lo stesso profumo di sempre, se lo hai appena cambiato, se hai usato uno shampoo alle erbe o uno antiforfora, se -ma di questo son capaci tutti- sei uscita di casa dimenticando completamente il deodorante (e si sente!!!). Io non sono altrettanto esperta nel distinguere “a naso” le marche di cosmetici: sarà perché in generale mi attirano gli ODORI, non in particolare i PROFUMI. Anzi, personalmente uso profumi poco accentuati, perché le fragranze troppo marcate mi danno spesso alla testa, un po’ come le bevande alcooliche. Adoro invece l’odore del SAPONE di MARSIGLIA, quello vero, molto più di qualsiasi “coccolino” ammorbidente. Amo alla follia l’aroma del CAFFE’, specialmente di quello appena macinato nella torrefazione vicino a casa mia. E -sempre a due passi da dove abito- c’è un negozio di fornaio dal cui retrobottega, a tarda notte, deliziosi effluvi di CROISSANT e BRIOCHES appena lievitate giungono sino alle mie finestre semiaperte, conciliandomi il sonno. Che dire poi del sentore dei gradini di PIETRA SERENA appena lavati dalla pioggia, in giardino, o del profumo della RESINA appiccicosa, sul tronco dei pini piantati da mio suocero cinquant’anni fa? Ma fra tutti, sorprendentemente, il mio preferito è l’odore ben preciso -e certo non esattamente gradevole per l’olfatto- che si avverte passando per certi vicoletti cittadini, poco curati dal punto di vista igienico, tanto da servire spesso come gabinetto pubblico per umani e non. Ebbene, l’olezzo di ACIDO URICO avvertito tra un portone e un arco del vecchio centro ha su di me un effetto simile –mi si perdoni l’accostamento sacrilego- a quello della madeleine di Proust. Mi riporta ad un lontano, caldissimo autunno africano, alle stradine tortuose di un villaggio del medio Egitto, praticamente privo (e si sentiva!!!) di servizi igienici, che fu teatro della mia giovanile esperienza di piccola “Indiana Jones” al seguito di una spedizione archeologica universitaria. Sono ormai trascorsi più di 25 anni, di acqua sotto i ponti (sia a Firenze che al Cairo) ne è passata parecchia, e l’”Arca perduta” non è stata più ritrovata. Ma basta quell’odore (profumo per me, puzza per gli altri) a rispedirmi indietro nel tempo e nello spazio, in una dimensione che non so più se sia la quarta, la quinta o la sesta: so solo che in quel momento sono di nuovo là, ad ascoltare il Nilo che “canta” formando piccoli gorghi vicino alla riva fangosa, mentre il sole cala rosseggiando dietro le palme cariche di datteri e Jahmal, il più giovane degli scavatori, passa in groppa al suo asinello grigio e mi saluta sorridendo, fiero come può esserlo soltanto l’ultimo discendente di una stirpe di faraoni.

Sarchiaponi


Il ghepardo del Pisanello


Sarchiaponi

di Emilio Gauna (Giuliano)



Bradipo

Ed è tipico del bradipo
quel suo movimento statico:
non si muove e non dà adito
a sospetti o congetture
Lento e solenne s'arrampica apatico
sempre sul volto un sorriso simpatico
il suo costume di vello e di muschio
caldo lo copre dal male e dal rischio
"Non mi muovo", e non si muove;
non si vedon cose nuove,
anche il mondo è molto bradipo.
Tutto intorno il sole muove
l'universo fa sonare
la memoria universale
E' gran merito del bradipo
il non dar comunque adito
a sospetti o congetture.


Struzzi

Corrono inciampano struzzi
venite a vedere gente
i grandi e famosi struzzi
struzzi dagli occhi gentili.
Codeste enormi galline
non volano e corrono enormi
corrono beccano ingollano
però volare non sanno.
Con le lor corte ali
tentano invan spaventarmi
ma nel sentiero sassoso
terreno assai accidentato
non vedo cose giganti
non vedo condor furenti
non vedo struzzi volanti
vedo inciampare frementi
tre o quattro struzzi cadenti.


i.

Si potrà scrivere del sarchiapone?
E' una domanda che un po' mi scompone,
che certo avrebbe un posto fra gli animali veri,
ma non si può, che non c'è più Walter Chiari:
perciò sono triste e tiro un sospirone.


ii.

S'incavola il licaone
se tu poi gli dici che è un cane:
"Non sono coyote né iena,
non son neppur dingo o mastino,
ma sono quest'altro animale".


iii.

Emilio Gauna pensa d'essere un poeta,
invece è solo un tipo originale;
ma se voi poi glielo dite lui sta male:
"Non son poeta, ma quest'altro animale."


La volpe del Pisanello


Anche su Golem l'Indispensabile

lunedì 27 agosto 2007

Dubbi sulla scrittura




Dubbi sulla scrittura

di Remo Bassini


Per la prima volta, forse, terrò un corso di scrittura.
Diciamo che non è la prima volta; la prima volta che parlai di scrittura fu, non ricordo se nel 1998 o 1999, nel carcere di Vercelli. Parlai di libri e di giornali. Di incipit e di lead. Parlai. E imparai soprattutto. Se si insegna imparando allora va bene. Mi arricchirò, credo, di contenuti, di storie "balbettanti" ma che hanno una voce nascosta, vera e forte. La scrittura, per me, rimane sempre un campo da esplorare, da capire, giorno dopo giorno. Faccio un esempio. Giornalistico. Avevo in passato un collaboratore che era, come dire, quasi perfetto. Insomma, scriveva bene. Faceva dei bei servizi. Diceva quel che c’era da dire e lo diceva bene, scrivendo bene. Leggendolo, però, ti lasciava un senso di freddo, difficile da spiegare.
Una scrittura fredda e distaccata a volte va bene: a volte.

Un’altra stranezza che mi ha colpito è stata questa. Tre anni fa circa c’era una persona che mi scriveva mail chiedendomi consigli su editoria e scrittura. Ma non solo. A un certo punto ha cominciato a raccontarmi "cose". Cose vere. Quelle mail trasmettevano qualcosa. Quando invece mi mandava dei racconti, per quanto ben confezionati fossero, non (mi) trasmettevano niente. Scrivere a volte è più difficile di quanto si pensi, altre volte no, è semplice, basta raccontare, solo che noi ci complichiamo la vita.


Comunque. Un amico mi ha chiesto di tenere alcune lezioni di scrittura creativa in rete, su un blog collettivo. Penso che rifiuterò. Posso discutere di scrittura non insegnarla (mentre terrò il corso di scrittura, chiamandolo, magari, confronti di scrittura). Perché, per esempio, non mi piacciono le regole, i decaloghi. Io credo che per scrivere occorre leggere due cose: i libri e la vita. E credo anche di non avere troppe certezze sulla scrittura, io.
Per esempio non so rispondere a questo quesito: ha ragione Giuseppe Iannozzi quando dice che i libri son meglio dei loro autori, o ha invece ragione Tecla Dozio quando afferma che la scrittura svela e rivela lo scrittore?
Venerdì, 24 Agosto 2007

Da Appunti

domenica 26 agosto 2007

Colori



Colori

di Roby


Mia madre adorava il VERDE, in tutte le sue tonalità.
E’ da lei che ho imparato l’esistenza di un verde-acqua, di un verde-bottiglia e persino di un verde-salvia. Senza contare il TURCHESE, che in pratica è un azzurro/verde, o forse un verde/azzurro: tanto che, davanti ad una maglietta di questa tinta, il 50% delle persone la definisce in un modo e il 50% nell’altro, senza che tuttavia si possa parlare di daltonismo. Un pomeriggio di festa, mi ricordo, tutta la famiglia era in gita “fuori porta”, sulla Fiat 850 ACQUAMARINA appena comprata dal babbo; e la mamma, indicandomi il panorama delle colline, disse: “Guarda che bello: quante sfumature di verde!”. Ed era vero: là una macchia più scura, qui tenere foglioline appena nate, laggiù un cespuglio che tendeva al grigio. Puro relax per gli occhi e per lo spirito!
La zia Nella, invece, interpellata sulle sue preferenze cromatiche durante una lunga serata estiva, nella casa - senza televisore - presa in affitto al mare (data approssimativa: 1966), affermò recisamente di amare il color ARAGOSTA, gettandomi nel dubbio più atroce. Che razza di colore aveva, l’aragosta? Arancione? Rosa? Rossa (una volta cotta a puntino)? Per anni non ebbi il coraggio di chiederglielo: e ancora adesso, all’idea di dare la definizione giusta, mi vengono i sudori freddi…
Quasi come quando mio cugino - unico maschietto, tra ben sei nipoti femmine - affermava testardo che il più bel colore del mondo era il PISTACCHIO, oltretutto da lui prediletto anche come gelato. Io, che già allora avevo gusti tanto schizzinosi da non tollerare altro che i classicissimi panna-e-cioccolato, inorridivo solo all’idea di assaggiare quella roba lì, che somigliava proprio tanto ad una cacca di marziano!
Ma la più ovvia e prevedibile era mia sorella, pervicacemente abbarbicata al ROSA pallido nella scelta di ogni suo capo di vestiario e/o accessorio abbinato (N.d.R.: sto parlando di una bambinetta di 6-7 anni!!!).
A me il rosa dava contemporaneamente il vomito, l’orticaria e l’intolleranza alimentare: tuttavia, in quanto femmina, ero costretta a portare un fiocco di quel colore ben in vista sul grembiule BIANCO delle elementari. Quei fortunati degli alunni maschi - beati loro! - potevano al contrario esibirne uno di un bell’AZZURRO cielo-d’estate, giusto al di sopra del grembiule NERO, complice fedele di rotolate nell’erba e scalate di alberi nel giardino della scuola, nonché di rovesciamenti d’inchiostro (niente penne biro, all’epoca) in classe. Tutti piaceri negati alle bambine-scolare bianco-vestite.
Per quel fiocco CELESTE e per quel grembiule anti-macchia, giuro, avrei dato 10 anni di vita. Il problema - oggi direi: la fortuna - è che io, in quel momento, ancora non li avevo.


Una Famiglia Americana





Una Famiglia Americana

di Gabriella Alù


Joyce Carol OATES, Una famiglia americana (tit. orig. We were the Mulvaneys), traduz. Vittorio Curtoni, NET/Saggiatore-Collana Narrativa n.271, p.512, 2006, ISBN 88-515-2312-6

"Eravamo i Mulvaney, vi ricordate di noi?
[...]
Per parecchio tempo ci avete invidiato, poi ci avete compianto.
Per parecchio tempo ci avete ammirato, poi avete pensato: Bene! E' quello che si meritano"


Una famiglia americana è la traduzione piuttosto grezza del titolo originale We were the Mulvaneys, romanzo del 1996 di Joyce Carol Oates, scrittrice americana dalla sterminata bibliografia, docente a Princeton, direttrice della prestigiosissima Ontario Rewiew e da anni, insieme a Philip Roth, candidata USA per il Nobel per la letteratura.

Si tratta di un romanzo di largo respiro, una bellissima ed avvincente saga familiare ambientata in una ricca fattoria piena di animali di ogni tipo nel nord dello Stato di New York nel periodo tra gli anni '60 ed '80.

La famiglia Mulvaney è composta da Michael (il padre), Corinne (la madre) e quattro figli dei quali tre maschi (Michael jr., Patrick, Judd) e un'unica femmina, Marianne. E' una famiglia felice, chiassosa ed allegra, in cui regna la concordia, con un lessico familiare molto articolato e complice, in cui tutti i membri fanno al meglio quello che ci aspetta da loro: lavorare, studiare. I Mulvaney stanno bene con gli altri e stanno bene tra loro.

Fino a quando, il giorno di S.Valentino del 1976, l'unica figlia femmina, la beniamina del padre, la diciassettenne e dolcissima Marianne, cheerleader del suo liceo, studentessa modello, ammirata da tutti, viene violentata da un compagno di classe e lei, nonostante le pressioni di tutta la famiglia e soprattutto di suo padre, si rifiuta di denunciarlo.

Da quel momento tutto comincia a disgregarsi ed a precipitare: il padre non sopporta più nemmeno la vista di Marianne, che viene allontanata da casa dalla madre Corinne, solidale con il marito. Mike jr. e Patrick, i due figli più grandi, si allontanano da casa covando risentimento per i genitori, desiderio di vendetta nei confronti dello stupratore di Marianne ma anche, in parte, un malcelato disprezzo per la sua codardia nel non volerlo denunciare. Nessuno riesce a gestire la situazione, il padre Michael perde sempre di più l'autocontrollo e si comporta in modo tale che la società, che in primo tempo li aveva compianti per quello che era successo a Marianne a poco a poco li emargina.

Solo a distanza di anni la famiglia riuscirà a ritrovarsi e a ricostituirsi.

Il romanzo, nonostante la sua lunghezza, i tanti personaggi, uno stile di scrittura articolato ma sostanzialmente molto classico (la voce narrante è dell'autrice, ma in alcuni capitoli gli eventi sono visti e narrati in prima persona dal figlio minore Judd) è in realtà molto strutturato in tre parti più o meno di eguale lunghezza.

Nella prima ci viene descritta questa famiglia invidiabile, ideale e felice

Nella seconda parte assistiamo alla progressiva ed inesorabile distruzione di questa felicità che avviene certo per cause esterne (lo stupro e l'atteggiamento dei concittadini dei Mulvaney) ma soprattutto per cause interne perchè i maschi della famiglia, ciascuno con le proprie motivazioni e modalità non reggono e, mentre apparentemente ed anche in buona fede non hanno altro desiderio che punire lo stupratore e vendicare Marianne, in realtà è lei che colpevolizzano e sono proprio loro i primi a non comprenderla e ad emarginarla.
Trovo che questo sia uno degli elementi più interessanti del romanzo della Oates, e mi interessa sottolinearlo. Perchè a circa metà del libro mi sono resa perfettamente conto che i maggiori artefici della tragedia di Marianne sono, di fatto il padre e i fratelli i quali, invece di accoglierla, proteggerla, curarne le ferite, in realtà pensano a lei come a qualcosa di insozzato ed alla punizione dello stupratore più come alla vendetta del proprio onore maschile ferito. Così facendo, spingono sempre di più Marianne a disprezzare se stessa, a non autostimarsi. E la madre, Corinne, che pure vuole molto bene a Marianne, sta fino alla fine --- di fatto -- dalla parte dei maschi della famiglia.

Nella terza fase c'è il percorso individuale che ciascuno fa per ritrovare innanzitutto se stesso e quindi per ritrovare l'unità familiare perduta. Alcuni ce la fanno, qualcuno no e viene travolto.

Nella quarta di copertina di questa edizione leggo che Una famiglia americana è stato definito "Un Buddenbrook americano". Non sono affatto d'accordo. Romanzi che hanno come tema una saga familiare ce ne sono tanti, ma non basta questo per renderli simili. I Buddenbrook e i Mulvaney sono diversissimi e non solo per il contesto e l'epoca storica in cui le loro storie si svolgono, ma per le dinamiche e la tipologia degli eventi che intervengono a determinare la rottura degli equilibri interni e la crisi della famiglia.

Piuttosto, a me sono venute subito in mente altre due famiglie, entrambe americane: per la verità, non tanto la famiglia Lambert di Le Correzioni di Jonathan Franzen quanto piuttosto la famiglia di Seymour Levov, "lo svedese" di "Pastorale americana di Roth, la cui famiglia viene letteralmente frantumata da una bomba. Una bomba reale. La bomba che l'amatissima figlia adolescente (anche qui il motore dell'intreccio narrativo è un'amatissima figlia adolescente) utilizza per far saltare un emporio e un ufficio postale. Ed anche qui un padre che non si dà pace.

Marianne Mulvaney è una vittima passiva. Merry, la figlia dello "svedese" è una vittima attiva. Entrambe vittime, però.
Giovedì, 26 luglio 2007

Da NonSoloProust

Joyce Carol Oates


sabato 25 agosto 2007

Jerome Klapka Jerome


Jerome, George, Harris e le tre ragazze durante una gita festiva


Jerome Klapka Jerome
(Livre mon ami 3)

di Solimano



Il guaio, quando leggevo un libro che mi piaceva molto, era che venivo assalito da un pedante perfezionismo da bravo bambino: di quell'autore dovevo leggere tutto.
Un guaio, perché le delusioni sono state tante, ed anche il tempo perso in attesa dei momenti magici del primo libro, che alla fine ne usciva ridimensionato.
Successe con “Tre uomini in barca” (per non parlar del cane).
Il ginocchio della lavandaia, lo zio Podger, la camicia di George finita nel Tamigi… Jerome Klapka Jerome aveva una sua furberia, nel partire facendo ragionamenti vittoriani - era un vittoriano, in fondo - che io leggevo compunto e rispettoso, perché anch'io, in fondo ed in superficie, ero un vittoriano, con uno sbadiglio che si aggirava senza giungere all'epifania, anche lo sbadiglio era vittoriano.
Ad un certo punto, Jerome inseriva la storiella: lieve lieve, ben scritta, adatta a tutte le età, priva di doppi sensi, allegra. Ed io ridevo di gusto, come allora non si rideva a scuola, divisi fra i professori che ci davano del lei e quelli che ci davano del tu (preferivamo i secondi). Fu allora che mi comprai “Tre uomini a zonzo”, “Pensieri oziosi di un ozioso”, “Loro ed io”. I tre ciclisti in giro per la Germania mi delusero, i pensieri oziosi mi rianimarono, qua e là, con "Loro ed io" chiusi i rapporti con Jerome, che si rivelò una specie di piccolo profeta che si truccava da umorista per persuadere al bene.
Figuriamoci che in "Loro ed io" si discute per tre pagine se è bene leggere Tom Jones o no, un romanzo (splendido!) di Henry Fielding scritto centocinquant'anni prima. Tutto perché il protagonista, Tom Jones, appunto, è molto sveglio con le ragazze ed ogni tanto passa a vie di fatto. Alla Regina Vittoria ciò non stava più bene.
Imparai più tardi che negli anni in cui scriveva Jerome, scriveva anche Oscar Wilde. Oggi, ripenso con un sorrisetto distratto ai tre barcaioli, ma "L'importanza di chiamarsi Ernesto" lo rileggo volentieri, in inglese col testo a fronte (anche chi conosce l'inglese è bene che abbia l'ausilio dell'italiano, Wilde è una volpe fina), e prima di arrivare a metà pagina, mi accomodo meglio in poltrona, perché la serata promette bene.

9 agosto 2004

Tom Jones (Albert Finney) alle prese con Molly (Diane Cilento)
nel film di Tony Richardson (1963)

venerdì 24 agosto 2007

Di tanto in tanto...




Di tanto in tanto...

di Clelia Mazzini



Di tanto in tanto qualche parola si faceva largo fra cielo e lago, per un intersizio di solitudine; vagava un attimo, si fermava e poi cadeva repentina nella sera.
Per questa vita che abbiamo conquistato (fosse solo per un istante in più, un inutile, vuoto, immenso, indefinibile istante) parlerei ancora di te a te, se ne avessi l'occasione. L'ultima volta che lo feci Koessler gioiva, altissimo, sulle zampe di dietro e poi correva veloce dietro la palla rossa che gli lanciavi ridendo.
Ridevo a mia volta, di te, di lui, di noi che sembravamo ancora ridere.

Sono ancora qui, nell'antica e (troppo) grande casa che fu dei miei; leggo la tua lettera e ripenso a un universo di colline calme, segrete, impenetrabili:

...La bonne journée le beau regard qui prend sous tes habits c'est entendu: de toutes mes forces le sang ne quittera, le souffle bref face à face, les doigts font monter plus légère avec ses suivants la force d'une blessure...

Una memoria è un giorno, a volte solo un pomeriggio. Indietro non si torna, avanti è difficile andare.
Culliamoci così, nella pace dell'eterno presente che sapemmo costruirci. Nel segreto dell'infinito mattino che seppe sorriderci.

Koessler è morto da tre anni, ormai. L'ho seppellito nel giardino a Nord, con la sua/tua pallina rossa, sotto uno degli abeti più alti, dove spesso amava riposare d'estate. Non so se scrivertelo, forse sì, te lo scriverò. Quando il tempo mi darà tempo per una risposta che arrivi a te serena, come lo sono io, ora. Lontana anni-luce dallo specchio dei tuoi occhi, ma più vicina che mai alla tenda di velluto (bordeaux) che nasconde il tuo cuore.
30 aprile 2005

Da Aletheia
Akatalepsia

giovedì 23 agosto 2007

I simboli della religione e lo stato


Ponzio Pilato, dalla catacomba di Domitilla


I simboli della religione e lo stato
(Dialoghetto storicamente scorretto)

di mazapegul


Valerio entra in casa mentre Domitilla, sua moglie, sta dando da mangiare ai pesci della fontana.

D. Ti vedo scuro in volto, Valerio.
V. Sono questi cristiani, non ne posso più. Pensa che adesso pretendono l'esenzione dall'obbligo di rendere omaggio all'imperatore.
D. Vuoi dire che disconoscono l'impero?
V. Non fino a questo punto, sarebbero già tutti sulle croci che tanto adorano. Loro pagano le tasse, dicono di riconoscere l'impero, ma si rifiutano di rendere omaggio alla figura divina dell'imperatore. Dicono, pensa un po', che sarebbero contenti di rendere omaggio all'imperatore-uomo, ma non all'imperatore-dio.
D. E dove sta il problema? Nessuno crede alla storia dell'imperatore-dio, l'imperatore meno di tutti.
V. Non mi fare l'epicurea volgare, adesso.
D. Sei stato tu a volere che leggessi Lucrezio, Valeriuccio caro.
V. Il problema è ben più grande di quello che pensiamo degli dei. L'impero ha una tradizione, e questa si basa sulla divinità dell'imperatore. Se viene meno, l'impero crolla, e con esso tutta la civiltà d'occidente.
D. Esagerato! Non abbiamo forse dato agli ebrei il diritto di praticare il loro culto del Dio unico? E se non ci danno fastidio loro...
V. Brava! Già tutta questa tolleranza con gli ebrei mi piace poco. Loro, però, hanno dei riti così ripugnanti che ben pochi li seguono, che non siano stati allevati nei loro costumi. E adesso vengono pure questi altri asiatici, con il loro Dio morto in croce. Pensa, un Dio che si fa mettere in croce come uno schiavo.
D. Veramente, la moglie di Mario frequenta una comunità di cristiani, e mi ha assicurato che di asiatici, nel suo gruppo, ce ne sono pochi. Tutti romani di gens antichissima, ricchi, pure.
V. Vedi? La peste dilaga. Che aspetta l'imperatore a rimandare questa gente nella sua Asia puzzolente?
D. Ma questa Asia è pur sempre parte del nostro impero. Si parla persino di dare la cittadinanza a tutti gli asiatici che stanno entro i confini imperiali.
V. Lo so, ma spero di essere morto prima che ciò avvenga. L'Asia sarà anche stata la culla delle grandi civiltà antiche, ma adesso è solo un mostro che divora legioni e sesterzi. E che ci manda pure ogni sorta di ripugnante novità religiosa. E dire che noi non chiediamo mica ai cristiani di rinnegare il loro uomo-Dio. Saremmo dispostissimi a trovargli posto nel pantheon, anche un posto di riguardo. Loro no, invece. Sono appena arrivati e già pretendono di fare le cose a modo loro. Come trattano le loro donne, per esempio.
D. Come le trattano?
V. Malissimo, malissimo. E i figli, poi. Pensa che alcune mogli cristiane hanno fatto fare dei riti sui loro figli all'insaputa dei mariti.
D. Che riti sono?
V. Mah, non ho ben capito, pare che si tratti di una sorta di affogamento rituale...
D. Pensa che buffo, Valerio, se affogassi ritualmente il nostro piccolo Lucio.
V. Non dire queste beotate neanche per scherzo. Comunque, s'affogassero pure tutti. Pensa che impudenza. Dicono che la loro Chiesa romana sia stata fondata da un ebreo, un certo Pietro, che neppure era cittadino. Il nostro mare è un colabrodo, tutti riescono a intrufolarsi a Roma. E questo straniero avrebbe addirittura fondato una "Chiesa romana" in competizione e negazione dell'imperatore-dio di Roma! Ah, che arroganza! Mi dice però un amico che lavora agli archivi della casa imperiale che il pericolo vero non sono quelli come Pietro, ma quelli come Paolo.
D. E chi sarebbe, questo Paolo?
V. Un altro ebreo, cristiano pure questo, ma cittadino romano, colto e conoscitore delle lingue. Paolo avrebbe trovato un modo per far crescere il cristianesimo anche fuori dalla comunità ebraica. Avrebbe eliminato la semi-castrazione che praticano gli ebrei (asiatici, che barbari!) e tutte quelle loro fisime col cibo. Un cristianesimo in toga, insomma: per questo le tue amiche sceme ci cascano cosi` facilmente.
D. Eppure, caro Valerio, io credo che questa sfida cristiana potrebbe anche farci del bene.
V. Che dici, Domitilla?
D. Non pensi anche tu che, a forza di dare per scontate le effigi dell'imperatore-dio, i riti, le offerte, tutta questa nostra religione si sia incartapecorita? Ecco che arrivano questi cristiani, e ci obbligano a interrogare noi stessi su quello che crediamo e non crediamo. Certo, sarebbe bello se questi cristiani si interrogassero un po' anche loro, ma intanto possiamo accontentarci di farlo noi, a maggior gloria e splendore dell'impero. O forse, solo al fine di essere più saggi noi stessi.
V. Non credo che tu abbia capito dove possono arrivare. Un giorno, di questo passo, ci troveremo le loro croci dappertutto. E mentre noi "ci interroghiamo", come dici tu, loro avranno proibito anche il dubbio che si possa essere diversi da loro.
D. Ma va là, Valerione mio! Adesso mi vuoi far credere che avremo le croci anche nelle scuole!
V. Non so, magari mi preoccupo troppo. E' che vedo questo impero che ci siamo costruiti col sangue delle legioni e col sudore degli schiavi, che ha messo fine alla storia stessa, come se fosse oppresso da nuvole nere. Questi cristiani, per dirne una, hanno della storia una concezione tutta loro, in cui Roma pare non avere posto, né nel passato, né nel futuro. Più o meno, loro la vedono così. Il loro Dio-uomo sta a dividere il tempo del non essere dal tempo dell'essere...
D. Mi parli come un greco, adesso.
V. ...e questo tempo dell'essere, quello delle nostre vite, è esso stesso un tempo del non-essere, in attesa del cataclisma che sconquasserà tutto, impero e imperatore. Loro vivono in trepidante attesa della nostra fine, Domitilla. E non offrono i sacrifici dovuti all'imperatore-dio.
D. Valerio, ma una persona ragionevole non può credere a queste favolette: il cataclisma, lo sconquasso. Vedrai che, col tempo, questi cristiani di cui sembri avere tanta paura, si troveranno di necessità ad apprezzare questo nostro grande impero.
V. In attesa che lo facciano, gli facciamo vedere il circo. Dalla parte dell'arena!
D. Andiamo a dormire, Valeriuccio, che si è fatto tardi.
V. Aspetta, Domitilla, dobbiamo prima bruciare l'incenso per l'imperatore.
D. Valerio, ma non l'abbiamo mai fatto!
V. Da oggi lo facciamo.
D. Va bene, va bene. Vado a cercare i bastoncini d'incenso. Devono essercene, in giro per casa.


"A New Day in old Sana'a"

mercoledì 22 agosto 2007

Il signor Veneranda




Il signor Veneranda

di Carlo Manzoni



Barba e capelli

“Barba e capelli?” chiese il parrucchiere facendo accomodare il signor Veneranda.
“Sì” disse il signor Veneranda. “Ma secondo lei, posso tenere il cappello?”
“Eh no, “ disse il parrucchiere “se tiene il cappello come faccio a tagliarle i capelli?”
“Allora lei i capelli non li può tagliare a quelli che hanno il cappello?” chiese il signor Veneranda.
“E’ impossibile” disse il parrucchiere. “Non le pare?”
“Se lo dice lei,” sospirò il signor Veneranda “sarà anche così. Mi dispiace perché è tanto tempo che ho questo cappello, e non mi sento di buttarlo via o di venderlo.”
“Ma non occorre” balbettò il parrucchiere. “Basta che se lo tolga. Poi se lo rimette di nuovo.”
“Allora io mi tolgo il cappello, lei mi taglia i capelli poi mi rimetto il cappello” disse il signor Veneranda.
“Già” disse il parrucchiere.
“E la barba?” chiese il signor Veneranda. “Devo togliermi il cappello anche per la barba?”
“Ma... sarebbe meglio” balbettò il parrucchiere che non sapeva cosa dire.
“Allora riepilogando:” disse il signor Veneranda “Io mi tolgo il cappello, lei mi taglia i capelli, poi mi rimetto il cappello, poi me lo tolgo di nuovo e lei mi taglia la barba e alla fine mi torno a mettere il cappello. E’ così?”
“Ma... veramente...”
“Mi dispiace ma è troppo un traffico” disse il signor Veneranda alzandosi. “Io credevo che la cosa fosse molto più semplice e più svelta. Così non si finisce più. Pazienza, sarà per un’altra volta.”
E il signor Veneranda se ne andò brontolando e sbattendo la porta.


L'ufficio postale

Il signor Veneranda entrò nell’ufficio postale.
"Scusi" disse il signor Veneranda all’impiegato allo sportello; "è arrivato un pacco per me?"
"Non è arrivato nessun pacco per lei" rispose l’impiegato; "se fosse arrivato, lei avrebbe ricevuto l’avviso. Ha ricevuto l’avviso?"
"Non ho ricevuto nessun avviso" disse il signor Veneranda; "ma a me l’avviso non serve a niente; mi servirebbe il pacco, perché dentro al pacco c’è sempre qualcosa".
"L’avviso serve per avvertirla che le è arrivato un pacco".
"Ecco, proprio questo volevo, il pacco che è arrivato per me".
"Ma non è arrivato nulla per lei".
"Ma come, ha appena detto, e sono le sue parole, l’avviso serve per avvertirla che le è arrivato un pacco; ed io sono qui a ritirare il pacco".
"Io ho solo detto che l’avviso serve solo per avvertirla che le è arrivato il pacco".
"Ah, ho capito, lei mi manda un avviso per avvertirmi che è arrivato il pacco; allora, guardi, faccia a meno di mandarmi l’avviso perché io sono già qua a ritirare il pacco".
"No, non ci siamo capiti, le dicevo che qualora arrivasse un pacco per lei, solo allora le manderemmo un avviso per avvertirla che da noi c’è un pacco per lei; ci siamo capiti ora?" "Certo che ci siamo capiti, mi crede imbecille; ma, mi dica, da dove arriva il pacco?"
"Io… - balbettò l’impiegato - io non so da dove le venga spedito il pacco; io non ne so nulla; lo saprà lei da dove aspetta il pacco".
"Io non aspetto nessun pacco" disse il signor Veneranda "e non ho nessuna idea di chi potrebbe spedirmi un pacco; ma se lei dice che mi arriverà un avviso che mi avverte che c’è un pacco per me da lei, io vengo da lei per sapere da dove mi arriva il pacco".
"Io… io non ne so nulla del suo pacco!"
"Ma allora perché mi dice che mi deve arrivare un avviso per ritirare un pacco?" esclamò il signor Veneranda arrabbiandosi; "ma guarda un po’ che tipo! Prima mi dice che mi arriverà un avviso, poi che devo passare qui a prendere il pacco, poi casca dalle nuvole! Oh, ma che razza di servizio postale!"
E il signor Veneranda si allontanò scuotendo la testa e brontolando.


Per via

Il signor Veneranda incontrò per via un suo conoscente.
- Oh! - disse il conoscente. - Come sta ?
- Come ?? - chiese il signor Veneranda
- Come sta ? - ripetè il conscente.
- Ma veramente non saprei, - disse il signor Veneranda che non capiva
- come, non saprebbe ?
- Dal momento che lei non mi ha detto di chi parla, io non posso mica sapere come sta ! I miei parenti stanno tutti bene, grazie, i miei amici quasi tutti, eccetto Tommasino che ha il raffreddore. Lei intendeva Tommasino ?
- Io no,io ... - balbettò il conoscente del signor Veneranda.
- Lei no, lei come faccio io a sapere di chi vuol parlare se non si spiega? Voleva intendere quel signore li che passa? Io non so mica come sta, non l'ho mai visto, ma se lo vuole sapere si fa presto!
- Ehi, signore - gridò il signor Veneranda al signore che passava - come sta lei ?
- Bene, grazie - rispose il signore levandosi il cappello gentilmente.
- Ecco - disse il signor Veneranda battendo un colpo sulla spalla del conoscente. - E' contento adesso? Sta bene. E anche tutta la famiglia ? - chiese ancora il signor Veneranda.
- Benone tutti, grazie - rispose il signore voltandosi e salutando.
- Ha visto ? - disse il signo Veneranda - Stanno tutti bene.
- ma io .. - balbettò il conoscente del signor Veneranda.
- Senta, se lei non intendeva parlare di quel signore li , poteva dirmelo chiaramente prima: io ho cercato di accontentarla. Benedetto uomo - mormorò il signor Veneranda crollando il capo e allontanandosi, - che bisogno c'era di rivolgersi a me? Non poteva arrangiarsi da solo ???


L'autostrada

Il signor Veneranda si fermò all'ingresso dell'autostrada Milano -Torino.
"Torino" disse il signor Veneranda al bigliettaio.
Il bigliettaio guardò il signor Veneranda e poi si guardò attorno nel piazzale deserto dove non sostava nemmeno un'automobile.
"Ma..." balbettò il bigliettaio, "e la macchina?"
"Che macchina?" domandò il signor Veneranda, stupito.
"L'automobile," disse il bigliettaio, "lei non ha l'automobile?"
"Io no," disse il signor Veneranda, "io non ho l'automobile. Perché? Cosa c'è di strano? C'è tanta gente che non ha l'automobile e perché la dovrei avere io? Le pare che io abbia la faccia di uno che dovrebbe avere l'automobile?" "Io non so," balbettò il bigliettaio, "ma se lei vuole andare a Torino con l'autostrada, dovrà pure avere un'automobile." "Io non vado a Torino con l'autostrada," disse il signor Veneranda. "Non posso andarci appunto perché non ho l'automobile. E poi cosa dovrei andare a fare a Torino?"
"Non so... è lei che ha detto Torino," balbettò il bigliettaio che non sapeva cosa dire.
"Io ho detto Torino, certamente" disse il signor Veneranda, "questo non lo nego. Ma tutti possono dire Torino quando vogliono, le pare? Non capisco perché quando uno dice Torino dovrebbe, secondo lei, andarci in automobile."
"Va bene, ma allora lei, che cosa vuole da me?" balbettò il bigliettaio sempre più confuso.
"Io niente," disse il signor Veneranda. "Ho detto Torino come potevo dire Roma o Genova o un'altra città. Le dispiace?"
"No, ma... senta, se lei non entra in autostrada con l'automobile, mi lasci in pace," brontolò il bigliettaio.
"Eh, accidenti!" gridò il signor Veneranda perdendo la pazienza, "adesso dovrò comprarmi un'automobile per far piacere a lei! Ma sa che è un bel tipo? Ma guarda che razza di gente!"
E il signor Veneranda voltò le spalle al bigliettaio e si allontanò brontolando.


La Chiave

Il signor Veneranda si fermò davanti al portone di una casa, guardò le finestre buie e spente e fischiò più volte come volesse chiamare qualcuno.
A una finestra del terzo piano si affacciò un signore.
- È senza chiave? - chiese il signore gridando per farsi sentire.
- Si, sono senza chiave - gridò il signor Veneranda.
- E il portone è chiuso? - gridò di nuovo il signore affacciato.
- Si è chiuso - rispose il signor Veneranda.
- Allora le butto la chiave.
- Per fare cosa? - chiese il signor Veneranda.
- Per aprire il portone - rispose il signore affacciato.
- Va bene, - gridò il signor Veneranda - se vuole che apra il portone, butti pure la chiave.
- Ma lei deve entrare?
- Io no. Cosa dovrei entrare per fare?
- Ma non abita qui lei? - chiese il signore affacciato, che cominciava a non capire.
- Io no - gridò il signor Veneranda.
- E allora perché vuole la chiave?
- Se lei vuole che apra il portone non posso mica aprirlo con la pipa, le pare?
- Io non voglio aprire il portone, - gridò il signore affacciato - io credevo che lei abitasse qui: ho sentito che fischiava.
- Perché, tutti quelli che abitano in questa casa fischiano? - chiese il signor Veneranda, sempre gridando.
- Se sono senza chiave si! - rispose il signore affacciato.
- Io sono senza chiave - gridò il signor Veneranda.
- Insomma si può sapere cosa avete da gridare? Qui non si può dormire - urlò un signore affacciandosi a una finestra del primo piano.
- Gridiamo perché quello sta al terzo piano e io sto in strada - disse il signor Veneranda - se parliamo piano non ci si capisce.
- Ma lei cosa vuole? - chiese il signore affacciato al primo piano.
- Lo domandi a quello del terzo piano cosa vuole, - disse il signor Veneranda - io non ho ancora capito: prima vuol buttarmi la chiave per aprire il portone, poi non vuole che io apra il portone, poi dice che se fischio debbo abitare in questa casa. Insomma io non ho ancora capito. Lei fischia?
- Io? Io no... perché dovrei fischiare? - chiese il signore affacciato al primo piano.
- Perché abita in questa casa - disse il signor Veneranda -; l'ha detto quello del terzo piano che quelli che abitano in questa casa fischiano! Be', ad ogni modo non mi interessa, se vuole può anche fischiare.
Il signor Veneranda salutò con un cenno del capo e si avviò per la strada, brontolando che quello doveva essere una specie di manicomio.


Il dentista

“Apra la bocca” disse il dentista al signor Veneranda.
“Volentieri” rispose il signor Veneranda “e devo chiudere gli occhi o no?”
“Come vuole”, disse il dentista “per me è indifferente.”
“Va bene. Allora se ne chiudo uno solo non le dispiace?” disse il signor Veneranda.
“Per me” disse il dentista “ ne chiuda pure uno, se crede”.
“E quale devo chiudere?” chiese il signor Veneranda. “Quello destro o quello sinistro? Quasi quasi è meglio fare così: chiudere prima il destro e poi il sinistro. Non le pare?”
“A me basta che lei apra la bocca” brontolò il dentista che cominciava a perdere la pazienza.
“Non ho nessuna difficoltà ad aprire la bocca” disse il signor Veneranda. “Se lei vuole che apra la bocca l’apro senza fare tante storie. Sono venuto da lei apposta per fare quello che vuole lei, perciò può chiedermi qualunque cosa senza tanti scrupoli. Tanto è vero che le ho chiesto se vuole che chiuda gli occhi. E se vuole li chiudo, guardi.”
Il signor Veneranda chiuse gli occhi poi li riaprì e guardò il dentista.
“Ha visto?” disse il signor Veneranda. “Faccio tutto quello che vuole lei. Crede che io faccia delle difficoltà per alzare una gamba, se lei lo vuole? Ma nemmeno per sogno. L’alzo subito, immediatamente.”
Il signor Veneranda alzò una gamba.
“Porco mondo!” urlò il dentista perdendo improvvisamente la pazienza e sbattendo le pinze sul pavimento. “Per chi mi ha preso, lei? Per un cretino? Se ne vada, se ne vada.”
Il signor Veneranda si alzò.
“Non capisco” balbettò, mortificato. “Vengo qui per farmi strappare un dente e faccio tutto quello che vuole lei: apro la bocca, chiudo gli occhi, alzo la gamba e poi si mette a urlare in quella maniera! Io sono anche disposto a lavarmi la faccia, a togliermi la giacca, a tagliarmi i capelli, a grattarmi il ginocchio!... Ma cosa vuole di più? Accidenti, dico, che razza di dentista! Niente, niente, me ne troverò un altro.”
E il signor Veneranda prese il cappello e si avviò brontolando giù per le scale.


La macchia

Il signor Veneranda si fermò sul pianerottolo delle scale, mise un dito su una macchia del muro accanto a una porta e si mise a premere con tutta la forza. Un signore si fermò a guardarlo.
- Scusate - , disse il signore indicando la macchiolina sul muro - quella non è un campanello, è una macchia sul muro e non suona
- Ah - disse il signor Veneranda. - non suona? E perchè dovrebbe suonare secondo voi? Io non ho mai visto delle macchie che suonano nemmeno a premerle. Sono i campanelli che suonano quando si premono.
- Appunto - disse il signore - e quello non è un campanello, è una macchia sul muro.
- Appunto - disse il signor Veneranda - e chi ha mai detto che questo è un campanello? Se fosse un campanello non premerei col dito. Perchè dovrei premere col dito su un campanello?
- Ma... voi non dovete suonare il campanello?
- Io no - disse il signor Veneranda - se dovessi suonare il campanello vi pare che premerei col dito su una macchia qualsiasi? Ma voi siete matto. Se volessi suonare il campanello premerei sul campanello. Voi dove premereste? Sulle macchie?
- Io no... - balbettò il signore che non sapeva cosa dire - io non... ma si può sapere perchè premete sulla macchia?
- Io non, e si può sapere e una cosa e l'altra - gridò il signor Veneranda perdendo la pazienza. - Ma sapete che siete un bel tipo? Se volete suonare il campanello suonatelo pure, io già non ho nessuna intenzione di suonare i campanelli.
E il signor Veneranda alzò le spalle poi scese le scale brontolando.


I maiali non portano scarpe

Il signor Veneranda entrò dal pedicure, si sedette sulla poltrona e disse:
- Sono venuto da lei per farle vedere il mio piede.
- Sono ai suoi ordini, - rispose il pedicure inginocchiandosi - vuol levare la scarpa per favore?
- La scarpa? - chiese il signor Veneranda stupito.
- La scarpa - rispose il pedicure.
- Non ho mai sentito dire che i maiali portano le scarpe - disse il signor Veneranda.
- I maiali?
- I maiali.
- Ma lei... - balbettò il pedicure stupito.
- Ma io che cosa? - chiese il signor Veneranda levando di tasca uno zampone di maiale. - Io sono venuto da lei per farle vedere il mio piede. Non è pedicure lei?
- Sì.
- E allora, cosa c'entrano le scarpe?
- Se lei deve farmi vedere il suo piede, deve levarsi la scarpa - disse il pedicure.
- Sarà come dice lei, - disse il signor Veneranda scotendo la testa - io non ho nessuna difficoltà...
Il signor Veneranda si levò una scarpa e tese il piede di maiale che teneva in mano.
- Cosa ne dice? - disse.
- Ma, - balbettò il pedicure stupito indicando il piede di maiale - è questo il piede che voleva mostrarmi?
- Ma certamente! - rispose il signor Veneranda. - Che piede credeva?
- Ma... e perché...? - balbettò il pedicure.
- Perché che cosa?
- Perché vuol farmi vedere questo piede di maiale?
- Così - rispose il signor Veneranda - glielo faccio vedere perché non ho nessun motivo di tenerlo nascosto, del resto lo posso far vedere a chiunque, non è mica mostruoso un piede di maiale, anzi, credevo che le potesse far piacere.
- Ma - balbettò il pedicure - se voleva mostrarmelo così... poteva fare a meno di levarsi la scarpa.
- La scarpa? Ma se è stato lei che me l'ha fatta levare. Io non volevo levarmi la scarpa ma lei ha insistito tanto. Me la sono levata per fare un piacere a lei, capirà, non si sa mai con chi si ha a che fare
- lo non...
- Lei non, - urlò il signor Veneranda rimettendosi in fretta la scarpa - lei non capisce niente, lei ha voglia di far perdere il tempo alla gente, ha capito?
E il signor Veneranda se ne andò sbattendo la porta.


Al ristorante

Il signor Veneranda sedette al ristorante.
- Il signore mangia? - chiese il cameriere al signor Veneranda.
- Certamente - rispose il signor Veneranda.
- Spaghetti al sugo, risotto, minestra in brodo? - chiese il cameriere leggendo la lista.
- Si capisce - disse il signor Veneranda - anche arrosto di vitello, salame, prosciutto, pesce, ossobuco, filetti, spezzatini, brasato eccetera. Adesso è inutile che stia qui a fare l'elenco delle cose che mangio. Mi piace quasi tutto.
- Va bene ma... - balbettò il cameriere stupito - io vorrei sapere cosa mangia adesso.
- Adesso niente - disse il signor Veneranda - ho già mangiato. Di solito mangio prima di mangiare, dopo mangiato non mangio più. Lei mangia anche dopo mangiato?
- No ma... - balbettò il cameriere che non sapeva più cosa dire - le ho chiesto se mangia e mi ha detto di sì.
- Ma certo che mangio! - esclamò il signor Veneranda. - tutti mangiano. Se non mangiassi creperei. Non capisco perchè le fa tanta meraviglia il fatto che mangio.
- Non mi fa meraviglia - disse il cameriere - mi fa meraviglia il fatto che lei non mangia.
- Ma le sto ripetendo che mangio - gridò il signor Veneranda - quante volte glielo devo dire?
- Allora, cosa vuole? - chiese il cameriere confuso.
- Niente - disse il signor Veneranda - assolutamente niente.


martedì 21 agosto 2007

Che memoria ne passi anco ai nepoti

Giambattista Tiepolo Achille snuda la spada contro Agamennone,
ma Athena lo trattiene per i capelli
1757 Villa Valmarana ai Nani, Vicenza



Che memoria ne passi anco ai nepoti
(Livre mon ami 2)

di Solimano



Prima del Foscolo c'era stata l'Iliade, o meglio la traduzione di Vincenzo Monti, quello del Cantami, o Diva. Molto tempo dopo compresi che ad Omero era più vicina - o meno lontana - la Calzecchi Onesti.
Mi piaceva Aiace Telamonio:

Qui vide un terzo il re d'eccelso e vasto
corpo, ed inchiese: Chi quell'altro fia
che ha membra di gigante, e va sovrano
degli omeri e del capo agli altri tutti?
-Il grande Aiace, rispondea racchiusa
nel fluente suo vel la dìa Lacena,
Aiace, rocca degli Achei.


La dìa Lacena è Elena che dall'alto delle mura di Troia, fa a Priamo la spiega dei principali eroi. Di Aiace ricordo la battaglia a difesa delle navi, quando impugna un vero e proprio albero di nave per tener lontani i Troiani che vorrebbero incendiarle, ed il duello con Ettore, interrotto dagli araldi perché si avvicina il tramonto, ma ai punti aveva vinto Aiace…
Mi piacevano i doni che si scambiavano i guerrieri, i cataloghi degli eserciti e delle navi, i sacrifici ed i giochi funebri, che trovavo allegrissimi. Mi procurai un dettagliato atlante storico, sapevo dov'erano Ftia e Pilo, gli Etòli ed i Beoti. Poi, per anni comprai il Calendario Atlante De Agostini , dalla tipica forma spessa, lunga e stretta: dove metterlo, in libreria?
Mi piaceva Elena, anche perché piaceva ad Omero, o a chi per lui. Non mi curavo di Briseide o di Andromaca.
Foscolo e Monti, essendo in fondo simili, non si potevano vedere l'uno con l'altro. Molti ricordano lo sfottò del Foscolo:

Questi è Vincenzo Monti cavaliero,
gran traduttor dei traduttor d'Omero.

Pochi la risposta del Monti:

Questi, rosso di pel, Foscolo è detto,
Che per meglio falsar falsò se stesso.

Di entrambi, oggi penso appropriate le parole dell'Iliade tradotta dal Monti:

ma tutti egregi dicitor, sembianti
alle cicade che agli arbusti appese
dell'arguto lor canto empion la selva.


Omero è tutta un'altra cosa, che forse più che con la poesia ha a che fare col nostro vivere di tutti i giorni nella natura e nella storia. Ed i suoi eroi non assomigliano ai magnifici gallinacci che Giambattista Tiepolo affrescò a Villa Valmarana, meno di cinquant'anni prima che il Monti ed il Foscolo si dedicassero agli endecasillabi. Ondulatorio l'endecasillabo del Monti, sussultorio quello del Foscolo, terremoti ben temperati.
2 agosto 2004


Giambattista Tiepolo Gli araldi conducono Briseide da Agamennone
1757 Villa Valmarana ai Nani, Vicenza

lunedì 20 agosto 2007

Gatti


Gainsborough: Sei studi dello stesso gatto, c. 1770


Gatti

di Emilio Gauna (Giuliano)



Non ti temo
so come si smaschera
la tigre
e come s'addomestica


Misterioso il mondo dei felini... sembra di capirli, di conoscerli a fondo, e invece ti sorprendono sempre. Forse è quel tanto di selvatico che rimane sempre in loro, anche nel più tranquillo dei gatti d'appartamento. Si dice che, a differenza del cane, il gatto non è mai stato del tutto addomesticato: e forse è proprio così.

Come la tigre il gatto s'avanza
con un leggero passo di danza
muove le membra con gran leggiadria
sull'indifeso passero balza.
Questa è la vera natura del gatto;
ritorna un micio se vuole, se crede,
ma è in lui la fiera nascosta e ben viva,
s'affila i denti e gli artigli per l'arte.

Come la vita il dolore il mio gatto
ronfa gioiosa poi dorme s'acquieta
per un nonnulla turbata s'inquieta
il pelo drizza si gonfia poi graffia
è come l'oca che sbuffa e poi soffia -
però mi piace vederla qui quieta,
il pelo liscio, la belva mansueta.

Sogna il giaguaro, e addenta
la molle plastica pelle d'un ghiro.
Sogna il giaguaro, e tenta
con un rapido balzo l'agguato
alla corta proboscide del tapiro.
Sogna il giaguaro, e non altro,
che non c'è altro in giro.
Sogna il giaguaro, e attende
attende invano il respiro
d'un'agognata vittima.
Siamo allo zoo, ed in gabbia,
nel freddo inverno, sogna,
sogna di un caldo che non conosce:
attender la morta carne bisogna
che ogni giorno ti porta
il mite e devoto guardiano.


Non è facile entrare in sintonia con un gatto, difatti molte persone non ci riescono e non ci provano nemmeno. Di solito la comprensione nasce spontanea, senza bisogno di pensarci o di fare qualcosa di particolare. Questa è una riflessione della polacca Wyslawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura:"... i gatti hanno la capacità di offendersi. Un gatto si offende molto facilmente e fa capire che non è contento, che non è stato trattato come meritava. I cani si offendono molto meno, basta una carezza e dimenticano tutto. I gatti, al contrario, perseverano nel loro cattivo umore". (Wyslawa Szymborska, da un'intervista a "la Repubblica")

Tanti anni fa avevo un gatto siamese che ascoltava la musica con me; era molto attento ed esigente, e se mettevo un disco che non gli piaceva se ne andava via subito, molto deluso, dandomi un'occhiata di disapprovazione. La sua preferenza andava alla musica sinfonica, soprattutto Brahms e Beethoven, e apprezzava anche Verdi; ma era del tutto indifferente al rock e alla musica leggera (penso di esprimere pienamente il suo pensiero dicendo che per lui questa non era affatto musica), e ricordo che rimase letteralmente scandalizzato dalla Sacre du printemps di Stravinskij. Anni dopo, mi è piovuto in casa un bel gattone bianco e nero. A differenza del siamese, lui era proprio un gatto di strada, e la faceva da padrone; ma con noi continuava sempre ad essere molto affettuoso. A lui devo le mie osservazioni sui felini in libertà, e gliene sono molto riconoscente.

Ed ecco ho fatto il disegno di un puma,
ed è venuto che non mi dispiace:
è nella nebbia e nel gelo che fuma,
dalle narici il suo fiato par brace.
Fuori fa freddo ed è quasi normale,
siamo in montagna e nevica e fa male:
e là lontano c'è una lepre in fuga.


Devo ammetterlo: quando scrivo, i gatti mi saltano fuori spesso, soprattutto quando non me li aspetto. Mi tendono imboscate e non so come difendermi: del resto, a guardare con l'animo dell'enigmista, anche emiliogauna è tutto un miagolare nascosto.

Rapace clandestino e misterioso,
allocco miserando che il suo topo
con arte si cattura e porta al nido;
il topo notturno riceve lo sfratto,
è meglio l'allocco del mio gran bel gatto.
Ripenso alle trappole e al lavoro del topo,
ripenso al dolore di ciò che vien dopo,
contemplo l'allocco che vola lontano;
la notte dilegua e già il sole è vicino,
e qui ronfa ignaro il mio bel gattino.

Penso che sui gatti, e sui felini in generale, sarò costretto a ritornare; o forse saranno loro a chiamarmi e a costringermi ancora ad occuparmi di loro. Per adesso, mi pare giusto chiudere con un'altra riflessione che amo molto, e che è stata fatta da una persona che molti hanno amato, per la musica e non solo:

"Esistono soltanto due strade per sfuggire alla miseria umana: suonare l'organo e giocare con i gatti"(Albert Schweitzer)

Audrey Hepburn (e Cat) in Colazione da Tiffany


Anche su Golem l'Indispensabile

sabato 18 agosto 2007

Cinema


Anna Proclemer e Rossano Brazzi in Malìa

Cinema

di Anna Proclemer


Non ho niente di pregevole da raccontare. Né per quello che ho fatto, né per come ho vissuto quello che stavo facendo.
Forse l’unica cosa degna di menzione è Malìa, dal dramma di Luigi Capuana, diretto da Peppino Amato, girato in Sicilia sulle pendici dell’Etna nel 1945. Fu in quell’occasione che rividi Brancati, dopo che la guerra ci aveva diviso.

Recitavo con la faccia lavata, senza un filo di trucco, i capelli incolti, accanto a una Maria Denis tutta aggiustatina, con le sue brave ciglia finte, il cerone, il rossetto, i riccioli ben pettinati. Il film non ebbe molto successo, malgrado la presenza nel cast di attori come Rossano Brazzi, allora un divo, Roldano Lupi e Gino Cervi. Io ebbi un trionfo di critica. Parlarono di “rivelazione”, “…il cinema italiano non potrà più fare a meno di questo volto intenso…” e bla bla bla. Invece il cinema italiano ne fece a meno benissimo, e mise sugli altari quelle che a quel tempo si chiamavano “le maggiorate”.

Io ricevetti una serie di proposte una peggio dell’altra. Le rifiutai tutte, imperterrita, e me ne tornai al mio teatro senza l’ombra di un rimpianto.

Non avrei proprio altro da dire. Se non, forse, spendere due parole per la mia brevissima apparizione in Viaggio in Italia di Rossellini, con la Bergman e George Sanders...

Pausa sul set di Viaggio in Italia

I cultori di questo film, e sono tanti, mi parlano tutti di quella mia particina come di un prelibato “cammeo”...

A me sembrano pazzi. E’ vero che il film è bellissimo, forse il migliore di Rossellini, ma il mio personaggio, la prostituta, è al limite del ridicolo...

Il povero Sanders, travagliato da problemi coniugali, prende in macchina una prostituta che staziona fuori dall’Excelsior di Napoli. Cerca di distrarsi un po’, suppongo. E chi gli capita? Una Proclemer dall’aria tragica, depressa, col muso lungo, che gli racconta di una sua amica che è morta, e di lei che voleva ammazzarsi…e di come è orribile la vita. Poi gli chiede: dove andiamo? E lui, giustamente: lasciamo perdere, facciamo un’altra volta. Se non è ridicolo questo…

Durante quella mia breve permanenza a Napoli per Viaggio in Italia ci fu una serata particolare e per me indimenticabile. Stavamo tutti all’Excelsior, e all’improvviso arrivò Humphrey Bogart. Era a Napoli di passaggio e veniva a salutare la sua amica Ingrid. Beh, vederli insieme, vivi, veri, in carne e ossa, con un bicchiere di Martini in mano, mi fece quasi svenire dall’emozione...

Per me Casablanca era, ed è tuttora, un cult. So a memoria tutte le battute, so quando la camera staccherà dall’uno all’altro. So il punto esatto in cui mi metterò a singhiozzare. So tutte le parole di As time goes by. Ed eccoli qui, Rick e Ilse, davanti a me, nel bar dell’ Hotel Excelsior di Napoli...

Mi risvegliò dal mio imbabolamento la voce di Rossellini: “Anna, andiamo a cena al Vomero. Li porti tu Ingrid e Bogey? Io ha la macchina piena” e uscì. Mi sentii gelare...

La mia macchina era una modesta 1100E color cacchina, una delle più brutte ma efficienti automobili che la Fiat abbia mai prodotto. Ma fin qui pazienza. Non tutti possiamo essere stars di Hollywood e spostarci in limousine. E io sono troppo fondamentalmente democratica per pensare che la marca di un’automobile possa esaltare o declassare chicchessia...

No, la 1100E andava benissimo. Ero io che non andavo troppo bene. Avevo la patente da un mese scarso. La strada per il Vomero è in salita ed è tutta curve e tornanti. Mentre le affrontavo, sudando per la tensione ( a quel tempo per scalare le marce bisognava fare il doppio débrayage e io non ero ancora un drago, in materia), pensavo al carico prezioso che mi portavo appresso (all’ultimo momento si era aggiunto anche George Sanders). Una bella responsabilità, la mia! ...

Arrivai al ristorante stremata, ma felice di avercela fatta. Mentre entravamo per la porta girevole, Bogart mi mise una tenera ma ferma mano sul culo. Lo guardai con riconoscenza. L’idolo si era fatto uomo...

Humphrey Bogart (Bogey)

Dal sito di Anna Proclemer

venerdì 17 agosto 2007

E se il piloto ti drizzò l'antenna


Vigée Lebrun Giovane donna c.1797 Boston, Museum of Fine Arts


E se il piloto ti drizzò l'antenna
(Livre mon ami 1)

di Solimano


Mi sedevo nella grande cucina del casello, appoggiavo i gomiti sul tavolo di marmo, pregevolissimo d'estate, l'antologia si apriva da sola alla pagina preferita, e cominciavo a leggere con voce da baritono leggero il Carme Dei Sepolcri di Ugo Foscolo, tutto, da All'ombra de' cipressi e dentro l'urne a Risplenderà su le sciagure umane.
Non capivo quasi nulla, nell'antologia c'erano le note scritte in piccolo, ma non me ne curavo. Andai avanti così per almeno due mesi, quell'estate, due o tre volte al giorno. I muri non tremavano, perché erano spessi più di cinquanta centimetri. La mamma era preoccupata, ma solo un poco, perché mi vedeva, dopo l'umane finale, sbafarmi con aria soddisfatta quasi un chilo di susine gialle (oggi goccia d'oro) appena colte nel frutteto.
Era la forza dell'endecasillabo. Nel Carme suddetto ce ne sono 295, di endecasillabi, tutti in fila uno sotto l'altro. Duecentonovantacinque clave che il Foscolo, grandissimo artigiano, aveva rifinito ognuna in modo diverso dall'altra, mantenendo intatta (vergine, avrebbe detto lui) la loro consustanzialità di clave.
Una felice incacchiatura verso l'universo mondo che però continuava a non dargli retta, salvo le gentildonne del Lombardo-Veneto, che dico? E la Liguria, l'Emilia, la Toscana? In pochi mesi erano passate dal rosario all'endecasillabo. Chissà, nel culmine della passione amorosa qualcuna gli diceva: “Dimmi ancora A libar latte e a raccontar sue pene” e lui lo diceva, ravvoltolato in una di quelle sue camicie elegantissime, e larghe larghe per lasciar spazio alla gentildonna e pure all'ancella.
1 agosto 2004

David Madame Récamier 1800 Parigi, Musée du Louvre

giovedì 16 agosto 2007

Normandia 2007


Le falesie presso Etretat


Normandia 2007

di Roby


Sono appena tornata da un tour de France familiare di dieci giorni, e ancora ho negli occhi la luce ed i colori della Normandia, tappa principale del viaggio. A costo di risultare inguaribilmente romantica o -peggio ancora- retoricamente insulsa, confesso di sentirmi tuttora un po' sfasata, intontita, svuotata ed insieme riempita di contenuti così abbondanti da non riuscire ad esprimerli tutti. A la une (come dicono i francesi): il tempo è stato a dir poco splendido durante quasi tutto il viaggio, regalandoci distese d'erba giallo-verde, mari blu, tetti d'ardesia di un grigio intenso e rocce del più tipico "color roccia". In seconda istanza: ma quanta roba c'è da vedere laggiù, tra il Cotentin, Calais, Rouen e Bayeux??? Avevo cercato di documentarmi, prima della partenza, ma l'impatto è stato più forte del previsto, naturalmente in meglio. Dalla natura ancora selvaggia delle falesie, ai paesini nell'interno con le case strette intorno alla chiesa ed all'immancabile cimiterino (che oserei quasi definire "ridente"), fino alle abbazie romaniche maestosamente in rovina, alle sconfinate spiagge del D-Day e alla punta estrema di Cap de La Hague, è stato tutto un succedersi di emozioni continue. Poche le delusioni e infinite le suggestioni, prodotte proprio dai luoghi meno segnalati sulle guide: ma il bello del viaggio -lo sapete meglio di me- è crearsi da soli il proprio Baedecker personale, dando una due cinque dieci stelle così, a seconda del gusto e dell'umore del momento.

Mi fermo, perchè le valigie ancora piene reclamano il mio intervento. Ma avevo promesso tempo fa che qui avrei "fissato" le mie prime impressioni, e così ho fatto: per le seconde e le terze, ho bisogno di un periodo di "digestione" un po' più lungo... all'incirca quanto quello richiesto da una marmitta di moules à la creme con frites a volontà!!!

A bientot!!!

Mont-St.Michel vista dalla campagna