domenica 26 agosto 2007

Una Famiglia Americana





Una Famiglia Americana

di Gabriella Alù


Joyce Carol OATES, Una famiglia americana (tit. orig. We were the Mulvaneys), traduz. Vittorio Curtoni, NET/Saggiatore-Collana Narrativa n.271, p.512, 2006, ISBN 88-515-2312-6

"Eravamo i Mulvaney, vi ricordate di noi?
[...]
Per parecchio tempo ci avete invidiato, poi ci avete compianto.
Per parecchio tempo ci avete ammirato, poi avete pensato: Bene! E' quello che si meritano"


Una famiglia americana è la traduzione piuttosto grezza del titolo originale We were the Mulvaneys, romanzo del 1996 di Joyce Carol Oates, scrittrice americana dalla sterminata bibliografia, docente a Princeton, direttrice della prestigiosissima Ontario Rewiew e da anni, insieme a Philip Roth, candidata USA per il Nobel per la letteratura.

Si tratta di un romanzo di largo respiro, una bellissima ed avvincente saga familiare ambientata in una ricca fattoria piena di animali di ogni tipo nel nord dello Stato di New York nel periodo tra gli anni '60 ed '80.

La famiglia Mulvaney è composta da Michael (il padre), Corinne (la madre) e quattro figli dei quali tre maschi (Michael jr., Patrick, Judd) e un'unica femmina, Marianne. E' una famiglia felice, chiassosa ed allegra, in cui regna la concordia, con un lessico familiare molto articolato e complice, in cui tutti i membri fanno al meglio quello che ci aspetta da loro: lavorare, studiare. I Mulvaney stanno bene con gli altri e stanno bene tra loro.

Fino a quando, il giorno di S.Valentino del 1976, l'unica figlia femmina, la beniamina del padre, la diciassettenne e dolcissima Marianne, cheerleader del suo liceo, studentessa modello, ammirata da tutti, viene violentata da un compagno di classe e lei, nonostante le pressioni di tutta la famiglia e soprattutto di suo padre, si rifiuta di denunciarlo.

Da quel momento tutto comincia a disgregarsi ed a precipitare: il padre non sopporta più nemmeno la vista di Marianne, che viene allontanata da casa dalla madre Corinne, solidale con il marito. Mike jr. e Patrick, i due figli più grandi, si allontanano da casa covando risentimento per i genitori, desiderio di vendetta nei confronti dello stupratore di Marianne ma anche, in parte, un malcelato disprezzo per la sua codardia nel non volerlo denunciare. Nessuno riesce a gestire la situazione, il padre Michael perde sempre di più l'autocontrollo e si comporta in modo tale che la società, che in primo tempo li aveva compianti per quello che era successo a Marianne a poco a poco li emargina.

Solo a distanza di anni la famiglia riuscirà a ritrovarsi e a ricostituirsi.

Il romanzo, nonostante la sua lunghezza, i tanti personaggi, uno stile di scrittura articolato ma sostanzialmente molto classico (la voce narrante è dell'autrice, ma in alcuni capitoli gli eventi sono visti e narrati in prima persona dal figlio minore Judd) è in realtà molto strutturato in tre parti più o meno di eguale lunghezza.

Nella prima ci viene descritta questa famiglia invidiabile, ideale e felice

Nella seconda parte assistiamo alla progressiva ed inesorabile distruzione di questa felicità che avviene certo per cause esterne (lo stupro e l'atteggiamento dei concittadini dei Mulvaney) ma soprattutto per cause interne perchè i maschi della famiglia, ciascuno con le proprie motivazioni e modalità non reggono e, mentre apparentemente ed anche in buona fede non hanno altro desiderio che punire lo stupratore e vendicare Marianne, in realtà è lei che colpevolizzano e sono proprio loro i primi a non comprenderla e ad emarginarla.
Trovo che questo sia uno degli elementi più interessanti del romanzo della Oates, e mi interessa sottolinearlo. Perchè a circa metà del libro mi sono resa perfettamente conto che i maggiori artefici della tragedia di Marianne sono, di fatto il padre e i fratelli i quali, invece di accoglierla, proteggerla, curarne le ferite, in realtà pensano a lei come a qualcosa di insozzato ed alla punizione dello stupratore più come alla vendetta del proprio onore maschile ferito. Così facendo, spingono sempre di più Marianne a disprezzare se stessa, a non autostimarsi. E la madre, Corinne, che pure vuole molto bene a Marianne, sta fino alla fine --- di fatto -- dalla parte dei maschi della famiglia.

Nella terza fase c'è il percorso individuale che ciascuno fa per ritrovare innanzitutto se stesso e quindi per ritrovare l'unità familiare perduta. Alcuni ce la fanno, qualcuno no e viene travolto.

Nella quarta di copertina di questa edizione leggo che Una famiglia americana è stato definito "Un Buddenbrook americano". Non sono affatto d'accordo. Romanzi che hanno come tema una saga familiare ce ne sono tanti, ma non basta questo per renderli simili. I Buddenbrook e i Mulvaney sono diversissimi e non solo per il contesto e l'epoca storica in cui le loro storie si svolgono, ma per le dinamiche e la tipologia degli eventi che intervengono a determinare la rottura degli equilibri interni e la crisi della famiglia.

Piuttosto, a me sono venute subito in mente altre due famiglie, entrambe americane: per la verità, non tanto la famiglia Lambert di Le Correzioni di Jonathan Franzen quanto piuttosto la famiglia di Seymour Levov, "lo svedese" di "Pastorale americana di Roth, la cui famiglia viene letteralmente frantumata da una bomba. Una bomba reale. La bomba che l'amatissima figlia adolescente (anche qui il motore dell'intreccio narrativo è un'amatissima figlia adolescente) utilizza per far saltare un emporio e un ufficio postale. Ed anche qui un padre che non si dà pace.

Marianne Mulvaney è una vittima passiva. Merry, la figlia dello "svedese" è una vittima attiva. Entrambe vittime, però.
Giovedì, 26 luglio 2007

Da NonSoloProust

Joyce Carol Oates


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