martedì 31 luglio 2007

EFFI BRIEST - THEODOR FONTANE





EFFI BRIEST - THEODOR FONTANE

di Gabriella Alù



Ho l'impressione che lo scrittore prussiano Theodor Fontane non sia noto in Italia come meriterebbe. Eppure, è considerato da tempo uno dei classici della letteratura tedesca dell'Ottocento e Thomas Mann lo stimava uno dei suoi punti di riferimento letterari. Al punto tale che nel 1919, in occasione del centenario della nascita di Fontane, pubblicò un articolo sul Berliner Blatter in cui tra l'altro scriveva:

"una biblioteca della letteratura romanzesca basata sulla scelta più rigorosa -- e dovesse anche restringersi a una dozzina di volumi, a dieci, a sei -- non potrebbe essere priva di Effi Briest. Non si usa forse dire che nessuna costruzione prodotta dalla mano dell'uomo può essere perfetta? E invece, [...] la cosa perfetta esiste: sognando, l'uomo che è artista ogni tanto la produce [...] se tutto torna, ecco che la cosa si forma, il cristallo risulta puro"

Theodor Fontane, celebre e temuto anche, ai suoi tempi, come critico teatrale, fu scrittore molto prolifico e parecchi suoi romanzi hanno per protagonista (anche nel titolo) una figura di donna (Grete Minde, Cécile). Ma, come giustamente rileva Bevilacqua nell'introduzione ribadendo le parole di Mann, "Theodor Fontane è e rimane l'autore di Effi Briest".

Il libro, pubblicato nel 1895 ed ambientato nella ricca borghesia prussiana e berlinese, racconta sostanzialmente la storia di un episodio di adulterio e delle sue tragiche conseguenze. Un dettagliato riassunto della trama lo si può leggere qui

Effi Briest è uno dei miei romanzi preferiti (assieme ad altri di Fontane, come ad esempio il bellissimo ed ahime oggi pressocche irreperibile in italiano Il barone di Stechlin). Mi piace per la perfezione della struttura, per l'approfondimento psicologico dei personaggi, per lo stile sommesso e raffinato di scrittura, per la critica severa di Fontane nei confronti di un codice morale che mette un ossessivo e crudele "senso dell'onore" al centro dei rapporti familiari. Innstetten, il marito tradito di Effi, è una brava persona, colto, gentile, educato. Effi gli vuole bene, gli è affezionata e, dopo la brevissima relazione adulterina (che lei stessa ha troncato e di cui non smetterà mai di aver rimorso) è contenta di vivere con lui. Ma la caratteristica principale di Innstetten è quella --- come ad un certo punto, verso la fine del romanzo, dice la stessa Effi --- di essere "... un uomo buono incapace di amare" e di mettere al primo posto, nella scala dei suoi valori, l'orgoglio maschile e il senso dell'onore.

Ed è questo che, molto più che il brevissimo episodio dell'avventura di Effi con il brillante e cinico maggiore Carpas, dà veramente il via alla tragedia. Il colloquio tra Innstetten e Wüllersdorf, in cui il marito tradito spiega le ragioni che lo spingono a sfidare in duello il maggiore Carpas nonostante siano passati tanti anni e nonostante egli sappia perfettamente che da allora lui ed Effi non si sono mai più visti nè scritti è una pagina da antologia.

Effi Briest viene troppo, troppo spesso paragonata ad Emma Bovary e troppo spesso vedo il romanzo di Fontane presentato come "la storia di una Bovary tedesca". Ma in realtà le analogie tra i due personaggi e i due libri sono solo di facciata, molto superficiali. Una lettura attenta del romanzo di Flaubert (1856) e quello di Fontane (1895) mette in luce molte più differenze che analogie.

Sarebbe troppo lungo esaminarle ed elencarle qui. Mi interessa però sottolineare un aspetto che io considero molto importante, a proposito di analogie-differenze: l'atteggiamento, la considerazione che ciascun autore aveva per la propria eroina.

Theodor Fontane nutriva molto affetto per Effi (e per tutte le donne che si fossero trovate nella sua condizione) e parlando di lei diceva sempre "... la mia povera Effi". Leggendo il libro, si avverte in ogni riga che Fontane sta dalla parte di Effi, che è solidale con lei, che le vuole bene. Il romanzo fu scritto di getto, come dimostra lo stesso Fontane in questa lettera all'amico Hans Hertz: "Già.... la povera Effi! Forse mi è riuscito così bene perchè ho scritto tutto in uno stato di sogno [...] è venuto come da sé, senza vera ponderazione e vera critica"

Per Flaubert, Madame Bovary fu soprattutto un esercizio di stile. Un esperimento letterario.

Ci sono innumerevoli passi nel suo epistolario (specialmente nelle lettere a Louise Colet) dai quali emerge chiaramente come lui non avesse la benchè minima simpatia per Emma, come tutto sommato la disprezzasse; è ormai arcinoto quanto fu lunga e travagliata la stesura del romanzo: "Bovary mi stanca, dipende dal soggetto e dalle correzioni", "Bovary [...] sarà stata una prova inaudita", "Come m'embête la mia Bovary!", "Dannato libro! Mi fa male, lo sento!". "Quanto artificio nel materiale...". Ed ancora, sempre a Louise Colet: "Ciò che è buono della Bovary è che sarà stato una dura ginnastica".

Una dura ginnastica. Questo fu per Flaubert la povera Emma Bovary... D'altra parte, sembra (dico sembra perchè la cosa non è stata mai provata) che sul letto di morte Flaubert abbia esclamato: "Io morirò e quella puttana della Bovary mi sopravviverà!"

Theodor FONTANE, Effi Briest, trad. Erich Linder, a cura di G. Bevilacqua p.282 Garzanti, I Grandi Libri, ISBN: 881136213X

Da NonSoloProust

Una scena dal film Effi Briest di Rainer Werner Fassbinder del 1977


lunedì 30 luglio 2007

Le mie venticinque lettrici



Le mie 25 lettrici

di Giuliano




Mi è piaciuta la riflessione di Solimano sullo scrivere. Dice cose di buon senso, e non si può che convenire; ma mi ha fatto venire voglia di aggiungere qualcosa, ed è un po’ un parlarsi addosso, ma ogni tanto è utile farlo. Comincio dall’inizio, da quando internet non c’era. In altri tempi, persone come noi che scriviamo sui blog avrebbero fondato una rivista: anzi, non l’avrebbero mai fondata perché pubblicare una rivista di carta costa moltissimo, e al massimo col ciclostile e con la fotocopiatrice ci si poteva fare il bollettino parrocchiale, che non è il massimo delle soddisfazioni. E poi, siamo uno a Roma e uno a Monza, una a Ravenna e una a Firenze: difficile mettere in piedi una rivista in queste condizioni. Invece con internet ci siamo, i costi sono vicini allo zero, non c’è il problema di stampare e distribuire, pubblichiamo qualcosa tutti i giorni e siamo anche bravini. Quanto al farci soldi, penso proprio che nessuno di noi ci abbia mai pensato: il nostro genere di scrittura è del tutto gratuito, proprio come chiacchierare con degli amici con cui ci si trova bene.

Si sa che il mondo dei libri e dei giornali è un mondo molto chiuso, ed è difficile entrarvi; e tutto questo andava bene negli anni passati, quando il controllo su chi scriveva nei giornali ed appariva in tv era molto stretto, perchè così si salvaguardava la qualità di ciò che veniva pubblicato. Era molto difficile, ancora negli anni 70 e 60, trovare un cretino in radio, in tv o sui giornali; oggi accade esattamente il contrario, sappiamo anche di chi è la colpa, ma pazienza. Quello che stavo dicendo era che, quando a un “fuori casta” accadeva di aver qualcosa da dire, o da ridire, su quello che accadeva o che aveva appena letto, c’era un solo strumento: le Lettere al Direttore. Sappiamo tutti come sono fatte queste rubriche. Non sono proprio tutte così, ma di regola succede che uno scrive, e la Redazione magari pubblica, ma solo per dirti che hai torto (con il maggior garbo possibile, o magari con pesante ironia), oppure per darti ragione se già eri d’accordo con loro. A me accadde in anni lontani: su una rivista di musica, nel 1980, e su una di cinema, negli anni 90. La distanza di dieci anni non è casuale: quando ti capita una volta, poi ti passa la voglia e ti chiedi chi te lo ha fatto fare.

Io ho iniziato a vedere alcune mie cose pubblicate solo con internet, nel 2001: è stato un puro caso, con rime e versi che non mi sarei mai sognato di far leggere in giro (e infatti ho usato uno pseudonimo, per tre anni) e ne ho ricavato alcune belle soddisfazioni, compresi i famosi 25 lettori di cui parlava Solimano; e siccome alcune erano lettrici, mi sono permesso di fare una modifica al Manzoni per il titolo di questa piccola serie. Il bello di “Golem” è che si può scrivere all’autore. Infatti anch’io ho ricevuto posta, una dozzina di lettere in tre anni, che sommate a chi scrive su “Stile Libero” fa proprio 25, se non sbaglio i conti che sto facendo sulle dita. Forse chi mi scriveva pensava che io fossi della cerchia di Umberto Eco, e comunque uno scrittore noto; penso alla delusione di chi ha ricevuto la mia onesta risposta (di quei lettori-lettrici sono rimasto in contatto solo con due persone, amicizie delle quali mi onoro).

Il pericolo in agguato quando si scrive è il narcisismo. Ci si innamora dei propri scritti, si pensa che valgano molto, ci si sente al centro del mondo, eccetera. E’ quello che capita col 90% dei blog e dei videoblog, ed è normale che succeda. A me mi hanno stroncato subito: la Redazione di Golem (persone alle quali voglio tuttora molto bene) mi ha cambiato e tagliato alcune cose sulle quali avrei voluto essere consultato. Non che fossero capolavori, ma l’autore ero io... Almeno su queste cose mi piacerebbe avere l’ultima parola, sarebbe bello che ti dicessero: “E’ troppo lungo, riscrivilo”. Invece no, si taglia si cambia e si cestina senza chiedere niente, e a me questo non piace; in questi casi, preferisco continuare a scrivere per me. Scrivere è un esercizio che mi è servito per diventare un lettore migliore: è solo scrivendo, provando a scrivere, che si può davvero capire Joyce.

Oggi, grazie alle redattrici di Golem e a un misterioso Ingegnere, ho dunque i miei 25 lettori e lettrici: che fare? Nei primi tre anni di Ulivo Selvatico, non avendo mai pubblicato niente, avevo 45 anni d’arretrati. Li ho smaltiti tutti, non ho quasi più cose da dire, mi accorgo che ho scritto troppo e che mi ripeto, e che il più delle volte, anche davanti all’attualità, potrei ripubblicare pari pari le cose che ho già scritto anni fa (sono tutte accessibili in archivio, un grazie a chi ha fatto il lavoro!).


In questi anni, dal 2003 quando abbiamo iniziato, c’era un governo pessimo. In Lombardia c’è ancora, ma almeno a livello nazionale non avere più i fascisti al governo è stato un sollievo mica da poco. E’ per questo che mi sono preso il lusso di tornare a parlare di musica, o di altri argomenti più leggeri. Ho notato che anche gli altri ne hanno approfittato, forse ci sentiamo tutti più leggeri, sollevati; speriamo che duri, e che un giorno si possa tornare a parlare di Politica.

Parlare di musica, o di cinema, o di ricordi, è un altro modo di parlare di politica. Penso che ne siamo tutti coscienti; anche parlare dei propri casi personali o di chi si incontra per strada serve, può servire per cambiare, almeno nel nostro piccolo. Per esempio, attorno a che cosa sta nascendo questo benedetto Partito Democratico? Attorno al nulla delle chiacchiere di Montecitorio? Sarebbe bello che nascesse dal mio edicolante, dai “campare la vita” di Rigoletto, dall’ortolano di Monza, dai giapponesi di Firenze...

Ai tempi di Golem, a me hanno detto (era una mail dubbia nel suo mittente, sembrava quasi un sondaggio, chissà chi c’era dietro) che “non è possibile che un operaio scriva in questo modo e abbia tanta cultura”. Chissà poi perché: a chi la pensa così andrebbe ricordato che l’invenzione di Gutenberg, il libro a stampa, risale ad ormai parecchi secoli fa, e che da allora è diventato relativamente facile (oggi, facilissimo) trovare e leggere i grandi libri. Leggerli, e imparare: anche per un muratore e una cassiera, perché no? E’ perfino divertente quando succede che tu hai già fatto una cosa e arriva qualcuno che ti dice che è impossibile che tu l’abbia fatta, e che in ogni caso è brutta e non interessa.

Mi piace leggere le recensioni ai libri sui giornali. Come per il cinema, ho imparato ad essere dietrologo: tolti quei sempre più rari critici che davvero vale la pena di leggere, il resto è “recensione amica”, uno spot a pagamento o un piacere a un amico (o a un’amica) che poi ricambierà. E’ un fenomeno che meriterebbe un bel saggio all’inglese, di quelli divertenti che se ne può anche ricavare un film. Per esempio, tanto tempo fa, quand’ero ancora giovane e inesperto, leggevo e memorizzavo i nomi di un famoso recensore; e non mi ci raccapezzavo. Solo dopo molto tempo ho scoperto che quel recensore era omosessuale, e recensiva quasi solo libri e film di autori e tematiche omosessuali: ma il mondo non è così ristretto, e soprattutto scrivendo su un giornale bisognerebbe allargare almeno un po’ i propri interessi e le proprie letture... E’ solo un esempio dei tanti, un po’ come il fenomeno delle ragazze e dei ragazzi che raccontano il loro mondo: se il livello di scrittura è basso, cosa ne resta? Chi leggerebbe ancora, oggi, “Porci con le ali”? E cosa ne sarebbe del “fenomeno” Wu Ming (una recensione al giorno su tutti i principali giornali), se i quattro ragazzi non fossero così ben introdotti nel mondo della stampa? I loro libri non interesserebbero a nessuno, anche se sono ben fatti. Ogni tanto salta fuori uno scrittore o una scrittrice giovani, italiani, dei quali si dice un gran bene: sono quasi sempre pubblicitari, o laureati del Dams. Non so voi, ma io quando vengo a sapere che una pubblicitaria ha scritto un libro perdo ogni interesse per quel libro, a meno che non sia un libro di figure e disegni che allora non si fa fatica e quantomeno lo si può sfogliare in libreria. Ecco, questa del disegnare è davvero un dono di natura. Non è una cosa che si impara: si può migliorare, ma se di partenza non c’è nulla...

Per quel che mi riguarda ho scritto tanto, anche troppo. Non avete idea di quanto ho scritto, quello che avete visto è solo la punta dell’iceberg. Preso dalla disperazione, tempo fa ho cercato di mettere un po’ d’ordine, dividendo per argomento il mare di appunti e di fogliettini che avevo in giro; ne sono usciti alcuni file che qualcuno ha letto e trovato belli, e adesso Solimano mi consiglia di dargli forma definitiva. Non lo farò mai, a meno che non mi paghino come la Rowlings o come la Tamaro. Scrivere è facile, mettere in ordine e dar forma definitiva è una fatica immane. Un po’ come, per uno scultore, sbozzare una figura nel marmo e poi rifinirla e levigarla fino ad arrivare a un Canova: una gran fatica, roba da certosini, e difatti nella scultura moderna non lo fa più nessuno, usano gli stampi (fatti col computer) e le resine. Oltretutto, penso a quanti scrittori e poeti grandissimi sono stati dimenticati: penso a Toti Scialoja, a Massimo Ferretti... Perché si dovrebbe tenere memoria di quello che ho scritto io? Venticinque tra lettrici e lettori mi bastano, è molto più di quanto avrei immaginato di avere, e il fatto che non siano qui ma in giro per l’Italia, magari a 500 Km di distanza, è davvero bello.

C’è ancora una cosa da dire, un’altra triste e ben nota realtà: di regola le cose che scriviamo piacciono a lettori lontanissimi da noi, mentre trovano scarso riscontro, noia più o meno mascherata o indifferenza, persino odio e ostilità, in casa e nelle persone a cui vogliamo più bene e alle quali siamo affezionati. A scrivere capita così. L’opinione comune, alla quale mi accodo, è che scrivere è da scemi, se non ci fai soldi: scrivono poesie le ragazzine, e ridicoli Neroni quarantenni compongono musica e versi pensando d’essere grandi artisti.
Ma non voglio chiudere così la mia relazione accademica: scrivere è qualcosa di diverso, di migliore e di profondo, e anche di inevitabile. Cosa sia lo scrivere lo ha spiegato Coleridge, nella “Ballata del vecchio marinaio”: la storia, una storia di spettri e di navi fantasma, è narrata da un uomo che afferra (letteralmente afferra) un giovane per un braccio, e lo costringe ad ascoltare. Il giovane si ferma e ascolta, perché è affascinato dalla narrazione e non può farne a meno. Ecco, qui sta la risposta alla domanda sul perché si scrive, e anche al perché si legge. Scrivere, raccontare, è qualcosa di più forte di noi, quasi una forza che ci possiede. Ci sarà sempre qualcuno che racconta e qualcuno che ascolta, nei blog o su carta, o dalla viva voce di chi ci parla. Come ha lasciato scritto più di un grande poeta, scrivere – a qualsiasi livello - è inevitabile, è quasi come sognare: (...) Ma sognare è un fiume profondo, che precipita a una lontana sorgiva, ripùllula nel mattino di verità. ( Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore)

(25-31 marzo 2007; originariamente su Stile Libero)


Le tre immagini sono quadri di Mary Cassatt.


domenica 29 luglio 2007

Post numero 100

Habanera


Qualche minuto fa, aprendo il blog, ho letto distrattamente il numero totale dei post: novantanove.
Stavo passando oltre quando ho avuto una intuizione a dir poco geniale: il prossimo post (cioè questo) sarà il numero 100.
Non chiedetemi come ho fatto a capirlo, sono calcoli sofisticati, di alta matematica, che non tutti sono in grado di svolgere. Dovete credermi sulla parola: 99+1=100.
E' un bel numero il 100, così tondo e simpatico, un numero che fa allegria. Mi sembra un buon motivo per festeggiare e farlo insieme a voi, lettori affezionati del Nonblog.

Che si aprano i saloni, inizino le danze! I cavalieri corteggino le dame e le dame si lascino corteggiare senza pensare subito al matrimonio, sennò i cavalieri scappano...

E lo champagne scorra a fiumi, insieme al pop corn.
Che c'entra il pop corn? C'entra, c'entra... chiedete a Solimano.



venerdì 27 luglio 2007

Meglio la piazza di internet



Meglio la piazza di internet

di Remo Bassini


Ci si alzava quando io, ora, vado a dormire, anche prima.
Alle 3, le 4 di notte.
L’auto era già stata preperata la sera prima.
Già l’auto, rigorosamente Fiat: la 500, poi la 850, poi il 127.
La classe operaia non andava più in bicicletta, ma in paradiso, per le autostrade.
Sul portabagagli il lettino della sorella più piccola. Sembrava una 500 a castello, la nostra.
Otto ore di viaggio, anche nove, e salire gli appennini erano cavoli amari.
Mio padre alla guida incitava la 500-cavallo: su, vai su.
E le soste per mangiare un boccone. Tutta roba fatta in casa, anche il caffè, nel termos. Allora mi vergognavo, oggi è un bel ricordo.
Le ferie della famiglia operaia negli anni 70.
Dalla padania alla toscana, a qui
Dove andate in ferie?, domandavano a mio padre. In Toscana rispondeva. Ma intendeva dire Cortona e il suo circondario, dai parenti nostri, contadini. Alcuni ricchi, molto, alcuni poveri, molto.

Tanti, come mio padre, se n’erano andati
… la noia l’abbandono il niente son la tua malattia,
paese mio ti lascio, io vado via


Nel luglio del 1974 partecipai a una battitura del grano. Giorni di vacanze lavorando, sotto il sole della Toscana.
Nel luglio del 1974 i miei zii, a mezzadria, avevano ancora un padrone.
Mi fa effetto quando ci ripenso: lui arrivava in moto, spegneva, scendeva e loro che gli dicevano “giorno sor padrone”.
(Un po’ come avviene nell’editoria: giorno sor editore, giorno sor scrittore, giorno sor critico).
Comunque.
Rividi la stessa scena, parlo della battitura del grano precedeuta dalla raccolta, anni dopo nel film Novecento di Bertolucci.
La battitura del grano nella grande aia, poi il pranzo per gli altri.
Venti trenta altri contadini dei poderi vicini. Lavoro a rotazione, come una cooperativa.
Niente di scritto: la tradizione contadina prevede il reciproco scambio della forza lavoro in cambio di un piatto di pasta, un secondo ma non sempre, del buon vino. Sempre.

Siamo, sono ancora un figlio del 900.
E lo sono anche tanti ragazzi, oggi. Quelli che si ritrovano in piazza, quella che un giorno mi disse “scusa se non uso internet, ma preferisco il profumo della carta”.
Lì comunque, a Cortona, quando posso io torno. Anche in treno, che però è scomodo, come sempre. Trenitalia non va mai in paradiso.
Anche lì, a Cortona, certo, c’è internet. Ma c’è un’altra cosa, che resiste. La piazza. I vecchi si ritrovano al mattino e i giovani la sera.
E qui lo dico e non lo negherò mai: meglio la piazza di internet.
9 Luglio 2007


Da Appunti di Remo Bassini

giovedì 26 luglio 2007

Carolina, Francesco, Giorgia




Carolina, Francesco, Giorgia
Tre nomi non scritti sull'acqua

di Primo Casalini



Carolina

La mia professoressa di italiano in terza media si chiamava Carolina Grandinetti. Non era sposata, cosa allora abbastanza frequente fra le insegnanti, anche perché alla Facoltà di Lettere c'era una quasi totalitaria presenza femminile e non esistevano le occasioni di frequentazione che ci sono oggi. Allora aveva circa quaranta anni. Mi prese in simpatia, le piaceva come scrivevo e come rispondevo quando mi interrogava. Non sono mai stato il primo della classe, andavo bene, ma non c'era in me quella regolare pulsione, quella assiduità e anche, perché negarlo, quella piccola ruffianeria che un primo della classe deve avere. Allora vivevo in un casello ferroviario, che esiste ancora, e credevo che la nostra fosse una famiglia borghese! Non sapevo nulla di come andavano le cose nel mondo, mio padre ferroviere una volta che dissi che noi eravamo borghesi mi guardò sbalordito e rimase a bocca aperta per tutta la settimana. Bene, Carolina, oltre a darmi ottimi voti, volle che nella pagella ci fosse scritto "si consiglia il liceo classico". E mio padre mi mandò al liceo classico... cosa rara allora, per un borghese (!) come me. Non solo, Carolina mi disse di andare a casa sua accompagnato da mio padre e saccheggiò, sì saccheggiò la sua biblioteca per darmi tanti libri scolastici e non che avrebbero potuto servirmi al Liceo. Dopo un'ora ce ne andammo carichi come muli: mio padre me lo ricordo, era metà contento metà imbarazzato da quel dono del tutto inatteso.

Finì lì, quello che fece Carolina per me (o meglio, cominciò di lì). Molti anni dopo, già laureato e sposato, un giorno la riconobbi sullo scalone di accesso alla Galleria Palatina di Parma: si era fermata a prendere fiato perché con l'età non riusciva a procedere. Lei non mi riconobbe, ed io non mi fermai a salutarla. Perché? L'avrei fatta felice, a raccontarle come avevo proseguito gli studi e tante altre cose... ma non l'ho fatto. Da tanti anni, quando ci ripenso, il suo ricordo è offuscato dalla mia mancanza di sensibilità, che forse era il corollario del rampantismo di quel periodo in cui sembrava che tutto ci fosse dovuto.



Francesco

Al Liceo Classico fra le materie c'era anche Storia dell'Arte, un'ora alla settimana, del tutto ridicolo, perché capire e studiare bene la storia dell'arte è più difficile che capire e studiare il latino, che già non è uno scherzo. Ogni anno cambiava il professore, chissà perché in seconda liceo ci toccò uno che veniva su da Bologna. Si chiamava Francesco Arcangeli, aveva poco meno di quarant'anni e già allora era un critico d'arte piuttosto noto, ma noi non lo sapevamo. Ci accorgemmo subito che tirava un'altra aria, che Francesco sapeva le cose, capiva e amava. Una ragazza si comprò un temperino ed incise il suo nome - anche il cognome - sul banco di legno, che da qualche parte sarà finito, in un falò magari col nome e tutto - non è una brutta fine. Alla terza ora di lezione, Francesco arrivò in classe con un quadro sottobraccio, e lo appoggiò sulla cattedra in modo che tutti lo vedessimo bene. Era una natura morta di Giorgio Morandi, sconosciuto a tutti noi, e Francesco pazientemente per tutta l'ora di lezione ci raccontò perché era importante quel quadro e perché era bello. Lo fece un'altra volta con una piccola tavola a fondo oro del '300. Poco mi ricordo delle sue parole e dei suoi argomenti di allora, ma Francesco in quel modo ha cambiato la mia vita, e in una parte non secondaria. Cominciò così la mia passione per l'arte, con tutta la fatica e la gratificazione conseguenti, e che ancor oggi permangono: per me Amico Aspertini o Francesco del Cossa, Donato Creti o Bartolomeo Schedoni non sono nomi di strade secondarie, ma emozioni che soccorrono anche nei momenti più difficili.

Oggi Francesco Arcangeli è un nome finalmente di moda. Si è riconosciuta la sua grandezza, il valore dei suoi libri, si tengono mostre, congressi e celebrazioni a lui dedicate. Ma quasi nessuno racconta le difficoltà che ebbe durante la sua vita, in primis il difficile rapporto col suo maestro, Roberto Longhi, grande critico e grande scrittore, ma uomo terribile, che trattava gli allievi come fossero camerieri o sguatteri, e che rallentava la loro carriera accademica per farsi servire più a lungo. E Giorgio Morandi che fece, quando Francesco gli dedicò un corposo libro monografico pieno di competenza e di amore? Lo stroncò, con una dichiarazione di tre righe, simile in questo alla cattiveria, sì cattiveria, di tanti grandi artisti, Picasso e Stravinskij per fare solo due esempi. Gli ultimi anni della vita di Francesco furono segnati dolorosamente da tutto questo, aveva la pelle troppo sottile. Che oggi lo si esalti va bene, ma si abbia il coraggio di dire la verità, la cruda verità.



Giorgia

Prima liceo: 26 ragazze 9 ragazzi. Entrò in classe la professoressa di italiano, Giorgia Melchiorri, in fama di terribilità. Tutti in piedi, le ragazze col grembiule nero, i ragazzi variamente vestiti, dal Capannelle ante litteram ai pantaloni lunghi del figlio del farmacista - che li portava lunghi dal giorno della nascita. Giorgia arriva alla cattedra, sta in piedi pure lei, ci scruta tutti e si fa un segno di croce. Con una imbarazzata sfasatura, tutti replichiamo, le ragazze prima, poi i ragazzi - si sa che sono più lenti. "Se io faccio il segno di croce, non vuol dire che voi siete tenuti a farlo", fa Giorgia, prima di sedersi.

Era una donna piccola di statura, col grembiule nero pure lei, i capelli bianchi e gli occhi azzurrissimi, non dolci però. Occhi decisi, era difficile sostenere il suo sguardo. Io credevo di non avere problemi, sull'onda del successo dei miei temi alle medie ed al ginnasio. Da sempre, non facevo la brutta, scrivevo direttamente in bella copia. Al primo tema dato dalla Giorgia, così, tanto per gradire, scrissi otto rapide colonne di foglio protocollo. Giorgia mi diede 6= (sei meno meno). Intorno a me fioccavano i 6+, anche qualche 7. Desolato, nel pomeriggio pensai e ripensai - perché 'sta zitella ce l'aveva su con me? Le mie otto colonne erano divenute un profluvio di correzioni, tutte in rosso: cambiati gli aggettivi, i verbi, gli avverbi, la punteggiatura, frasi intere cancellate. Ci aveva messo quasi un'ora a correggermi, a rifarmi il tema, in pratica: sadismo allo stato puro, pensai. O no? Rilessi il tema, quello fatto da Giorgia, che era lungo sei colonne scarse... e mi piacque più del mio. Da lì in poi tutto fu facile, capii il motivo di ogni singolo cambiamento... e capii (ma ce ne volle) che il suo voto sarebbe stato 5, non 6=, e che aveva deciso di gettarmi la lenza con l'amo. Il pesciolone abboccò volentieri. Dal secondo tema in poi, per tre anni, il voto di Giorgia fu 8, che per lei era il massimo, fra l'indignazione della lobby delle tre prime della classe, abbonate al 7+. Chi veniva rimandato da Giorgia, sapeva che non c'era remissione: rimandava con 5 per poi bocciare con 4, non credeva all'esame di riparazione. Le scuole private erano piene di allievi che cercavano di recuperare l'anno perso per poi tornare al nostro liceo, ma non nelle classi della Giorgia, per carità! Di lei si diceva che non si fosse sposata perché il fidanzato era morto in guerra: possibile, mai l'ho vista sorridere. A parità, va detto, preferiva i temi dei maschi rispetto a quelli delle femmine, con lei noi nove non ci sentivamo emarginati, come invece succedeva con quasi tutti gli altri professori.

Per Giorgia the heart of the matter, il nocciolo della questione era Dante. Dopo il consueto segno di croce - lo facevamo tutti, infine, per rispetto a lei - si sedeva, apriva il testo del Grabher e diceva il numero del canto, mancava solo il pronti via. Poi leggeva il canto - leggeva, non recitava - e si sentiva in aula solo il fruscìo delle pagine quando tutti insieme le voltavamo. Dopo dieci minuti o poco più, a lettura finita, cominciava la spiega verso per verso. Tutto ciò, decenni prima del Sermonti et similia. A fine ora, "A memoria per lunedì prossimo", diceva Giorgia con un ghignetto tutto suo, come a dire mo' son cavoli vostri. Sì', toccò studiare Dante a memoria! Inventai un mio metodo: leggere, rileggere, trileggere il canto a voce alta, e poi brancarlo nella memoria a colpi di quindici versi alla volta. Lì giunto, Dante rimaneva per la vita, ascondendosi fra gangli di neuroni, pronto ad uscire quarant'anni dopo, fresco qual verdolina lattuga. La sezione sopra la nostra, la seconda liceo, tutta maschile, fece un suo sciopero all'ennesimo canto da imparare. Giorgia fronteggiò con fermezza irata, rossa - anzi scarlatta - sulle guance, sempre pallide in lei. Il suo privato e castissimo harem di trenta maschi diciassettenni, come osava ribellarsi! Transarono, infine, perché non potevano fare a meno l'una dell'altra, Giorgia e la sua classe, a cui insegnava, beati loro! anche latino.

Per le versioni dal latino, Giorgia vietava l'uso del vocabolario. Anche qui aveva ragione: fino a due anni fa mi sono fatto la versione della maturità secondo il "Giorgia style": leggere, rileggere, trileggere il brano e sentire che il significato totale appare quasi esplosivamente. Che vuoi che sia una paroletta misteriosa qui e là? Gli dai tu il senso e in genere non sbagli. Cristiana eppur laicissima, era. Mi interrogò sul Machiavelli, ed io impastocchiai eloquenti frasette sul fatto che Niccolò ce l'aveva con la gerarchia della Chiesa. Mi guardò, un po' delusa: "Eh no! E' proprio con la religione che ce l'ha, i preti sono un dettaglio". Si farà secoli di Purgatorio, Giorgia: superba, iraconda, persino intellettualmente lussuriosa ed eretica, da stilnovista. Ma quando ascenderà al Paradiso, finiran le canzoncine di Angeli ed Arcangeli, di Cherubini e Serafini, di Troni e Dominazioni: 7+ per tutti, e che non si lagnassero! Dante, per i fatti suoi, riderà con lietezza feroce, a veder cosa combina la sua amica Giorgia.

P.S. Come immagini ho scelto la Libreria del Crespi - pittore amatissimo da Francesco, e gli Eletti del Signorelli a Orvieto.

Immagini




Immagini

di Roby



La vita è in sostanza una serie di episodi, talvolta assurdi e talaltra slegati, dove le immagini si susseguono spesso a casaccio, come montate da un tecnico distratto, sorrette per giunta da una sceneggiatura senza capo né coda.
Ma il peggio è che la storia, alla fine, s’interrompe bruscamente.
Il colpevole non è stato ancora smascherato, la principessa ha incontrato il principe, sì, ma forse non era quello giusto, ed il tesoro nascosto è rimasto tale. Eppure, non ci sono santi che tengano: lo schermo si rabbuia di colpo, le luci in sala si riaccendono, e gli spettatori, tra il contrariato e il dispiaciuto, tornano a casa mesti, pensierosi, delusi…

Che senso aveva - si domandano - il lungo monologo sui doveri dei figli verso i genitori, fatto dal padre a metà del primo tempo? E perché la figlia, nella seconda parte, non ha chiesto scusa alla madre degli anni in cui l’aveva trascurata? Ci si rimugina sopra, ci si commuove o ci si indispettisce, pensando che la proiezione non verrà ripetuta, che ormai l’abbiamo persa. Avremmo potuto gustare più a fondo i colori dorati di quel pomeriggio d’autunno ancora tiepido, in collina, o il fruscio della carta dei regali appena aperti, sotto l’albero di Natale, o ancora il suono delle risate davanti alle scenette in tv, la domenica pomeriggio, tutti insieme…
Invece stop, basta, chiuso. The end.

Poi, mentre cerchiamo un fazzoletto perché un granello - forse sabbia della clessidra? - ci sta facendo lacrimare gli occhi, scopriamo in tasca qualcosa che prima non ci eravamo accorti di avere. Toh, che razza di oggetto! Assomiglia ad una piccola videocassetta, o meglio ad un voluminoso dvd. Accidenti, dov’è il lettore per visualizzarlo?
Ma no, che strano: basta concentrarsi un attimo, chiudere gli occhi e… Incredibile! Il film appena visto, quello che credevamo perduto per sempre, torna ad affiorare alla mente, sequenza dopo sequenza, emozione dopo emozione. Il tutto - prodotto da MEMORIA&Co. e CUORE Ltd.
e racchiuso in un cofanetto da edizione speciale, con tanto di contenuti aggiunti, casting, backstage, ecc.- arricchirà la nostra cineteca personale e noi stessi per molto, molto tempo ancora. Almeno fino alla prossima, inevitabile interruzione del nostro programma preferito.



mercoledì 25 luglio 2007

I miei venticinque lettori (5 e ultimo)



I miei venticinque lettori

di Solimano


19 marzo 2007
C'è il momento del disfrenamento creativo, poi ci deve essere quello della concretezza terragna. Ho finito stamattina l'ultima delle Novellette degli Odori, che sarà il numero 54 . Ne avrei in mente vagamente altre tre, di cui una con un titolo bellissimo, "Ladri di viole", ma chiudo con quella scritta stamani perché mi soddisfa.
Sono andato molto avanti col programma M.T.F.R. My Twenty Five Readers, d'accordo, è una cosa ridicola, ma è anche una cosa serissima. I file sono due. Uno leggero con solo gli scritti, l'edizione economica che va bene per chi vuol stampare qualcosa qua e là. L'altro, pesante, l'edizione di lusso, con caratteri particolari, sfondo, immagini e didascalie, che per le Novellette non supererà il Mega, quindi si può benissimo spedire via Outlook. Completerò le Novellette con un Post Scriptum spero non pedante, darò solo informazioni pratiche sul testo e sulle immagini, con l'obiettivo di essere utile a me stesso ed al lettore. La stessa cosa farò per La Grande Bua, per cui ho già individuato le immagini e che comunque avrà un peso inferiore alle Novellette (è più breve, sono solo 17 paragrafi), ma avrà anche lei un Post Scriptum. Parlo con i verbi al futuro, ma i tempi saranno piuttosto brevi, credo che nel giro della settimana prossima comincerò a spedire, esclusivamente a persone fisiche che conosco quasi tutti nella vita reale, oltre che in quella virtuale.
A quelli a cui scrivo chiederò tre cose.
La prima è di fare con me la stessa cosa che io faccio con loro, cioè di fornirmi i loro scritti organizzati come loro credono.
La seconda di darmi un loro feed back, prima o poi - non c'è nessuna urgenza, foss'anche solo per dirmi quali sono le tre Novellette (ad esempio) che a loro sono piaciute di più, per dire meglio, quelle che hanno sentito di più come a loro vicine.
La terza cosa è più strana, e ci ho pensato a lungo. Supponiamo che ad uno le mie Novellette piacciano e ne parli con qualcuno: chiederò che non gliele spedisca ma gli dia la mia e-mail in modo che io possa spedirgliele. Il razionale è solo uno: non credo in nessun modo alle catene di Sant'Antonio, mentre credo profondamente al rapporto fra un io reale ed un tu ugualmente reale. Non c'è nessuna pretesa da parte mia di controllare una distribuzione che comunque resta affidata alla liberissima decisione delle persone a cui scrivo.
Nel caso, che mi auguro, che altri intraprendano una strada analoga, sono a disposizione per fornire suggerimenti e consigli sui caratteri, sugli sfondi, su come fare ad importare immagini nel testo, che è molto più semplice di quello che pensassi. Più complicato è fare in modo che l'immagine non superi un certo peso, ma posso aiutare anche qui, ci sono abituato.
Che aspetta, ad esempio, Giuliano a scritturare i suoi venticinque lettori? Organizzando, sistemando, asciugando allargando le tante belle cose che ha. E faccio solo un esempio, ma ciò vale per tutti. E' un gioco a somma positiva in cui non vedo controindicazioni, se non un po' di piacevole lavoro di organizzazione di quello che c'è già e che sarebbe il caso di rivedere, e in fondo ognuno di noi può essere critico efficace di ciò che ha già scritto. Au revoir!


FINE


P.S. Così scrivevo qualche mese fa, ed ho proceduto per la mia strada, spedendo le mie Novellette degli Odori a diverse decine di persone, sempre con rapporto one-to-one, niente liste di distribuzione. Se qualcuno dei visitatori è interessato, ha un sistema molto semplice per raggiungermi: scriva al Nonblog e io potrò rispondergli inviando le due edizioni, che sommate assieme fanno un allegato alla e-mail da un po' meno di 1.3 Megabytes. Se poi seguirà un feed back, ne sarò contento. Sorrideteci pure - anch'io lo faccio - ma ritengo che ciò costituisca l'innesco di un piccolo circolo virtuoso. Sarei inoltre contento se potessi essere anche lettore dei miei lettori, perché, confessatelo, scrivete pure voi! (s)

martedì 24 luglio 2007

Invano



Invano

di Jomarch


Ho appena fatto il caffè. Si sente caffè dappertutto; il caffè ha invaso le stanze, lo sento forte e nero, il suo profumo. Pane e caffè, è la vita che conosco, quella che ogni giorno tocca, sfiora, prende, regala, toglie, afferra.

Tre sono le cose che odio fare di più: il caffè è una di queste, lavare le posate la seconda e la terza è accorgermi che ho spento un'altra sigaretta.
Quanto può essere grande il cuore? Posso sentirlo sulle dita dei piedi e poi fin su tra i capelli. Tra i fogli e una videocassetta, come una parola che va da una bocca ad un'altra e riempie il mondo e si fa libro, legge, terra, vita.

Vorrei tenere il diario delle cose belle: un cane, un telo da mare giallo, i pennarelli, due o tre note, un tamburello. Vorrei ogni giorno aggiungere qualcosa, così saprei quanto vale una vita. Per esempio tutte le cose che sanno di giallo: sole, mele, gioie, sorrisi, un vestito sporco di cioccolato, l'allegria, l'arte, il succo di frutta, luglio, l'odore di mia madre. E poi potrei passare ad un altro colore e capire le sfumature, accorgermi dei blu, di tutti i blu del mondo.
Potrei scrivere ancora foglietti e raccontare speranze, ma basta questo cuore lungo tutto me stessa? Di che colore è il coraggio?

Ho la stanza dove leggere e sono piena di stanze da leggere. Sono viva in stanze raccontate, pile di libri per la mia ingordigia, profumo d'inchiostro e di eterno, tuffi in burroni d'ansia e di amore. Congenito feeling, corsarina di logorroici corridoi. Ma ho la stanza dove scrivere? L'ho mai avuta? Bisogna averla dalla nascita? O la si può imparare, cercare? Forse la puoi trovare per caso? Metodo e pazienza. Ma dov'è la stanza che ho in testa? Esiste davvero? Eppure a volte la sento chiamarmi. Mi chiama da una canzone, da un film, mi cambia, mi stravolge, mi ridona il tocco lieve, mi fa pestare i tasti con quella vigorosa voglia, con quel sacro pudore. Ma è là? Era proprio lei a chiamarmi mentre infilava i piedi sotto una fontana? Mi diceva: “Girati, girati!”, e io l'avrò capita veramente? Sbaglio, sbaglio continuamente. Vorrei ogni giorno cambiare prospettiva, ricominciare, ma non ne ho il coraggio.

È come se l'originale si perdesse nell'infinito lontano e risalisse uno sbiadito ciclostile; un surrogato di quell'idea che torna su solo in forma di lune o ghiaccioli all'arancia e non più parola. Non era quello che sentivo, non sono più i miei pensieri. Mi manca la musica, l'atmosfera, la culla, il letto sul quale adagiare quest'altro fiume. Episodi slegati, sensazioni: io sono solo sensazioni, sono odori e colori. Mi manca la vita.

E allora quale parte del mondo abito? La leggerezza o la pesantezza? Ma se lo schizzo è modificabile continuamente, se nello schizzo si ammorbidiscono le linee, si approfondiscono le prospettive, si ingentiliscono gli angoli, è invece la perfezione immobile ed eterna di un olio a diventare storia, a farsi capolavoro? La vita serve a fermare gli istanti, cristalizzarli in una forma, eternare sentimenti o è forse il continuo migliorare abbozzi, sperare destini, soffiare carboncini su fogli? È solo l'attesa del rinverdire degli alberi?

Quale parte del mondo abiti?

È in quest'angolo che affonda il mio senso di colpa? Il confine invisibile tra la paura e l'elevazione dello spirito? È nella leggerezza che si fa impalpabile nell'atto di afferrarla? In quell'eco ormai lontana di una cautela tutta speciale per chi le si avvicina? La verità è che la sofferenza ha una grana più spessa ed è un fardello tanto più pensante da portare quanto più ti si adagia addosso facilmente. È straordinariamente comodo e si tocca.

Ma a me piacciono i sogni. Mi piacciono le bandiere, i manifesti appesi, mi piace evocare, credere; mi piacciono le parole versate come vino tra bicchieri e dita, come macchie sulle tovaglie. Mi piace scorgere VITA, mi piace vederla nascere negli occhi degli altri; mi piacciono le canzoni di Walt Disney. Mi piace scrivere, mi piace scrivere senza pensare, quando la mano cammina sola tra il candore bianco, mi piace il fluire dell'inchiostro, il ricambio del fiume che non è mai uguale. Mi piacciono i sorrisi, ma mi piace anche la NOSTALGIA. Mi piace pensarmela questa mia nostalgia, cantarmela, contarmele le infinite volte della mia nostalgia. E quanto è bella quando ritorna su un marciapiede assolato tra sandali e calpestio di sabbia.

Mi piacciono le caramelle e le carte buttate sul tavolo, colori di frutta. Mi piace quando fingo poesie e persone e quando do titoli ai miei pensieri, come in un film, come cerimonie a ripetere e ad incorniciare ANCORA nostalgie. Creo illusioni e stelle che qualunque cielo vorrebbe. Mi piace sapere un destino che non c'è, il FANTASTICO, raccogliendo palline colorate e solitudini. Ha un nome la felicità e ha passi e rumori e luci a bruciare sabati. Speranza si chiama quell'improvvisa luna venuta a svegliarmi; tra le mie dita penne, tra le strade calci a palloni e cani a passeggiar le sere.

Da languori, nevrosi e altri tic

I miei venticinque lettori (4)




I miei venticinque lettori

di Solimano



1 marzo 2007
Va detto che il Manzoni, alla fine, di lettori ne ha avuto un po' più di venticinque. Che poi uno dice il Manzoni... parlo dei Promessi Sposi e ci aggiungo l'Adelchi, perché il resto, compresi gli Inni Sacri, anche il 5 Maggio, non mette conto parlarne. Resto sui Promessi Sposi: le centinaia di migliaia, forse i milioni di lettori si dividono in due affollate categorie, quelli che di fronte al Manzoni fanno la genuflessione col segno di croce e quelli dell'uffa il Manzoni. C'è una terza categoria, molto più sparuta, fatta di quelli che distinguono il grano dal loglio e che amano il Manzoni di Don Abbondio, Donna Prassede, Don Ferrante, Agnese, Perpetua, Tonio + Gervaso, Azzeccagarbugli, il Podestà, il Conte Attilio, il Conte zio, il sarto del si figuri, Renzo, Don Rodrigo, Lodovico, Geltrude e sbadigliano col Cardinal Federigo, l'Innominato, Padre Cristoforo e Lucia.Io mi sento di questa piccola categoria: amo il Manzoni vivo, vivissimo, non il Manzoni insalamato dalla conversione e che se la tira con l'amore comandato.
Ci tornerò un'altra volta, aggiungo che al Manzoni successe come a Tolstoi, che per più di trent'anni non scrisse più nulla di paragonabile a quello che aveva scritto prima, la ragione credo che non sia molto diversa da quella di Tolstoi: non si può scrivere cose vere se si mente a se stessi - volontariamente od involontariamente. Rileggerò fra breve i Promessi Sposi, andando adagio nella Notte degli Imbrogli e dei Sotterfugi e correndo nelle tante virtù del Cardinal Federigo.
Torno al M.T.F.R. My Twenty Five Readers perché io ai miei venticinque lettori ci tengo veramente, visto che sarà difficile che vada più in là, ma la colpa è dei tempi malvagi, avessi scritto nel 1912 forse a 28 lettori ci arrivavo. Ieri, con l'aiuto di amici, ho fatto delle prove e sono riuscito (forse) a risolvere il problema più grosso, che è quello di inserire le immagini nel word senza appesantirlo in modo insostenibile dalla posta elettronica: ho capito che il documento non deve essere un rtf, se no sono guai. Ci sono tante finezze di ogni tipo che potrò fare, ma è solo questione di tempo. Occorre però, per ogni scritto, puntare su due documenti: uno leggero, senza sfondo, senza colori, senza immagini - il che non vuol dire che sia brutto - che serve per eventuali stampe, l'altro con tutte le bellurie giustificate dalle pulsioni dell'artista - io, in questo caso.
Ma verrà il turno di tutti - a livello sfondo, tipo caratteri, colore caratteri, titoli, immagini sopra, sotto, in mezzo, prefazione, postfazione, note e chi più ne ha più ne metta. Se si riesce a fare qualcosa che globalmente pesi sui 500k, anche qualcosa in più, il gioco è fatto. Il primo esperimento lo farò con La Grande Bua, perché è abbastanza semplice: una immagine sopra il titolo, nessuna immagine all'interno dei diciassette paragrafi, un'altra immagine alla fine, prima però della postfazione che ho da scrivere, come carattere un Garamond, come sfondo un bel grigio che ho già trovato, e il problema è risolto. Ci metterò più tempo con le Novellette degli Odori, perchè ho deciso di arrivare a cinquanta, quindi per finirle mi ci vuole un mese, poi qui sì che le immagini ci saranno all'interno del testo - senza esagerare - e quindi prima della spedizione ai twenty five passeranno due mesi, voglio fare una cosa che piaccia a me, e sono puntiglioso.
Bene, dopo aver fatto tutte le risate e le ironie possibili su questi quattro brani e sul loro autore, credo che qualcuno di voi dirà a se stesso: "Perché no?". La bellezza più vera e grande della rete sappiamo tutti qual è: certe e-mail da persona a persona, cose che nessuno legge, a parte i due che si scrivono. Ce ne sono decine di migliaia di corrispondenze del genere oggi in Italia, e qualche centinaio è sicuramente mirabile, vero che più vero non si può. Ma anche quello che propongo con M.T.F.R. ha una sua onesta bellezza (toh, come quella di Lucia!) e qualcosa di buono, anzi di molto buono ne uscirà. Io parto, chi vuole ci pensi. Ho ancora qualcosa da dire, ma per il momento: jeunes filles et garçons, au revoir!

lunedì 23 luglio 2007

Carelia-Murmansk



Carelia-Murmansk, maggio 1999

di Clelia Mazzini


Ci vollero dodici giorni per arrivare da Kem in Carelia a Kirovsk. Spesso, durante il tragitto, ci sembrava di galleggiare sopra il cotone delle nuvole, così bianco e puro nel contrasto con una luce i cui effetti non avevamo mai visto in vita nostra.
Nella cabina del piccolo Savvatij consumavamo i pasti che ci portava Hibe, la biondissima e silenziosa figlia del capitano, in una pace impossibile da descrivere, lontana nella memoria ma fissa nei miei pensieri.
E poi il piccolo aereo per Kirovsk, nel Murmansk, oltre il Circolo Polare Artico.
Fuori dal mondo, fuori da ogni storia che non fosse la nostra Storia.

Le serate trascorsero liete in compagnia della gente della palude, imparammo giochi, canti e balli popolari nella penombra del tramonto polare, stupendoci spesso di quanto le loro tradizioni o i loro canti, una volta tradotti, somigliassero ai nostri.
Ricordo la corsa in sidecar verso il monastero ortodosso e la sosta all'apice di quella collina su un istmo, vicino Kandalakša, a sentire quel silenzio interrotto solo dall'urlo disperato della sirena del faro.
Chiudere gli occhi in faccia al vento per poi aprirli ritmicamente al ritorno di quel suono, per poi chiuderli ancora, nella speranza, dopo averli riaperti, che tutto si fermasse in quell'attimo, che più nulla potesse distoglierci dal credere che quello che stavamo udendo fosse il richiamo dell'Eterno. Di tutto quello che, in noi, non si sarebbe mai perduto.

Poi, piano piano, tutto è sfumato, ma quel silenzio, quel "canto", quell'attimo, credo ancora di poterli sentire, a volte, nella pace del mattino, quando da sola mi sveglio tranquilla.
Nel voltare gli occhi alla finestra, nel guardare l'acqua del lago, riascolto brevemente la memoria e sorrido, paga di tutto ciò che è stato.
Di tutto ciò che, in me, non potrà mai finire.
[20/10/2004]


Da La vita precedente
Akatalepsia

domenica 22 luglio 2007

I miei venticinque lettori (3)



I miei venticinque lettori

di Solimano


Più ci penso, più il progetto M.T.F.R. My Twenty Five Readers "I miei venticinque lettori", assume una sua fisionomia concreta, altro che sogno di narcisista timido. Però con una differenza rispetto al Manzoni (eccolo!): io, i miei i venticinque lettori li voglio conoscere uno per uno - anche una per una, spero bene che non siano solo maschietti. Conoscerli in rete, ma conoscerli anche nella vita reale. E non mi contento, vorrei essere anch'io un lettore, quindi la priorità la darò a quelli che scrivono, proprio perché scrivono. Che soddisfazione, essere lettore dei propri lettori! L'obiezione potrebbe essere che non ce n'è alcun bisogno, perchè quello che scrivono è già in rete. La risposta alla obiezione è che in rete c'è la prima edizione, magari scompagnata dalle modalità di caricamento, e che certamente, se si prendono in mano brani già scritti, viene voglia di migliorarli, asciugarli, ingrassarli, punteggiarli, creare il raccordo fra un brano e l'altro. Il tutto, non in una ottica di do ut des, che comunque male non fa, ma per fare tante cose, sulle robe da leggere che mi verrebbero spedite, o che spedirei io. Supponiamo che si tratti di un bel documento word con dentro solo i testi: ci potrei aggiungere delle immagini, e quindi ci si troverebbe di fronte all'originale e alle edizioni illustrate da Giuliano o da Solimano, ad esempio. Con tutte le incredibili menate che uno può fare: sfondi, caratteri, corsivi, grassetti, sottolineature, chi più ne ha più ne metta. Così, senza grande sforzo, io potrei preparare per Giuliano l'edizione coi caratteri Garamond, mentre per qualcun altro andrebbe bene l'Arial. E i colori, ci pensate ai colori! Il tutto diverrebbe uno strano incrocio di produttività e di fantasia. Ho inoltre il sospetto che qualcuno, in rete, giochi sporco, tenga cioè nascoste nei suoi cassetti opere capitali che non pubblica o perchè è in attesa di trovare un editore, di quelli che le robe le stampano proprio, o perché se ne vergogna, cose intime che reggerebbero ad uno scambio di e-mail, non all'essere esposte in bella vista in rete. Magari si scopre - a me è successo - a notevole distanza di tempo che certi post avevano singolari collegamenti con post scritti una settimana, un mese, un anno dopo. Aggiungo che uno potrebbe volere fare una prefazione o una postfazione, in cui spiega chi o che cosa l'ha ispirato, e se si è dovuto legare alla sedia come l'Alfieri o è andato avanti a furia di caffé e sigarette come me. Agli scritti si potrebbe abbinare un florilegio critico - critico, non ruffiano - da parte degli altri, così potremo dirci la nostra fra colleghi e colleghe, siamo anche concorrenti, poche storie. Ognuno di noi si formerà un proprio linguaggio. Giungeremo al sanscrito, e risalendo per li rami, anche al uh! uh! primigenio, con qualche a! o e! di licenza poetica. Grandi spazi ci si aprono davanti, anche per un altro motivo. Ciascheduno ha quegli amici - e quelle amiche - tanto cari, tanto simpatici, ma che non hanno mai scritto una riga e che già faticano a spedire le cartoline da Fregene. Quando si vedranno nominati - peggio che nell'Isola dei Famosi - lettori o lettrici, non potranno reggere: con la biro fregata all'ufficio postale, sulla carta del sacchetto del pane, qualcosa gli escirà, a questi potenziali Premi Nobel, da cosa nascerà cosa. Ma perché solo agli amici. Non dobbiamo trascurare il fruttivendolo, il barbiere, la cassiera del super, il dentista - no, il dentista meglio di no - l'edicolante, che nel mio caso sono quattro: padre, madre, figlio, figlia, quando entri non sai a chi chiedere. A questo punto Alessandro Manzoni comincia ad agitarsi invido, meglio che metta ancora una immagine dei Promessi Sposi, così si dà una calmata. Au revoir
27 febbraio 2007

sabato 21 luglio 2007

Poesie di Pedro Salinas

Habanera



LA VOCE A TE DOVUTA

Pubblicata nel '33, questa raccolta si colloca in un momento centrale, di piena maturità del suo autore. Attraverso i suoi settanta componimenti scorre un intero poema d'amore compatto nel suo tessuto tematico e sentimentale, intervallato di silenzi che sono solo pause di respiro. Anche un canzoniere, dunque, ove l'amore si esplica in una continuità di ricerca quasi sperimentale, in una ripresa continua di motivi combinati fra loro, in un linguaggio sottilmente rinnovato, aperto alla trasformazione fantastica. Un lavoro capillare, nascosto, ma di grande suggestione per chi sa percepire le segrete sonorità della poesia.


Sì, al di là della gente

Sì, al di là della gente
ti cerco.
Non nel tuo nome, se lo dicono,
non nella tua immagine, se la dipingono.
Al di là, più in là, più oltre.

Al di là di te ti cerco.
Non nel tuo specchio e nella tua scrittura,
nella tua anima nemmeno.
Di là, più oltre.

Al di là, ancora, più oltre
di me ti cerco. Non sei
ciò che io sento di te.
Non sei
ciò che mi sta palpitando
con sangue mio nelle vene,
e non è me.
Al di là, più oltre ti cerco.

E per trovarti, cessare
di vivere in te, e in me,
e negli altri.
Vivere ormai di là da tutto,
sull'altra sponda di tutto
- per trovarti -
come fosse morire


A te si arriva

A te si arriva solo attraverso te.
Ti aspetto.
Io sì che so dove mi trovo,
la mia città, la via, il nome
con cui tutti mi chiamano.
Però non so dove sono stato con te.
Là mi hai portato tu.
Come avrei imparato la strada
se non guardavo nient'altro che te,
se la strada era dove tu andavi,
e la fine fu quando ti fermasti?
Che altro poteva esserci
più di te che ti offrivi, guardandomi?
Però adesso che esilio,
che mancanza,
e lo stare dove si sta.
Aspetto, passano i treni,
i destini, gli sguardi.
Mi porterebbero dove non sono stato mai.
Ma io non cerco nuovi cieli.
Io voglio stare dove sono stato.
Con te, ritornarci.
Che intensa novità,
ritornare un'altra volta,
ripetere mai uguale
quello stupore infinito.
E fino a quando non verrai tu
io resterò sulla sponda
dei voli, dei sogni,
delle stelle, immobile.
Perché so che dove sono stato
non portano né ali, né ruote, né vele.
Esse vagano smarrite.
Perché so che dove sono stato con te
si va solo con te, attraverso te.


Tu vivi sempre nei tuoi atti

Tu vivi sempre nei tuoi atti.
Con la punta delle dita
sfiori il mondo, gli strappi
aurore, trionfi, colori,
allegrie: è la tua musica.
La vita è ciò che tu suoni.
Dai tuoi occhi solamente
emana la luce che guida
i tuoi passi. Cammini
fra ciò che vedi. Soltanto.
E se un dubbio ti fa cenno
a diecimila chilometri,
abbandoni tutto, ti lanci
su prore, su ali,
sei subito lì; con i baci,
coi denti lo laceri:
non è più dubbio.
Tu mai puoi dubitare.
Perché tu hai capovolto
i misteri. E i tuoi enigmi,
ciò che mai potrai capire,
sono le cose più chiare:
la sabbia dove ti stendi,
il battito del tuo orologio
e il tenero corpo rosato
che nel tuo specchio ritrovi
ogni giorno al risveglio,
ed è il tuo. I prodigi
che sono già decifrati.
E mai ti sei sbagliata,
solo una volta, una notte
che t'invaghisti di un'ombra
- l'unica che ti è piaciuta -
Un'ombra pareva.
E volesti abbracciarla.
Ed ero io.


Quello che sei

Quello che sei
mi distrae da quello che dici.
Lanci parole veloci,
pavesate di risa,
invitandomi
ad andare dove mi porteranno.
Non ti presto attenzione, non le seguo:
sto guardando
le labbra da cui sono nate.
Intanto guardi lontano.
Fissi lo sguardo laggiù,
non so in cosa, e già si precipita
a cercarlo la tua anima
affilata, come saetta.
Io non guardo dove guardi:
io ti vedo guardare.
E quando desideri qualcosa
non penso a quello che vuoi
né lo invidio: è il meno.
Ciò che ami oggi, lo desideri;
domani lo dimenticherai per un nuovo amore.
No.
Ti aspetto oltre qualsiasi fine o termine
in ciò che non deve succedere.
Io resto nel puro atto del tuo desiderio,
amandoti.
E non voglio altro
che vederti amare.


Il tuo modo di amare

Il modo tuo d'amare
è lasciare che io t'ami.
Il sì con cui ti abbandoni
è il silenzio. I tuoi baci
sono offrirmi le labbra
perché io le baci.
Mai parole e abbracci
mi diranno che esistevi
e mi hai amato: mai.
Me lo dicono fogli bianchi,
mappe, telefoni, presagi;
tu, no.
E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire
con domande, con carezze
quella solitudine immensa
d'amarti solo io.


E' stato, accadde, è vero

È stato, accadde, è vero.
Fu in un giorno, fu una data
che segna il tempo al tempo.
Fu in luogo che io vedo.
I suoi piedi toccavano il suolo
questo stesso che noi tocchiamo.
Il suo vestito
era simile ad altri
che indossavano altre donne.
Il suo orologio
sfogliava calendari,
senza scordare l'ora:
come contano gli altri.
E quello che lei mi disse
fu in idioma del mondo,
con grammatica e storia.
Così vero
che sembrava menzogna.

No.
Devo viverlo dentro,
me lo devo sognare.
Togliere il colore, il numero,
il respiro tutto fuoco,
con cui mi bruciò nel dirmelo.
Mutare tutto in forse,
in mero caso, sognandolo.
Così, quando vorrà smentire
ciò che mi disse allora,
non mi morderà il dolore
d'una felicità perduta
che io tenni tra le braccia,
come si tiene un corpo.
Crederò di aver sognato.
Che tutte quelle cose, così vere,
non ebbero corpo, ne' nome.
Che perdo
un'ombra, un sogno ancora.



Tra queste poesie di Salinas manca la mia preferita: "No, non m'occorre tempo", alla quale ho dedicato un post a parte.
La troverete cliccando qui.
(Habanera)

venerdì 20 luglio 2007

I miei venticinque lettori (2)



I miei venticinque lettori

di Solimano


Avevo letto i miei dieci post inviati a Claudio ed a Melba in tutte e due le edizioni, quella originaria e quella asciugata come se fossero roba (sì roba!) scritta da qualcun'altro. E' un esercizio utile, neanche tanto difficile, è il troncare il cordone ombelicale, operazione che prima o poi va fatta: gli scritti, magri o grassi che siano, debbono poter respirare da soli. Difatti possono anche ingrassare, oltre a dimagrire: come avevo ridotto le venti righe a dieci, così potevo aumentarle a quaranta, certamente ne sarebbe uscita una terza persona. A un patto: non fare un giochino tipo gli Esercizi di Stile di Queneau, sia in lingua originale sia nella traduzione di Umberto Eco. Sono operazioni mirabili, condotte da miliardi di neuroni uno più sveglio dell'altro, le vedo però come altissima enigmistica, che non sono in grado di reggere, punto primo, ma c'è anche un punto secondo: che cosa interessa veramente a me, in che cosa mi trovo a mio agio? Con due signori, e che viaggino insieme: Umore e Amore.
Si potrebbe dire, ah, le ragioni del cuore! Nossignori, il cuore è una pompa, le ragioni del cervello, in cui ci sono altri miliardi di neuroni generalmente silenti che riguardano, ad esempio l'affettività - odio/amore - e la creatività. Ho detto silenti perché la parte dominante del cervello è, giustamente, la parte logico-razionale, mi sta bene, è in azione anche in questo momento, guai se no, solo che è una parte che ha un che di pedante, di invasivo, di prepotente: alla Io sono il Signore Dio tuo e non avrai altro Dio fuori di me. Che facesse il suo formidabile mestiere questo Dio esagerato, che concimasse il terreno in modo tale che le segrete radici si convertissero in erba foglie spine fiori frutti semi.
Questo significa che il nostro cervello è un ossimoro, a volte, perché no, un anacoluto. Discorso pericoloso, me ne rendo conto, perché porterebbe a giustificare le lungagnate, gli sfoghi, le narcisate protuberanti di sapore sciapo o eccessivo, che è peggio ancora, al secondo boccone sei già sazio e vorresti già il caffè, meglio ancora un digestivo, che già senti la digestione faticosa, condita pure di qualche burp! non commendevole.
Ho fatto il giro lungo per dire che noi siamo molti, ed uso una metafora fastidiosa per certi laici a prescindere.
Noi - tutti e tutte - siamo come una bella chiesa cattolica (sì, cattolica!): c'è il campanile e la grande porta di ingresso - e andate pure sul freudiano, bene, benissimo - c'è la cupola, il transetto, la navata maggiore, le navate minori, il pulpito e il confessionale, l'acquasantiera e le candele; ci sono - soprattutto - tante cappelle una diversa dall'altra, ognuna col suo santo e la sua santa, e Maria Maddalena con i profumi, benché convertita ancora bellissima, San Sebastiano, nudo come mamma l'ha fatto con le frecce che oggi sarebbero tatuaggi, Santa Cecilia che guarda ed indica il cielo, protettrice com'è della musica, e tu guardi lei, che bella è Santa Cecilia, è lei il cielo! Ci siamo capiti. Soprattutto, non manca mai l'Annunciazione, il bel giovane che irrompe, il gatto che si spaventa, la Vergine che lascia cadere il libro o la calza che sta sferruzzando... e San Giuseppe dov'è? Non c'è san Giuseppe, sta a bottega, e gli assenti hanno sempre torto, se arriva il giovane Gabriele.
Tutte balle? No, è la verità del grande mito, paro paro a quello dell'Athena Parthenos, di Afrodite Callipigia, dei Centauri e dei Lapiti, di Ulisse ladro e curiosone. E tutta questa meraviglia può comodamente sedersi sulla nostra mente che oggi è laica, darwiniana, riduzionista, furbissima: i miti non li cancella - siamo matti? - li utilizza, se ne nutre avida, senza bisogno di Befane, Babbi Natale, San Valentini, anniversari, ci godiamo ogni giorno che Dio - che non c'è - ci regala. Ma che c'entra questo col Manzoni? Vedrete, vedrete.
Au revoir

25 febbraio 2007

giovedì 19 luglio 2007

...E non ho fotografato la lince




...E non ho fotografato la lince

di Laura Tavanti




Sono tornata l'altro ieri da un viaggio di lavoro vicino Siviglia, per la progettazione di un giardino in una villa in stile moresco che mi sta assorbendo molto.

Mi piace la Spagna, soprattutto in questo bel periodo che sta vivendo. Si respira nell’aria vitalità e innovazione.


Ne ho approfittato per visitare il Parco naturale "Donana" che non conoscevo, parco che è’ stato messo nella lista dell’Unesco come Patrimonio dell’umanità.

E’ un parco naturale di quasi 60.000 ettari di cui 8.000 protetti, che dall’entroterra si estende fino all’Atlantico, con panorami estremamente vari: si passa infatti da pinete a boschi di quercus suber, da acquitrini e paludi, da lagune a dune, e poi a lunghe spiagge bianche sull’Oceano.

Il parco è ricco sia di flora che di fauna.
Arrivati al centro di visita "El Acebuche", la prima cosa che ho visto è stato un imponente nido di cicogna che troneggiava sulla cima del tetto della casa. Incredibile!


Affittato un fuoristrada e accompagnati da Juan, la nostra guida, abbiamo iniziato il viaggio all’interno del parco. Attraversate vaste pinete composte da bellissimi esemplari di pini pinòneri, con folta chioma tondeggiante a fusto basso , poi boschi di querce, è incominciata la bellissima macchia mediterranea; lentisco, erica arborea, palmiti, payllirea, cytisus e – come vera protagonista di quel paesaggio, con mia grande sorpresa - la lavanda Stoechas che forma spontaneamente dei grandi raggruppamenti creando un effetto notevole.


Nel sottobosco vivono molti animali ; cervi, linci iberiche, volpi ( zorro in spagnolo) conigli selvatici,aquile imperiali, cicogne bianche e nere etc.
Dai finestrini del nostro fuoristrada abbiamo intravisto in lontananza una lince, che purtroppo non ho fatto in tempo a fotografare.

Durante una sosta, però, sono riuscita a sorprendere e riprendere questo delizioso gufo che dormicchiava in mezzo ai fiori. Lì ce ne sono molti, anche di giorno , sonnecchiosi, ma bene in vista. La prima cosa che ci ha raccomandato la guida, (stupendo) è stata di rispettare il silenzio per tutto il viaggio.


Andando avanti il paesaggio è diventato piatto ma molto affascinante. Prima abbiamo attraversato degli acquitrini caratterizzati da piante palustri: junco, stipa, typha latifolia e da varie specie di uccelli acquatici e anfibi; poi ampie lagune popolate da una fauna ricca e colorata.
E poi …….un mare di fenicotteri.


Il tramonto ci ha sorpresi sulle dune, davanti all’Atlantico, con l’orizzonte incendiato da un sole enorme che poi si è attenuato nei colori dorati di uno splendido crepuscolo.


A tarda notte siamo rientrati in albergo.
Ero veramente stanca ma davanti agli occhi avevo i colori, le immagini, le emozioni delle atmosfere così diverse di questa giornata particolare
(01/07/2007)

Da La Voce del Giardino


mercoledì 18 luglio 2007

I miei venticinque lettori (1)



I miei venticinque lettori

di Solimano


Mbah! Potrei anche chiamarlo "My Twenty Five Readers" 'sto brano, così me la tiro un po'. Potrei anche aggiungergli la linketterìa, come fanno gran parte dei blog. Però sono tecnicamente rudimentale -e questa è la ragione vera - poi preferisco non sporcare lo scritto con una serie di link-scorpioni - e questa è una ragione un po' meno vera, ma comunque reale. Quindi sto sul classico: un titolo che più manzoniano non si può - vedrò poi se ci trovo un senso lungo la strada - immagini pure loro manzoniane, quelle di Gonin nell'edizione originale dei “Promessi Sposi", frutto di un notevole colpo di fortuna, e niente link, almeno per il momento, vedremo poi in futuro. La faccenda è nata nel blog di Claudio Sabelli Fioretti -e qui ci vorrebbe il link, ma fa niente. Claudio ha trovato un editore che pubblica volentieri un libro sul suo blog, ed ha chiesto ai partecipanti, che lui chiama lobbisti - mentre io preferisco chiamarli lobbatrici e lobbatori - di spedirgli un massimo di dieci post ciascuno per l'eventuale pubblicazione nel libro. Siccome in certe cose sono organizzato, per me è stato facile: vado in un mio file che ho chiamato "Vino rosso e caldarroste" ed attingo i miei dieci post - fior da fiore, roba bellissima - e li spedisco a Claudio ed alla misteriosa Melba che lo guida tecnicamente nella conduzione del blog - ne sa una più del diavolo. Misteriosa poi neanche un po', tutti sanno che si chiama Barbara Melotti e che sta a Roma, mentre io sto a Monza e Claudio sta in una piccola frazione sopra Lavarone, nel Trentino a spaccar legna tutto il santo giorno. Ha infatti deciso di prendersi un anno sabbatico dopo che è uscito dal Magazine del Corriere dove pubblicava le interviste. Questo è il tranquillo - quasi bucolico - quadro di riferimento, solo che è scoppiato un guaio. Invece di dirmi grazie perché avevo spedito i miei post, Claudio e Barbara mi scrivono che non vanno bene perché superano tutti - e non di poco - le cinquecento battute. Io ribatto: "Ma come? Se a suo tempo me li avete pubblicati nel blog così come stanno!" Mi rispondono che non si può fare diversamente, perché un libro è diverso, ci vuole roba corta. A 'sto punto, sono rimasto come un baco da seta su una foglia secca per una settimana, perché ai miei post sono molto affezionato - sangue del mio sangue - finché qualche mattina fa ho avuto un raptus, i dieci post li ho asciugati e ho ridotto la lunghezza di ognuno alla metà, attorno alle cinquecento battute richieste da quei due. Ho sofferto molto, quindi l'ho fatto velocemente per togliermi il pensiero, salvando naturalmente l'edizione originale, chissà mai che uno fra cent'anni pubblichi la mia opera omnia, che sarebbe una bella idea, peccato non esserci. Una volta ridotti, me li sono riletti, i dieci post fatti smilzi, e qui ho avuto una sorpresa: funzionavano lo stesso, più o meno come quelli più lunghi, solo che sembravano scritti non da me ma da un'altra persona, un altro me stesso. Da qui sono nate una serie di considerazioni che vi racconterò nei prossimi giorni, man mano che si organizzeranno nella mia mente. Dove arriverò non lo so, lo scoprirò arrivandoci, e qui mi fermo, solo che mi potreste dire che cosa c'entra Alessandro Manzoni in tutto questo. Sono sicuro che c'entra, ancora non so del tutto come, per intanto il titolo l'ho già scelto e le immagini so dove andarle a prendere.
Au revoir
23 febbraio 2007

martedì 17 luglio 2007

Tarùsc e Lusciàt




Tarùsc e Lusciàt

di Placida Signora



Il Museo dell’Ombrello
Tra il Lago Maggiore e quello d’Orta sorge il Mottarone, monte sulle cui pendici si narra viva il Tarusc; gnomo alto mezzo metro, rosso di pelo, misantropo e affetto da timidezza acuta, ha un’unica passione: gli ombrelli.

Perciò, tanti e tanti anni fa, decise di insegnare agli abitanti della zona del Vergante, unici umani che gli erano simpatici, l’arte del fabbricarli e un misterioso linguaggio comune: il tarùsc, appunto.

Così i 50 villaggi sparsi sulle falde del Mottarone divennero patria di ombrellai ("lusciàt"); artigiani ambulanti che dall’inizio del ‘700 sciamarono nelle città dello Stivale tenendo sulle spalle la grande "barsèla", cassetta a forma di faretra dalla quale spuntavano al posto delle frecce i "ragozz" (stecche degli ombrelli) mentre sul fondo eran stipate "lusùra, flignànza, tacugnànza e tacòn, ramé, ecc", (forbici, refe, pezze varie, bastoni di legno ecc): insomma, tutti i "sápitt" (ferri del mestiere) da lusciàt.

Gridavano per le strade "Om-brellèee! Om-brellée!", attenti ad un cenno che dalle finestre delle case li avrebbe assoldati per aggiustare ombrelli rotti o, gran fortuna, fabbricarne di nuovi.
Una vita grama; guardati con diffidenza perché foresti vagabondi senza posto fisso dove "cubià" (dormire; da qui la necessità d’usare un gergo incomprensibile ad altri, il tarusc), pativano freddo e fame. Da "picinà" ("mangiare") solo "gèrb e stafèl", pane e formaggio portato da casa.

Iniziavano l’apprendistato a 7 anni, affidati in gennaio dalle famiglie ad un lusciàt esperto tramite una sorta di pubblico ufficio di collocamento situato sulla piazza di Carpugnino, dove oggi su un’epigrafe sta scritto "Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l’ Casér, senza an bergnin", il primo dell’anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino.

Ci si poteva considerare brisòld" (ricchi) quando si riusciva a metter su la prima bottega con un banchetto e l’insegna di due cupole d’ombrello a spicchi bianchi e rossi e la scritta "Luscia, el lusciat piola": piove, l’ombrellaio si sbronza (brindando perché con la pioggia lavora di più).

Molti fecero fortuna, aprendo raffinati negozi-laboratori in Italia e all’estero (New York , San Francisco, Sidney); e nel 1939 a Gignese (Verbania), massima patria d’ombrellai, Igino Ambrosini (lusciàt, figlio e fratello di lusciàt, 1883-1955)) fondò il "Museo dell’Ombrello e del Parasole", ove racchiudere non solo la storia epica di questi artigiani, ma anche meravigliosi esempi del loro lavoro.

Oggi, in un curioso edificio che ha la pianta a forma di tre ombrelli affiancati, sono raccolti bassorilievi, mosaici, quadri, foto che raccontano la storia dell’ombrello, oltre 1500 pezzi inventariati; da quello del Doge (metà del 700) ad altri di personaggi storici, ai coloratissimi paracqua di seta di Como (1830), ad altri di piume di marabù o armati di lame nel manico, bastoni di malacca o avorio, decorati di pomi d’argento o di Sèvres… Perché un tempo anche gli ombrelli erano una cosa seria, non impersonali trabiccoli usa e getta made in Taiwan.

Da Placida Signora

lunedì 16 luglio 2007

Colleghi

Roby

A. tipico esemplare di para-statale, veste perennemente tailleur e scarpa bassa in tinta. Maniaca della pulizia, se le cade in terra il mouse corre in bagno a lavarlo (sic!). Prima di digitare sulla tastiera del pc la disinfetta col lisoformio (!!!) e se scopre qualcun altro a spippolarci sopra pretende da lui/lei il test che comprovi la non-sieropositività del soggetto. Sa tutto sull'ultimo film di Muccino, Tornatore o Luc Besson, ma non chiedetele in che cassetto stanno le pratiche degli impegni di spesa, perchè sgrana gli occhioni e risponde: "Spesa di CHE????". Cosa volete farci, svolge questo lavoro da circa 12 anni, ma ancora non ha capito che si trova in un ufficio vero, non ricostruito sul set!!!!

B. in apparenza è perfetta. Curata e attraente, calza a rete e scarpa col tacco, piega vaporosa e sorriso smagliante, accoglie il pubblico allo sportello sfoderando tutta la professionalità e le (discrete) cognizioni che possiede, dando l'impressione di essere la classica persona su cui puoi contare. Salvo poi entrare nel panico più assoluto se le viene chiesto di restare mezz'ora di più in ufficio per discutere, ad es., problemi sindacali importanti per tutto il gruppo. "E come faccio?" obietta, sbattendo le ciglia "Devo preparar da mangiare alla bambina (prima liceo quest'anno) e a mio marito (che non è nè handicappato nè allettato!)". Se considerate che tali trasgressioni all'orario consueto le saranno state richieste sì e no 4 volte L'ANNO, capirete meglio il personaggio.

C. l’essere da un altro pianeta", che a 53 anni suonati sogna ancora di affermarsi a livello internazionale nel campo della musica, dell’arte e delle pubbliche relazioni, senza accorgersi che il mondo continua a girare benissimo, anzi meglio, anche senza il suo contributo. Sì, perchè - nei rari casi in cui è stato necessario il suo reale apporto - si sono verificate catastrofi quali: il suono dell'allarme in piena notte, causa una finestra non ben chiusa nella sua stanza ("Perchè, dovevo pensarci IO???"); lo smarrimento di un documento importante imprudentemente affidato alle sue cure ("IO???? IO non ne so nulla... IO quel fascicolo non l'ho mai visto..."); la crisi di nervi di un incauto funzionario, affidatosi alle sue indicazioni per svolgere una ricerca sulla propria carriera lavorativa pregressa, e poi trovatosi prigioniero nelle spire di una farraginosa indagine degna del KGB con diramazioni sul sito del Ministero dell'Interno, dell'Esercito e forse pure -hai visto mai?- del Vaticano.

D. il genio del computer, potrebbe essere addirittura simpatico se il suo compito di addetto informatico non lo assorbisse completamente, facendoci pensare che un giorno o l'altro il monitor lo inghiottirà, tipo la bambina di "Poltergeist" .

E. la mia àncora di salvezza, così rassicurante perchè così simile a me: tra noi è facile parlare ed intendersi, tanto che a volte -e non è una frase fatta- ci "basta solo uno sguardo". Dunque, che altro dire? Tessere gli elogi di qualcuno non è divertente come spettegolargli impunemente alle spalle…. Specialmente quando il gossip ha un solido fondo di inconfutabile, comprovata, amarissima VERITA’.
(30 giugno 2007)