Ci vollero dodici giorni per arrivare da Kem in Carelia a Kirovsk. Spesso, durante il tragitto, ci sembrava di galleggiare sopra il cotone delle nuvole, così bianco e puro nel contrasto con una luce i cui effetti non avevamo mai visto in vita nostra.
Nella cabina del piccolo Savvatij consumavamo i pasti che ci portava Hibe, la biondissima e silenziosa figlia del capitano, in una pace impossibile da descrivere, lontana nella memoria ma fissa nei miei pensieri.
E poi il piccolo aereo per Kirovsk, nel Murmansk, oltre il Circolo Polare Artico.
Fuori dal mondo, fuori da ogni storia che non fosse la nostra Storia.
Le serate trascorsero liete in compagnia della gente della palude, imparammo giochi, canti e balli popolari nella penombra del tramonto polare, stupendoci spesso di quanto le loro tradizioni o i loro canti, una volta tradotti, somigliassero ai nostri.
Ricordo la corsa in sidecar verso il monastero ortodosso e la sosta all'apice di quella collina su un istmo, vicino Kandalakša, a sentire quel silenzio interrotto solo dall'urlo disperato della sirena del faro.
Chiudere gli occhi in faccia al vento per poi aprirli ritmicamente al ritorno di quel suono, per poi chiuderli ancora, nella speranza, dopo averli riaperti, che tutto si fermasse in quell'attimo, che più nulla potesse distoglierci dal credere che quello che stavamo udendo fosse il richiamo dell'Eterno. Di tutto quello che, in noi, non si sarebbe mai perduto.
Poi, piano piano, tutto è sfumato, ma quel silenzio, quel "canto", quell'attimo, credo ancora di poterli sentire, a volte, nella pace del mattino, quando da sola mi sveglio tranquilla.
Nel voltare gli occhi alla finestra, nel guardare l'acqua del lago, riascolto brevemente la memoria e sorrido, paga di tutto ciò che è stato.
Di tutto ciò che, in me, non potrà mai finire.
[20/10/2004]
Da La vita precedente
Akatalepsia
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