domenica 30 marzo 2008

Perché non vado più a teatro




Perché non vado più a teatro (n.1)

di Giuliano





"L'unica cosa che ho mai ricavato dal teatro è un sedere dolorante." (Paul Mc Cartney, metà anni '60)

Ci sono andato per tanti anni, a teatro. Avevo 17 anni e un amico mi aveva portato al Piccolo Teatro, a Milano, a vedere i grandi spettacoli shakespeariani di Strehler: Re Lear, la Tempesta... Spettacoli rimasti memorabili anche per la loro sobrietà : la scena spoglia, pochi elementi essenziali, le luci... Un teatro quasi come al tempo di Leonardo, o di Monteverdi. Con macchinari ed effetti, ma ben calibrati e funzionali al racconto; per il resto, professionalità, recitazione e grande attenzione al testo.
E poi c'erano degli attori meravigliosi, gli ultimi eredi della grande tradizione: dovendo fare un nome per tutti, parlando del Piccolo, si impone quello di Tino Carraro.
I sedili del Piccolo erano stretti e scomodi, e chi passa i 180 cm di statura e doveva starci seduto per due ore di fila finiva con il capire anche troppo bene quello che intendeva il giovane Mc Cartney. Perché allora andare a teatro, se si deve star scomodi e soffrire? La risposta è in quei due nomi che ho fatto: Tino Carraro, e Giorgio Strehler. Più tanti altri, che vi risparmio perché a chi non c'era, come capita sempre in questi casi, sembrerebbe soltanto un elenco di nomi. Difficile da spiegare anche perché di Tino Carraro, per esempio, tra cinema e tv è rimasto ben poco; e chi vedesse il suo Don Abbondio, nei "Promessi Sposi" di Bolchi in tv, non potrebbe mai capire l'emozione che prova, davanti al suo nome, chi ha vissuto con lui la tragedia di Re Lear e l'incanto del mago Prospero, nella Tempesta.
Ma anche questo appartiene al passato. Chi mi sa dire come sono fatte oggi le poltroncine del Piccolo Teatro, ribattezzato nel nome di Paolo Grassi? Sono più comode? Io non lo so, ci manco da un decennio e non so se ci tornerò. Non sono neanche mai entrato nel teatro nuovo, quello grande che oggi porta il nome di Giorgio Strehler.
Dal Piccolo sono passati anche Moni Ovadia e Marco Paolini: due persone straordinarie e due grandi attori. Li riverisco e penso a loro con affetto, ma usano il microfono. E' ancora teatro con il microfono? Secondo me è un'altra cosa, niente a che vedere con le emozioni che provavano gli antichi greci con Eschilo, gli antichi bergamaschi davanti agli zanni di Dario Fo, e i parigini prima della Rivoluzione con Molière e Racine. Niente a che vedere con la battuta rapida che ci fa un amico, magari sul posto di lavoro; o con l'emozione di un bacio, o di un sorriso, dalla persona che amiamo. Anche questo è teatro, ogni giorno recitiamo una parte o cediamo ad essa, e siamo noi stessi Re e Regine, zanni e giullari, servi e padroni. Ma, col microfono davanti, siamo solo un attore amplificato più o meno bene.
(continua)

3 dicembre 2004




venerdì 28 marzo 2008

Giardino di novembre


Henri Fantin-Latour: Fiori d'autunno


Giardino di novembre
(Confessioni di un poeta finto - 2)

di Solimano



Un giorno di maggio, dopo un giustificato NO! nei denti, toccai il minimo, sentite un po’ che roba:

Giardino di novembre
Sotto la pioggia
E’ il mio cuore
Che ride
Calpestato.

Il sole non brilla
Ma brillano dolci
Le lacrime
Sui fiori
Avvizziti.

“Era il maggio odoroso: e tu solevi / così menare il giorno”, disse eternamente Giacomo. Io, il mio maggio, me lo figuravo un novembre cimiteriale, e ne ero pure fiero, me meschino, fra gli effluvi di rose e tigli, a cui non badavo, malgrado il mio naso li sentisse, detti effluvi. A volte, nel peggio, esciva qualcosa di meglio:

Desidera ancora cantare
La luce del sole
La sera.

Cantare melodiosamente
La morte sottile
Dei colori,
Il silenzioso brivido
Del vento
Occidentale,
La gioia solitaria
Della prima stella.

Meglio, nel senso che la morte sottile dei colori non è male, difatti apprezzai subito Monet, quando venne il tempo suo, però cheddé ‘sto vento occidentale? Libeccio o Scirocco? Garbino o Tramontana o Grecale? E chi lo sa, la rosa dei venti io non sapea che fosse, occidentale mi sonava meglio che orientale, e ce lo misi. E la prima stella, stella non era - ignorante pure in astronomia - ma pianeta, non so se Venere o Marte. Il mio primo periodo, quello che ho definitivamente nomato “Dolcezza cogliona” , si chiuse con quattro versi, non di più. Eccoli:

Scendevo solitario per le strade
All’ombra dei palazzi inanimati
Un cuore solo sulla terra, il mio
Scandiva in petto l’ultimo dolore.

A me tuttora l’endecasillabo esce pure al telefono. Tutta colpa di Ugo Foscolo (1778-1827), poeta di cui vi risparmio le traversìe, ed è un peccato, perché era un bel formicolone, altro che dolcezza cogliona. Il suo Carme dei Sepolcri, letto a voce altissima diverse decine di volte, mi infettò in saecula saeculorum. I medici assicurano che non è grave, si può vivere a lungo, ma è imbarazzante rispondere con un endecasillabo alla farmacista che chiede cosa vuoi. Finisce che ti dà un rimario, invece dell’Imidazil o del Fluimucil. Vedete come sono irrecuperabile? Persino i nomi dei farmaci mi sono esciti pronti per essere inseriti in endecasillabi, potevo dire Xanax o Rinogut, invece no. Nei quattro soprastanti versi si esprime una disperazione tanto universale quanto del tutto ingiustificata. Va detto che in quei giorni mi dolevano i piedi per due calli mignoleschi dovuti al fatto che portavo il numero 44 di scarpe. Un giorno decisi che il numero 45 era meglio, anche se mi ballava un po’ il piede, e i calli pian piano si estinsero. Con essi anche la disperazione. Mbah!

Henri Fantin-Latour: Fiori d'estate

mercoledì 26 marzo 2008

L'odore dei libri


Cristofano Allori : Maddalena leggente


L'odore dei libri

di Stefania Mola
(BibliotecadeBabel)




Sanno fare anche questo, i libri. Richiamare alla memoria profumi svaporati e annidati chissà dove tra le pieghe della mente o del cuore, grazie al loro odore. Dire che l’odore dei libri sia un ricordo racconta di intersezioni perdute e poi riemerse, certo, ma all’opposto – anche – che i libri freschi di stampa non lo possiedono più, quasi che la carta, l’inchiostro, la colla abbiano smesso di appartenere alla loro storia e che – se ci sarà una storia – questa sarà tutta da scrivere nel rapporto esclusivo e “fisico” con il lettore.

Sarà per questo che i libri antichi, quelli vecchi e mortificati dalla nostra dimenticanza, quelli amati per una breve stagione e poi mai più riaperti benché riposti con cura in una biblioteca, al pari di quelli continuamente ripassati dal contatto irreversibile con la pelle e dalla traccia delebile della matita, sono intrisi in modo speciale dello spazio e del tempo che hanno attraversato.


Grazie a loro, questo spazio e questo tempo sopravvissuti ad una sorta di selezione naturale diventano la parte migliore di quella vita che ci è sfuggita dalle mani senza aver avuto la possibilità di trattenerne che qualche filo spezzato. Uno spazio e un tempo miracolosamente in bilico sull’orlo di un oblio temuto e scongiurato, pronti a farsi circostanza quasi inverosimile nella quale i libri assumono abitudini, sensi e sentimenti umani, animandosi – all’occorrenza – per rimproverarci della nostra pochezza e compensare la nostra distrazione.

Prefigurando persino scenari inimmaginabili, futuri senza libri nei quali il nome non ha più la cosa cui accompagnarsi. In cui il libro è oggetto irreperibile immaginato come un accumulo di fogli disseminati di segni incomprensibili, e il suo contenuto memoria visionaria tramandata oralmente di padre in figlio. Fino all’isola di Byblos, ultima spiaggia cui si giunge mossi unicamente dal desiderio e dalla quale non si riparte più.


Accade anche questo nelle diciotto fiabe di Mauro Giancaspro, in cui i libri raccontano di essere loro ad adottare gli umani (e non viceversa), di gioire, patire e coltivare la pazienza, di gradire l’attenzione del lettore come una carezza.
Libri che hanno l’odore dolciastro di certi confetti goduti in segretezza durante lunghe notti insonni passate ad assecondare la segreta passione dello scrivere altrimenti soffocata dalle ragioni familiari. Libri dai cui versi poetici possono materializzarsi i protagonisti di una storia triste e romantica, o libri stanchi che improvvisamente si sdraiano sugli scaffali guadagnando lo spazio di un posto lasciato vuoto.

Mentre sulle note dello Schiaccianoci gli oggetti di una cartoleria antiquaria si animano al pari dei giocattoli popolando la scena di calamai, compassi, matite ciarliere e pennini saltellanti pronti a pendere dalle lame di un vecchio tagliacarte d’ottone in vena di ricordi struggenti e senza più libri intonsi tra le cui pagine chiuse inebriarsi della fragranza di carte e inchiostri volando a bassa quota tra le righe della scrittura.


Soprattutto, libri carichi di ricordi d’infanzia, sognati, immaginati, non finiti, non abbastanza ascoltati. Perché ogni tanto non ricordiamo il finale delle fiabe di quei libri che sembrano senza odori, ed altre volte – al contrario – un odore o una fotografia bastano a riportarci indietro in quella casa in cui c’era sempre qualcuno che ci accompagnava verso il sonno con una storia, popolando i nostri sogni di meraviglie. Non di fantasmi, ché quelli nascono solo dalla carta che brucia, né basta ad esorcizzarli il conservare amorevolmente le ceneri di un’amicizia combusta: un barattolo per I promessi sposi, un altro per La Divina commedia o L’Orlando furioso, tutti dormono nel cimitero del libro di una storia intitolata Celsius 232, temperatura non meno fascinosa e devastante di quella in cui si muovono gli uomini-libro di Bradbury, lì dove l’odore dei libri è – davvero – solo un ricordo.

Esistono biblioteche altrettanto deliziose che esalano un odor di cantina, di muffa, di funghi, di muschio, di felci. Libri che odorano d’autunno, altri d’estate. Che profumano di gariga o di sottobosco. Deliziosi ma inquietanti profumi: troppo umidi o troppo secchi. [...] C’è, soprattutto, quel discreto odor di polvere. I libri l’amano e la calamitano. Essa li avvolge e li velluta. Inutile darle la caccia.

Mauro Giancaspro
L’odore dei libri Fiabe e racconti per bibliofili
Grimaldi & C. Editori, Napoli 2007

(lunedì, 17 dicembre 2007)


Su Squilibri

lunedì 24 marzo 2008

IO MENTO


Labirinto del "Forse che sì forse che no" Secolo XVI
Palazzo Ducale, Mantova



IO MENTO

di Nicola
(Mazapegul)





Alcune frasi del linguaggio umano hanno la proprietà di essere vere o false. Tra queste, per esempio, rientra: (1) “Napoleone tentò invano di conquistare l’Alaska” (falsa). Oppure: (2) “questa frase contiene trentasette lettere”[La frase è vera. Esercizio: provate a fare una frase vera che dichiara il proprio numero di lettere, ma che non ne contenga trentasette.] Altre frasi non sono né vere, né false, per tutta una serie di motivi: (3) “Le stelle dell’Orsa non sono poi così vaghe” (troppo vago il concetto espresso), (4) “Vammi a mettere su un caffè” (gli ordini non hanno valore di verità). Altre frasi sono vere per motivi strani: (5) “la seduta del consiglio comunale è aperta” è vera perché la seduta si apre, per l’appunto, nel momento in cui tale frase viene pronunciata e messa a verbale.

Escludendo le frasi capaci di alterare la realtà, come (5), abbiamo che comunque le frasi che possono essere vere o false possono essere assai diverse tra loro. La frase (1) ha a che fare con un’affermazione il cui contenuto può essere verificato indipendentemente dalla frase in sé; la frase (2) esprime una proprietà della frase stessa. Sono queste ultime le frasi che più spesso producono paradossi e vorrei qui intrattenere il lettore curioso con una piccola serie di esempi, più e meno classici.
Per paradosso intendo: una frase che in apparenza è vera O falsa, ma che, a un’ indagine più accurata, attribuire ad essa un valore di verità porta a una contraddizione.

(6) “Questa frase è falsa.”
Ora, se (6) è vera, è falsa. Se è falsa, tertium non datur, dev’ essere vera. Insomma, è vera E falsa allo stesso tempo (vera in quanto falsa, falsa in quanto vera!). Su questo esempio si scervellarono già i greci.

(7) Lamenta un filosofo di Creta: “Tutti i cretesi mentono, sempre.”
Questa si trova in una lettera di S. Paolo. Purtroppo, se il filosofo dice la verità, allora sta mentendo. Se sta mentendo, allora qualche cretese, qualche volta (ma non lui questa volta) dice la verità.
Qui non c’è un paradosso vero e proprio, in apparenza: c’è sempre la possibilità che una situazione reale permetta alla frase di non produrre contraddizioni. Il problema è che pare difficile dedurre una qualche verità dal fatto che, se la negassimo, allora una frase sarebbe paradossale. Per esempio, voi passereste su un ponte di corde al cui ingresso sta un cartello come quello che segue?

(8) “Queste due frasi sono false.
Il ponte di corde è sicuro.”
Ora, se la prima frase è vera, allora è falsa. Quindi, una delle due è vera; ma non si tratta della prima. Insomma, il ponte è davvero sicuro. Eppure, l’istinto ci dice che non si rende un ponte sicuro semplicemente affermando che, se non lo fosse, avremmo una contraddizione logica, soprattutto se vediamo delle corde marce a reggere le assi.

La frase (6) e le varianti che seguno potrebbero forse essere indice del fatto che la nostra logica è troppo restrittiva? La soluzione sta in una logica più “vaga”: vero, falso, né vero né falso? (Dopotutto, abbiamo usato diverse volte la proprietà che una frase dev’essere vera o falsa, senza terze possibilità).

(9) “Questa frase non è vera.”
Se (9) è vera, allora non è vera. Se è falsa, allora non è vera, quindi è vera. Se non è vera, né falsa, allora è vera, allora non è vera. In ogni caso, abbiamo raggiunto una contraddizione.

La conclusione è che, se vogliamo far rientrare queste frasi in quelle accettabili dalla ragione, non basta rinunciare al principio del terzo escluso (una frase è vera o falsa, nessuna terza possibilità), ma dovremmo rinunciare al principio di non contraddizione (una frase non può essere contemporaneamente vera e falsa): un sacrificio assai gravoso per il pensiero occidentale.

Per finire un indovinello.
Nel caffè “Non Contraddizione” diverse persone, tutti perenni mentitori o perenni veritieri, stanno urlando, ciascuna a ogni altra, “Tu menti!”
Quante persone ci sono nel caffè?


P.S. L'immagine sulla destra del testo è tratta da Le livre de portraiture di Villard de Honnecourt, fra il 1225 ed il 1250, conservato presso la Biblothèque Nationale de France, Parigi.

Labirinto con siepi di bosso
Giardino di Palazzo Giusti, Verona

venerdì 21 marzo 2008

Buona Pasqua




Auguri di Buona Pasqua

da

Habanera, Solimano, Roby, Mazapegul, Giuliano



giovedì 20 marzo 2008

Wunderkammer

Roby


Anonimo, Cabinet de curiosités, Opificio delle pietre dure,
Firenze (XVII sec.)


A volte, scartabellando in internet senza parere, magari durante la pausa-pranzo (sul lavoro) o la pausa-figlia (a casa, quando la pargola lascia libero il pc), si scoprono curiosità insospettate, piccoli gioielli capaci di sorprenderti e -grazie al senso di stupore che ispirano- di riconciliarti con la vita e perfino con il mondo esterno. Io, fino a poche settimane fa, non sapevo neppure dell'esistenza del termine wunderkammer, corrispondente al francese cabinet de curiosités, che designava, tra il XVII e il XVIII secolo, una sorta di "vetrina delle meraviglie" per collezionisti, amatori d'arte e tipi eccentrici, oltrechè piuttosto danarosi.

J. Zoffany, La tribuna degli Uffizi (1772)


Certo, conoscevo bene la tribuna degli Uffizi, ritratta da Zoffany alla fine del '700, ma non l'avevo mai considerata sotto l'aspetto di concentrato di capolavori, come in effetti è: anche perchè, attualmente, si presenta molto meno affollata e molto meno artisticamente disordinata di come il pittore ce la propone. Il disordine artistico, a suo modo armonioso, mi pare una caratteristica comune a tutte le wunderkammer che -nell'entusiasmo della ricerca- sono riuscita a reperire in rete. E' in esse che si cela in nuce il primo embrione di quello che sarà il museo moderno, cioè il luogo in cui vari oggetti atti a destare meravigliata ammirazione sono esposti al godimento del pubblico.

Anonimo (XVII sec.)


Pubblico in origine limitato ai padroni della casa che conteneva la kammer, o il cabinet, accompagnati tutt'al più da parenti e amici, ai quali era concesso il piacere di osservare (e forse persino di toccare) le curiosités appese, incorniciate, sovrapposte o collocate sottovetro, secondo una logica non sempre individuabile, ma di solito suddivise tra naturalia e artificialia, distinguendo le opere dell'ingegno umano da quelle trovate in natura: le une e le altre comunque tanto particolari da essere definite in generale mirabilia. E chissà con quale orgoglio Monsieur Bonnier de La Mosson doveva aprire alla cerchia dei propri conoscenti i vertiginosi scaffali del suo studio privato, traboccanti dei più rari reperti, dei più preziosi minerali, dei più repellenti (e appunto perciò più affascinanti) esemplari di animali impagliati, imbalsamati o conservati in formalina.

J. de Lajoue, Le cabinet de Bonnier de La Mosson (1734)


Più tranquilla e rassicurante, pur nella sua magnificenza, la galleria dell'arciduca Leopoldo Guglielmo raffigurata da Tenier, in cui sono ammessi anche i cani, a ricordarci che la fedeltà è tra le virtù più apprezzate dai potenti di ogni epoca. Tra le decine di dipinti di tutte le dimensioni e dei più vari soggetti c'è da farsi venire il capogiro, che si trasforma in mal di mare se si pensa a quanto dovesse costare -in tempo e fatica- la pulizia di una sala del genere. Come arrivare a quell'ultimo quadro lassù, al sommo della parete verticale, senza rischiare di danneggiare i sottostanti? Un mistero nella soluzione del quale mi trastullo, mentre passo velocemente il modernissimo panno Swiffer cattura-polvere sulle quattro stampe che adornano il mio minuscolo soggiorno con angolo-cottura.

D. Tenier, La galleria dell'arciduca Leopoldo Guglielmo a Bruxelles


A coronamento di questa specie di divertissement barocco, due immagini di wunderkammer siciliane, scovate in rete su siti diversi ed in un primo tempo ritenute identiche: salvo poi accorgermi -come in un vecchio gioco della Settimana Enigmistica- dei mille piccoli particolari diversi, secondo uno schema che non saprei dire se voluto o casuale. Sono però certa che nelle pieghe più riposte del mio essere esiste una spiccata predisposizione al cabinet delle meraviglie, estroso e quasi capriccioso accostamento di pezzi unici delle più varie provenienze. Ne sono la prova i ripiani della mia libreria casalinga, assolutamente non paragonabili per dimensioni a quelli di Bonnier de La Mosson, ma come -e forse più!- di quelli straripanti di ogni ben di dio: dal vecchio biglietto del Metro parigino (souvenir delle passate vacanze) al calzascarpe d'osso che apparteneva a mio padre, dal portapenna a forma di pesce regalatomi per il Natale del 1965 alla foto incorniciata di mia figlia a tre mesi... il tutto in un caleidoscopio di forme, colori, memorie e ricordi da fare invidia ai più accaniti e spregiudicati collezionisti del secolo Decimottavo.


Wunderkammer siciliana, XVII sec.,
Palermo, Galleria regionale della Sicilia (particolari)


mercoledì 19 marzo 2008

Lontana rondine sei


Carlo Crivelli: Madonna della rondine (part) c.1491
National Gallery, Londra


Lontana rondine sei
(Confessioni di un poeta finto - 1)

di Solimano



Limpido sguardo amato
Estenuante
Come ansia lunga
Il cuore te cerca
Invano.

Lontana rondine sei
Lietamente
Di là del mare fuggita
Nell’aria serena volando
Felice.

Dietro questi dieci versicoli di dolcezza cogliona campò per tre anni la mia ingiustificata autostima di adolescente che non sapea guardar negli occhi le compagne di classe, le quali se n’erano accorte dopo 10 minuti, e perciò stesso mi guardavano negli occhi, le maliarde! I dieci versicoli non li raccontavo a nessuno, erano il mio consolatorio segreto, e persistetti:

Nella valle notturna
Colma
Di suoni minuti
E di silenzi dolci,
Canta
L’usignolo.

Sui fiori del mandorlo
Da poco sbocciati
Risplende
La sua voce
Luminosa.

Ma chi l’avea sentito mai, desso rosignuolo? Una volta sì lo sentii, anni dopo, e me la presi perché non mi lasciò dormire. A non parlar dei mandorli, che non so tuttora dove sorgano e come crescano, i loro fiori poi men che meno: esistono? Di che colore sono? Mbah! Eppoi, quale minuteria di suoni, passavano i treni, vicino al casello ferroviario e i silenzi diurni e notturni erano visitati da vespe perigliose e voracissime zanzare, altro che dolci. Gaglioffe prodezze seguirono, c’è un tempo per ogni cosa.


Usignolo (Luscinia megarhynchos)

lunedì 17 marzo 2008

Radici e Tradizioni d'Italia


Pisanello: Sant'Antonio Abate e San Giorgio 1445
Londra, National Gallery



Radici e Tradizioni d'Italia

di Giuliano




Una voce alla Frank Sinatra; anzi, forse è proprio la sua:
- oooh, jingle bells, jingle bells, jingle all the way...
Con molto swing, naturalmente: che non è mica un Natale qualsiasi, è roba da raffinati.
Non è la radio, e nemmeno un disco in casa di amici: è la strada principale del mio paese, il "salotto buono", cento metri scarsi e un po' deperiti che rappresentano per noi quello che Corso Vittorio Emanuele è per Milano. La giunta e la ProLoco (ebbene sì, abbiamo una ProLoco: come Rimini e come Sanremo) hanno deciso che mettere altoparlanti e filodiffusione per la strada è un'eccellente idea. Così, la strada è piena di "musiche natalizie" appositamente scelte: e sembra di essere all'ipermercato, ma pazienza. Vuol dire che girerò al largo, tanto non ho niente da fare qui e casa mia è abbastanza lontana.
Quella stessa sera, a Gerry Scotti mettono davanti il nome di Sciostakovic. Non sa proprio leggerlo, non se ne capacita, di quel nome così ostico; balbetta qualcosa, brontola un "macomesifà" rivolto agli autori, e poi esce dall'imbarazzo, radioso, con il nome di un calciatore: prendendosi un bell'applauso. Intendiamoci: Gerry Scotti a me non dispiace, meglio lui di quasi tutti gli altri personaggi tv. Però anche questo è un bel segnale, perciò mi fermo e ci ragiono un po' sopra. Dimitri Sciostakovic è uno dei grandi del '900, e ha scritto musiche straordinarie e struggenti. Anche se non è famoso come Stravinskij, e non ha scritto Pierino e il lupo come Prokofiev, forse i fans di Nicole Kidman si ricordano di quel suo valzer che apriva "Eyes wide shut". Beh, ovvio che non siamo enciclopedie viventi e non possiamo arrivare dappertutto, ma mi sembra strano che il nome di Sciostakovic non sia mai giunto alle orecchie di un uomo di spettacolo di 48 anni che conduce un programma quasi culturale. Comunque, in questi casi, quando non capiamo un nome o una parola, andiamo a cercare nella nostra memoria qualcosa che gli somigli: è normale, naturale, lo facciamo tutti. E quindi Scotti va a pescare nel campo naturale delle sue competenze: l'album delle figurine dei calciatori, dove oggi c'è un certo Stankovic (gioca nell'Inter). Di seguito, non si accorge di uno svarione dei suoi autori su Sant'Antonio ed è una concorrente a farlo notare (Antonio Abate, fondatore del monachesimo cristiano, visse quasi mille anni prima del frate francescano Antonio da Padova); e, prima della fine della puntata del telequiz, trova il tempo per un'elegia interminabile su un pilota di Formula Uno morto qualche anno prima. Aggiungiamoci il fatto che Scotti nasce alla radio (commerciale) come dj, e quindi sa tutto sulle canzonette e sui personaggi tv, ed ecco il ritratto perfetto e completo dell'Italia del Nuovo Millennio. Voi pensavate che le nostre radici fossero Giotto, Michelangelo, Dante, Petrarca, Verdi e Manzoni? Tutto sbagliato, e basta poco per accorgersene. Del resto, non è una mia invenzione il Ministro della Repubblica (si chiama Gasparri) che si duole del non avere Mike Bongiorno in Parlamento come senatore a vita: e invece è successo la settimana scorsa.
Quarant'anni fa, o forse anche un po' di più, Umberto Eco scriveva il famoso saggio intitolato "fenomenologia di Mike Bongiorno"; oggi bisognerebbe scrivere di Gerry Scotti, che è perfetto per rappresentare il nostro background odierno. Noi italiani del 2004 sappiamo tutto del Festival di Sanremo, del Milan e della Ferrari, e magari anche dei film pornografici; ma la cultura, suvvìa, la cultura... E' una cosa così noiosa, figuriamoci. La cultura, sì, è importante, certo che è importante, ma vuoi mettere, eh? E via con una bella smorfia, su quel faccione simpatico; e poi la Pubblicità, come è giusto che sia. E che cosa mi dà la Pubblicità, oggi che siamo sotto Natale? Ma è ovvio, jingle bells: e in versione (quasi) rap; e di seguito mi si dice che la nutella è la Tradizione®, e anche questo è giusto, anzi ovvio. Grazie alla pubblicità, e da molto tempo, per i bambini italiani Babbo Natale è il vero Simbolo Cristiano, avendo sconfitto clamorosamente sia Gesù Bambino che tutte le altre nostre antiche tradizioni natalizie. Ma veramente, dico: mica vorrai ascoltare in strada "Tu scendi dalle stelle", che l'ha scritta un Santo Cristiano ma è una palla mortale, oppure tornare ai tuoi bei tempi che alla Befana ti regalavano una calza con dentro i mandarini e le spagnolette? No, vero? E allora, via: tutti insieme, un due tre: jingle bells, jingle bells...

"Eyes wide shut" di Stanley Kubrick (1999)

-Da un rapporto recente della FAO, sono milioni i bambini che rischiano ogni giorno di morire per denutrizione. Come questo bambino che vedete nelle nostre immagini e che domani, senza un aiuto, potrebbe non essere già più vivo.

- Meglio, che se no diventa grande e poi viene su anche lui qui da noi.

Vi siete scandalizzati? Io no, perché ci sono abituato. Questi discorsi li sento da quarant'anni, cioè da sempre. Magari li sentivo a proposito dei napoletani, ma la sostanza non cambia. Così come sono sempre esistiti i progettisti del Muro, quello che avrebbe dovuto fermare l'invasione: chi lo voleva a Firenze, chi appena di qua dal Po; e facevano quasi simpatia quelli che inneggiavano all'Etna distruttore della Sicilia, o magari ad un bel terremoto che dividesse l'Italia in due, possibilmente con tante vittime dall'altra parte. E, infine (ma questa è roba recente), che quelle barche lì andrebbero affondate a colpi di cannone, e poi sparare sui superstiti.
Beh, insomma, niente male per un Paese cristiano. E' esattamente questo che dice Gesù nel Vangelo, se non sbaglio: di prendere gli stranieri extracomunitari e di buttarli fuori a calcioni. E con queste esatte parole, se non ricordo male.
Non so quale sia la vostra soglia di sensibilità, ma io non mi scandalizzo più da tanto tempo. Gente ignorante, mi dicevo; spesso, parole di ubriachi al bar. Quello che mi preoccupa, invece, è che oggi, Anno Domini 2004, gli ubriachi da bar sono in Parlamento, e anzi alcuni di loro sono Ministri della Repubblica. E' il progresso, credo: o, almeno, così mi dicono in televisione: e la televisione, si sa, ti mostra i fatti. Mica si possono inventare, i fatti; e poi, di estracomunitari sono piene le nostre strade e le nostre piazze. Vieni giù, che ti faccio vedere. Vieni, vieni a fare un giro e a vedere che cosa hanno combinato, qui sotto...

"The tracker" di Rolf de Heer (2002)

Sfoglio il giornale della tv e vedo che danno in tv un film che due anni fa ero andato a vedere al cinema. Bene, penso, così me lo rivedo con calma. Ma poi controllo l'orario: alle 2:45 (di notte), naturalmente su Retequattro. E' un film in prima visione, e anche abbastanza spettacolare: non dico da prima serata, ma insomma... E invece no, i nostri piccoli censori di mediaset si sono mossi per tempo e lo hanno nascosto con cura, che non si veda troppo in giro, questo film che ha per protagonista un negro (pardon: un aborigeno australiano), ma che non è un negro che fa ridere come Eddy Murphy, e dove il cattivo è un leghista bianco (pardon, uno sceriffo australiano).
Il film è "The tracker" di Rolf de Heer, se può interessare; ma non è importante che sia questo film oppure un altro. A me viene in mente Zdanov, che era un potente ministro di Stalin. Stalin era un tipo singolare, era appassionato d'arte e anche competente. Si era messo in testa di indirizzare anche cinema, musica, letteratura, arti visive: e Zdanov era il suo strumento in questo campo. Penso a Bulgakov e a Sciostakovic, due dei più grandi talenti del secolo scorso: Stalin un po' li coccolava, e un po' li minacciava. "Ma perché scrivi queste cose", diceva sorridendo; e lo scrittore e il musicista prendevano una gran paura..
Berlusconi assomiglia a Stalin. Come Stalin, Berlusconi accoglie, accarezza, blandisce, minaccia. I suoi Zdanov sono tanti, piccoli potenti e terribili; sono seduti alle poltrone dirigenziali di radio e televisioni, ma anche di cinema e giornali. Lavorano bene, e sanno dove colpire. Non è tanto una censura politica diretta, ma qualcosa di più subdolo: guai a chi pecca di intellettualismo! Il popolo non le capisce, le cose difficili. E poi bisogna essere positivi, allegri, ottimisti; e fare in modo che gli inserzionisti (che portano i soldi, e perciò comandano) comprino gli spazi pubblicitari. Il popolo va educato, mica si può fargli vedere, leggere e ascoltare di tutto; c'è chi vede in anteprima i film pericolosi, ascolta le musiche troppo complicate per il popolo, i romanzi troppo complessi, eccetera. Si apprezza la buona musica, è ovvio: ma la si trasmette alle 9 del mattino, oppure a mezzanotte. I piccoli Zdanov vedono e decidono; se è il caso, epurano. E, se un artista è davvero simpatico al Capo, magari gli organizzano un incontro e gli danno un piccolo spazio dove esprimersi. Meno male: in Italia non c'è abbastanza spazio per una Siberia, i gulag non sono ancora tornati di moda, e i pochi posti isolati da tutto, dove una volta si mandavano al confino i dissidenti, oggi sono mete turistiche ben collegate. Berlusconi non somiglia a Mussolini, somiglia proprio a Stalin: ed anche questa, se si vuole, può essere una piccola delusione italiana; o forse, invece, un bel passo in avanti. Berlusconi è molto più efficiente di Mussolini, meno grossolano e più amichevole, ma anche molto più duro e spietato.
A proposito, Dimitri Sciostakovic era un grande appassionato di calcio: correvano gli anni '30, ed era tifoso della Dinamo di Leningrado. Seguiva la sua squadra anche in trasferta, ed erano ovviamente trasferte lunghissime e faticose: Odessa, Tbilisi, Mosca, Kiev, Baku... I giocatori più forti erano due fratelli, Piotr e Nikolaj Dementiev. Nel catalogo delle sue opere ci sono anche musiche scritte pensando alla sua squadra del cuore: un balletto, e musica da film. Chissà se esiste ancora, la Dinamo di Leningrado, e come si chiama oggi. E chissà che colori avevano le sue maglie...

15-18 dicembre 2004


Illustrazione russa de Il Maestro e Margherita


sabato 15 marzo 2008

babbo


Anthony Van Dyck: Ritratto di vecchio



babbo

di Remo Bassini





Arriva mio padre a casa mia. Come al solito: saluta con un gesto della testa.
Adora il mio cane, lui. E il mio cane stravede per lui. Tutti i cani che ho avuto stravedono per mio padre.
Mi fa: Allora, il cane?
Gli faccio: Non so, visto che sei venuto scegli tu se portarlo in giro, per me è lo stesso.
Mi fa: Come è lo stesso?
Gli faccio: Babbo è lo stesso, se vuoi lo porti fuori tu, altrimenti vado io.
Mi fa: Lo porti fuori tu?
Gli faccio: Per me è lo stesso, visto che sei venuto fin qua, ma se hai da fare…
Silenzio.
Lunga pausa.
Non ha mai fretta, lui.
Mi fa: Tu porta in giro il cane che io torno a casa e porto in giro la tu’ mamma.

Mio padre, ancora.
Sta, stiamo mangiando. La forchetta pare inceppata nel vuoto. Lui sgrana gli occhi e fa dei cenni impercettibili col capo, fissando il vuoto.
Dice: Metti…
Pausa, ha detto metti e la forchetta è sempre ferma, immobile, come i suoi occhi, nel vuoto
Continua a dire: Metti che mi nasceva un figlio gay…
Smorfia.
Pausa. Lunghissima.
Poi, finalmente. Boccone di pasta alla carbonara ma sempre fissando il vuoto.
Mastica, sempre guardando il vuoto.
Riprende a dire: Metti che mi nasceva un figlio gay…
Pausa, non lunga.
Mi guarda e dice: Oh, lo tenevo.
Bene. Si può procedere.

Classe 1927 ha fatto la terza elementare, andando a scuola un giorno sì e uno no. In quello no andava, coi suoi fratelli e suo padre, a fare il carbone.
La quinta elementare l’ha presa quando ha fatto il militare. Legge i giornali. I miei libri li ha sul comodino: ma non so se li abbia letti. Credo di no.
Non dice a nessuno che suo figlio è un giornalista, ha scritto libri. Dice che non so potare una pianta, non so cambiare l’olio alla macchina, non so aggiustare una tapparella, non capisco niente di impianti elettrici; dice che somiglio a suo padre, che non si faceva mai la barba, che non metteva mai il vestito della festa, e che era un po’ pazzo. E disordinato. So che di questo è orgoglioso, però.
(Dimenticavo: Quando ero piccolo, non mi ha mai dato un ceffone).


(Giovedì 19 Aprile 2007)




Da Ricordi (ma non solo...) su Appunti

giovedì 13 marzo 2008

La corsa all'alba a Villa Borghese


Villa Borghese



La corsa all'alba a Villa Borghese

di Massimo Marnetto





Sono le 5 e un quarto di mattina (di notte?).Torno dall'aeroporto, dopo aver accompagnato mia figlia, per strade irriconoscibili per quanto sono vuote di auto e calve di pedoni. Entro in casa cercando di non svegliare nessuno, doso la rotazione della chiave per accompagnare il rilascio della serratura. Mi muovo felpato, faccio la pipì come le donne, ma non mi va di tornare a letto. Ho deciso: vado a correre a Villa Borghese. Arrivo in punta di piedi nello stanzino per prendere la roba per correre e nel corridoio incrocio lo sguardo perplesso della cana (sì cana, cagna mi sembra brutto), che mi segue con le sole pupille (troppo assonnata per alzare la testa).
Scendo in strada. E' ancora notte, l'aria è fresca, non fredda. Corro sempre partendo da casa e attraverso subito Piazza dei Quiriti, con la sua fontana dove da bambino ho scoperto che i sassi della ghiaia affondano e le barchette galleggiano, ma poi si allontanano, si fanno attirare dal getto e muoiono come delle stupide.
I lampioni sono ancora accesi e danno un rinforzo di giallo ai piccoli alberi di Via Pompeo Magno, già biondi d'autunno. Sento i miei passi, regolari, mentre attraverso i villini del primo novecento, che i “benestanti” si costruivano al di là del Tevere, oltre il Vaticano, nella nuova zona dove c'erano i prati (e ancora oggi il quartiere si chiama Prati).

Panorama dal Pincio


Il battito è regolare, ho “rotto il fiato” e adesso il passo è “rotondo”. Lascio andare le gambe e sono già alla fine del ponte, un breve rettilineo, scendo dalla rampa e arrivo a Piazza del Popolo.
In questa quiete antelucana la sua bellezza arriva calma, ma solida e armonica. Un vuoto voluto non fuori, ma dentro la Porta del Popolo, per stupire i visitatori con il suo spazio, per colpirli con la potente verticalità dell'obelisco centrale, l'acqua abbondante delle fontane e la fuga prospettica delle tre vie – il “tridente” – che s'infilano nel centro come spiedi.
Attacco la rampa che porta al Pincio: è lo strappo più duro, rallento il passo e saltello sulle scale, mentre a sinistra mi lascio il Collegio Agostiniano dove dimorò Martin Lutero fino a scappare scandalizzato dalla corruzione della corte papale.
Poco più in là, c'è Santa Maria del Popolo, famosa per i suoi Caravaggio, dove i miei ci portavano spesso a messa la domenica, ma io non riuscivo a stare calmo perché ero terrorizzato dal teschio di marmo che si affaccia da una nicchia della parete, da dietro una grata nera. Me lo sono sognato un sacco di notti, accidenti a lui e al nobile che si è fatto fare una tomba così tetra!
Arrivato alla terrazza del Pincio, faccio una pausa per smaltire la micidiale fatica della salita e riprendo fiato bevendo con gli occhi un panorama di Roma in bilico tra notte e giorno. Calmato il battito, riprendo la corsa verso il Viale delle Magnolie e passo in rassegna tutti i “ragazzi” del Risorgimento, tutti allineati in un filare di candidi busti, con l'espressione impetuosa a stento trattenuta nel marmo, i loro nasi, i loro nomi.

Piazza di Siena


Allungo un po' e taglio per Piazza di Siena, dove ogni anno fanno il Concorso ippico più esclusivo di Roma, proprio in quello che fino al '700 era il Campo Malo, il luogo dove venivano sepolte le prostitute. Ci sono angoli ovunque che mi ricordano le ragazze che ci ho portato. La panchina dove lei mi ha detto che… non voleva rovinare la nostra bella amicizia e chi si era fatto tardi… quella dove l'ho baciata, ma non è durata…il viale dove con i miei amici abbiamo attaccato bottone con un gruppo di francesine in gita scolastica, quando non siamo andati a scuola…
Sono ormai zuppo di sudore, ma senza sofferenza. Passo davanti al monumento dell'alpino e del mulo e non posso fare a meno, neanche stavolta, di provare tenerezza e gratitudine per quell'animale tenace e utile, non come la mia cana, che divora scatolette e mi giudica sempre con sufficienza. Il cielo si è po' schiarito, ma le nuvole lo tengono ancora chiuso. Oltrepasso la copia perfetta del teatro shakespeariano realizzato tutto in legno e senza sedili, dove si assiste in piedi allo spettacolo.
Suonano le prime campane, Roma si sveglia e si stira come una gatta. Adesso fare il ritorno in discesa è quasi un piacere. Si spengono i lampioni. E' giorno.
(8 gennaio 2005)

Sul Pincio


Su Arengario: I bei momenti

martedì 11 marzo 2008

A cena con Anna Karenina


Greta Garbo, Fredric March, May Robson in Anna Karenina
(Clarence Brown, 1935)


A cena con Anna Karenina - Gloria Goldreich

di Gabriella Alù


Ho letto da qualche parte che questo romanzo potrebbe essere ribattezzato "Books and the city" ed in qualche modo è vero. Siamo a New York, a Manhattan, e le protagoniste sono sei donne. Sei amiche molto diverse tra loro ma unite da una grande passione che ciascuna coltiva sin dall'infanzia: la lettura.
A turno, scelgono un libro ed un autore (spesso un'autrice) e si riuniscono a casa di una di loro per discuterne a fondo. Per farlo si preparano minuziosamente, e nonostante siano tutte professioniste molto impegnate (alcune anche con marito e figli) e con pochissimo tempo libero a disposizione leggono biografie, saggi, tutto quello che riescono a trovare sul testo prescelto. Assistiamo così alle loro discussioni su Tolstoj ed Anna Karenina --ovviamente -- su Emma Bovary e Flaubert, Edith Warthon e Shirley Jackson, Sylvia Plath...

L' analisi di critica letteraria serve anche, a ciascuna, per conoscere meglio sè stessa e le amiche. Perchè "il loro non era un gruppo di lettura come gli altri, perchè loro non erano lettrici come le altre. Avevano avuto altre eseprienze di gruppi letterari, ascoltando commenti superficiali, pseudoanalisi, parole buttate lì solo per dimostrare [...] superiorità intellettuale. [...] Erano loro ad essere diverse. La letteratura era la loro passione, ogni libro che discutevano rappresentava una sfida per il cuore e per la mente, ogni incontro una celebrazione di idee. La loro amicizia, l'intimità, erano radicate in quella passione condivisa, inespressa ma tacitamente riconosciuta. Discutendo i libri, si rivelavano l'una all'altra, palesando i propri sogni, le più recondite paure, le più rosee speranze. Come adesso, immerse nella vita di Emma Bovary. Che non commiseravano nè ammiravano" (p.52)

Isabelle Huppert in Madame Bovary
(Claude Chabrol, 1991)


Ma i libri non rappresentano, dentro questo romanzo, solo oggetti transazionali o una sorta di test proiettivi. La bravura della Goldreich consiste proprio nel saper dosare sapientemente, riportando le discussioni del gruppo, gli elementi che riguardano l'analisi letteraria vera e propria e quelli che costituiscono le proiezioni e le identificazioni delle sei amiche. Che sono donne intelligenti e perfettamente consapevoli di questo meccanismo.

Le discussioni avvengono dopo la cena -- preparata con cura dalla padrona di casa di turno e consumata con gran gusto -- con caffè e pasticcini a portata di mano, comodamente sedute in ampie poltrone o accoccolate sui tappeti ma con le cartelle rigonfie di libri e di quaderni d'appunti, intrecciando discussione letteraria e vicende personali.

Sue Lyon, James Mason in Lolita
(Stanley Kubrick, 1962)


Ed arrivati a questo punto non facciamo a tempo a pensare: "Ma toh, guarda, è la stessa situazione descritta da Azar Nafisi in "Leggere Lolita a Teheran" che quest'idea viene in mente anche a loro: "Riordinarono tutte insieme i piatti, impilando i cuscini in un angolo, d'accordo sul fatto che il prossimo incontro si sarebbe svolto in casa di Trish alla fine di gennaio e [...] scelsero un testo relativamente recente, Leggere Lolita a Teheran, di Azar Nafisi [...] avevano idealmente adottato il gruppo di lettura iraniano, dichiarando quelle lontane lettrici le loro sorelle intellettuali.
"Proviamo a leggere anche Lolita di Nabokov", disse Trish.
E poi scriviamo la seconda parte: Leggere Lolita a Manhattan, aggiunse caustica Elizabeth, provocando l'ilarità generale"
(p.145)

"A cena con Anna Karenina" è un libro sull'amicizia e sulla passione per la lettura colto e raffinato, spesso anche commovente. Una lettura gradevolissima ma assolutamente non banale.

Gloria Goldreich è una studiosa di storia ebraica, saggista, autrice di narrativa per ragazzi. Questo "A cena con Anna Karenina" è il suo terzo romanzo, con "Leah's Journey" ha vinto il "National Jewish Book Award of Fiction". Sposata con un avvocato, madre e nonna, vive a Tuckahoe, New York.
(sabato, 03 marzo 2007)

Gloria Goldreich (in inglese)

Il libro


Azar Nafisi


Da NonSoloProust

domenica 9 marzo 2008

29 febbraio – Un’avventura

Georg Friedrich Kersting: Man reading by lamplight


29 febbraio – Un’avventura

di Emilio Gauna (Giuliano)



Il Poeta è chiuso nella sua stanza, comodamente seduto in poltrona, immerso nella lettura di un libro che trabocca di grecità. Un libro con tante figure, di quelli belli: l’indovinello della sfinge, la storia della fenice, “phoenix migratoria” (?). D’improvviso, dalla radio accesa, qualcuno pronuncia la parola “ossimoro”: ma è la pronuncia giusta? D’improvviso, il Poeta (il Sublime Poeta) non si ricorda più la pronuncia esatta di quella parola, oscilla fra le sdrucciole, pensa che è tardi, che queste cose non si ricordano mai quando serve, che è inutile controllare, che si sta facendo buio e che è ora di smettere di leggere.
E’ un 29 febbraio, ma non saprei dire quale: di certo, uno con la luna piena – forse il 29 febbraio dell’anno scorso.


21.
CAPRICCI


1. sbaglio d'accento tonico
Con un frequente ossìmoro
dico che la Fenice
che è già bruciata e muore
rinasce a nuova vita
sempre con gran dolore.
Colei che s'allontana
dalla mia (sua) vita e muore
colei che poi rinasce
e sempre è nel mio cuore
L'ossìmoro frequente
pensiero che si sdipana
Cloto che fila la lana
Atropo che il filo chiude
Làchesi che già lavora
Ecco il frequente ossìmoro
chi nasce c'è e chi muore.

Marco Bigio (Siena, notizie intorno al 1541) - Le tre Parche


2. ritorno all'ordine
La chiara oscurità d'un ossimòro
a poco a poco porta a me ristoro
tutti i tristi pensieri che ho rimosso
mi sto scrollando via man man di dosso.
Ma di dormire ormai il momento è giunto
ripongo il libro scrollo un po' le membra
pare sia tardi però a me non sembra
il lume che era acceso lascio spento.
A luce spenta ai miei pensieri intento
col chiaro della Luna sol mi oriento
c'è poca luce ma son già a buon punto
Passa una nube e l'astro là m'oscura
procedere si può però con cura
mi tocca stare qui, fare il funambolo

La spigolosa ottusità d'un tavolo
ferisce e lacera il menisco e scivolo
e nel contempo va a cadere il mobile
ma non lo specchio, ch'io mi alzo e vigilo.
Ed è una cosa che ha dell'incredibile
salvo è lo specchio e quasi pure il tavolo
il mio ginocchio duole ma non sanguina
ma ho fatto un gran baccano con quel tavolo.
E adesso sono qui in pigiama e strepito
che tutto questo no non è possibile
avevo sonno e sono qui che m'agito.
Rimetto al posto lor lo specchio e il tavolo
e nel mio letto poi pian piano scivolo
in questa oscura bianchezza del cavolo.


22.
BIS (sestine)

i.
Non so se dire nàrvalo o narvàlo
non so neppure dove vive lo snualo
non so se vive o non vive il nagualo
e se s'arrampica o se vive al suolo
ma quel che so è che non ve n'è d'ugualo
che il cuor m'opprime e che provoca il duolo.
ii.
Ho poi fatto una ricerca sul mio nàrvalo
ho il risultato ma non so se dirvelo;
snark is the shark as he lives in Carroll,
it was a phantom with a name of animal;
e quanto a Castaneda e al mito del nagual,
no non ve n'è, no non ve n'è d'ugual.

(dall’Opera Omnia di Emilio Gauna, 32 volumi, 12714 pagine, editore Orbis Tertius, Tlön-Uqbar, Carnevale del 1927)



Il riposo del Poeta

giovedì 6 marzo 2008

L'Orto Botanico di Bologna


Giardino anteriore (ingresso)


L'Orto Botanico di Bologna

di Nicola Arcozzi



Ci sono tanti luoghi dove iniziare o finire una visita di Bologna, ma pochi in cui fermarsi a tirare il fiato, sedersi e rimettere mentalmente ordine alle cose già viste e a quelle ancora da vedere. Uno di questi rari luoghi, interessante in sé, è l'Orto Botanico, situato lungo un tratto ancora integro delle mura appena a Ovest di Porta San Donato. L'orto botanico bolognese, uno dei primi d'Europa, sta all'incrocio di diverse storie. Sta al confine tra il mondo protoscientifico, ma pieno di curiosità e apertura del rinascimento, e la rivoluzione scientifica barocca. Sta nel punto medio accademico tra Padova e Pisa, che precedettero Bologna nel dotarsi di orti botanici. Si situa tra botanica e farmacologia, all'incrocio tra la farmacopea colta e accademica e l'uso medico delle erbe nelle famiglie contadine.

Specialità medicinali e aromatiche


Il pezzo di città chiuso tra Porta San Donato, Porta Mascarella e la moderna Via Irnerio fu sino a tempi abbastanza recenti parte del terreno tenuto a campagna entro le mura cittadine, la "cercla" del XIII secolo.
Le uniche sopravvivenze degli "orti bolognesi" sono costituite, appunto, dall'Orto Botanico e dall'adiacente prato che circonda la bella palazzina della Viola, costruita nel 1497 per il riposo e le delizie di Annibale Bentivoglio, ultimo e tenace esponente della breve signoria bolognese, e ora utilizzato dall'università.
La palazzina della Viola, pianta quadrata e tetto poco spiovente a quattro acque, ha un aspetto decisamente emiliano, ma, rispetto alla gran parte degli edifici bolognesi, contiene elementi di leggerezza toscana abbastanza peculiari qui a Bologna, dove l'architettura ha quasi sempre un che di "grosso". Le colonne del portico sono sottili e gli archi, tranne i due ai lati dell'edificio, sono perfetti semicerchi.

La palazzina della Viola


A Bologna, in genere, i portici sono retti da pesanti colonne in mattone, dall'aspetto poco proporzionato, e le uniche eccezioni che mi vengono in mente sono l'elegante portico di S. Giacomo Maggiore (altro luogo importante della Bologna bentivolesca) e, soprattutto, quello di S. Maria dei Servi. Al primo piano della palazzina, ora chiuso da vetrate, c'è un altro portico, simile in spirito a quello che, in contesto architettonico più bolognese, ma raffinatissimo, si trova nel cortile del Palazzo Bentivoglio in Via Belle Arti. (Non si tratta del palazzo del ramo governante della famiglia, che fu demolito nel 1507, un anno dopo la conquista di Bologna da parte di Giulio II, papa e comandante militare, le cui macerie formano una collinetta, oggi adibita a parco, in una traversa di Via Belle Arti significativamente chiamata Via del Guasto).

Giardino posteriore


La prima idea di realizzare un orto botanico per l'ateneo bolognese fu di Luca Ghini, imolese di nascita e professore di "Lectura simplicium" (i "semplici" erano le piante medicinali, opposte alle preparazioni complesse in cui più elementi attivi venivano trattati e miscelati), ma l'università tirò per le lunghe, così Ghini si trasferì a Pisa dove, nel 1544, fondò il primo orto botanico universitario d'Europa. Allo stesso tempo si mosse Padova, mentre la Bologna papale, più sonnacchiosa delle università dei Medici e della Serenissima, attese ancora vent'anni prima di affidare a Ulisse Aldrovandi la realizzazione di un Orto dei Semplici. Aldrovandi era un naturalista dagli interessi onnivori e un collezionista di tutto ciò che avesse a che fare con la natura. La sua collezione più importante era un erbario con migliaia di piante essiccate secondo procedure d'avanguardia, che furono a lungo motivo di pellegrinaggio a Bologna per i naturalisti di tutta Europa. Nel 1568 poté realizzare il suo orto dei semplici, suo malgrado nella sede angusta di un cortile del Palazzo Pubblico di Piazza Maggiore. L'orto aveva scopi di insegnamento e ricerca, e doveva insegnare ai medici a riconoscere le piante medicinali "autentiche", poiché all'epoca molti fornitori approfittavano dell'ignoranza dei dottori per vender loro erbacce comuni invece di "semplici".

Serra delle succulente


Ulisse Aldrovandi, di cui ricorrono quest'anno i quattro secoli dalla morte, fu uno dei più tipici esempi di scienziati rinascimentali, si interessò a tutto e pubblicò infiniti libri e saggi. Il suo spirito avventuroso (scappò di casa per la prima volta a dodici anni e andò a Roma) e il suo rinascimentale stupefacimento di fronte alle possibilità della libera ricerca lo portarono, come tanti altri filosofi del Cinquecento, a occuparsi della natura con rigore metodologico, alle volte, (l'orto botanico, l'erbario, le collezioni naturalistiche) e con apparente candore, delle altre (le sue ricerche sui "mostri", pubblicate postume col titolo Monstrorum Historia). Per gli i filosofi naturali del Cinquecento l'indagine scientifica era un'attività "totale", rivolta a tutta la natura (Aldrovandi era logico, medico, naturalista, oltreché grande organizzatore e creatore d'istituzioni), non, com'è d'uso oggi, a un suo aspetto particolarissimo. Ciò si riflette nel collezionismo Aldrovandiano, che mette insieme fossili, piante, rocce e rappresentazioni d'animali, analogamente alla maniera di collezionare oggetti dalle forme, origini e funzioni più diverse tenuto da molti pittori europei del Cinquecento e del Seicento, e dalle persone di gusto e possibilità sino alla fine dell'Ottocento almeno.

Nella serra delle succulente


Gli interessi medico-farmaceutici di Aldrovandi furono quelli che lo spinsero a realizzare l'orto botanico, ma anche quelli che lo inguaiarono. Adrovandi aveva infatti codificato composizione e procedura per fabbricare il farmaco universale dell'epoca, la "teriaca". Questo lo mise in urto con gli speziali bolognesi, che avevano per la teriaca diverse ricette. Alla fine di alterne vicende, gli speziali ottennero nel 1575 la sospensione del naturalista dalla professione di medico e dai suoi incarichi universitari, e vi fu reintegrato solo due anni dopo da Gregorio XIII, suo parente e papa. Non so se la teriaca, nella versione aldrovandiana o in qualche altra, avesse dei benefici per la salute. Nel Cinquecento ci fu un'esplosione di pubblicazioni e teorie sulla salute e le erbe. Si scrissero persino dei trattati sulla perfetta composizione dell'insalata e, soprattutto, si teorizzò lungamente su come nutrire gli affamati che carestie, guerre e soprattutto la squilibrata distribuzione del reddito gettavano a torme sulle vie delle città e nelle campagne: semi di papavero, corteccia d'albero, gramigna, con un occhio invidioso persino alla cocaina che manteneva gli indios attivi e produttivi anche se sottonutriti. Tutto venne in mente ai professori bolognesi, tranne che dare ai poveri del pane di frumento.

Serra tropicale


Le cose botaniche, al contrario dei palazzi, cambiano con i mesi e gli anni. L'orto botanico di Bologna, in più, ha cambiato anche sede più volte nel corso della sua storia, al contrario del più anziano cugino padovano che ancora sta nella bella architettura simmetrica e quasi cosmogonica in cui lo vollero i fondatori. Quello di Bologna fu trasefrito, ancora all'epoca di Aldrovandi, in zona Santo Stefano, ma i "semplici" tornarono poi in Piazza Maggiore, all'Archiginnasio. Nel 1803 ebbe la sistemazione attuale, come parte del generale riassetto urbanistico e universitario a cui diede impulso l'amministrazione napoleonica di Bologna, raro momento di fervore entro i pigri secoli del dominio papalino.
Un interessante omaggio ad Aldrovandi nell'Orto Botanico è costuito dalla ricostruzione del suo "orto dei semplici", diviso in aiuole a seconda dell'utilizzo delle varie erbe. L'orto ha una parte più classica, pianeggiante, con interessanti serre e alberi provenienti da diverse parti del mondo. Nella stagione fredda la serra delle piante succulente offre un riparo caldo e, al tempo stesso, una collezione molto ampia di piante succulente: cactus americani e piante del deserto africano.
Non manca, come in ogni giardino botanico che si rispetti, una collezione di piante carnivore, anche se non mi sembra ricca come quella padovana. C'è poi un bello stagno con piante acquatiche dell'Emilia-Romagna (alcune in via di sparizione dopo le grandi bonifiche del Novecento) e una scarpata che si arrampica fino in cima alle mura con varia vegetazione appenninica, di bassa collina e di montagna.
Sorprendentemente, in questo angolo tra alcune delle più intasate strade bolognesi il rumore del traffico giunge attutito e passeggiare sulla scarpata è un po' come attraversare un microcosmo selvaggio, preromanticamente segnato dalla vista degli elementi delle mura medioevali, alla maniera in cui il "teatro della natura" di Aldrovandi voleva essere il microcosmo di tutto il creato.

Le immagini sono tratte dal bel sito dell' Orto Botanico di Bologna

Lo stagno artificiale

Anche su Arengario: I bei momenti

lunedì 3 marzo 2008

Il Crespi, le donne, i gatti...

Solimano


Giuseppe Maria Crespi: Autoritratto cm 95 x 81 circa 1720
Bologna, Pinacoteca Nazionale


Nella pittura francese del Settecento, sappiamo che Chardin è ben diverso da Watteau, Boucher da Fragonard e da Liotard (che fra l'altro era svizzero...) ; in Inghilterra, Hogarth da Reynolds e da Gainsborough. Se poi ci ricordiamo che la pittura del Settecento è stata grande anche in Italia, distinguiamo Sebastiano Ricci dal Piazzetta e da Giambattista Tiepolo. Eppure sentiamo che hanno anche molte cose in comune, specie nei ritratti.
Trovo che il bolognese Giuseppe Maria Crespi detto Lo Spagnolo (1665-1747) rappresenti una eccezione. Non dico che sia meglio o peggio, fra l'altro le classifiche le trovo inutili ed aride, dico che persegue per tutta la carriera una strada solo sua. Ho già inserito per due volte sue immagini qui nel Nonblog ed ho deciso di scrivere alcuni post proprio su di lui, anzi, su alcune sue opere, credo infatti che sia meglio arrivare all'artista attraverso le opere che viceversa.
Aggiungo che a Bologna, negli anni del Crespi, operava un altro artista singolare e oggi meno noto del Crespi: Donato Creti. Se trovo delle buone immagini -cosa non facile- scriverò anche su di lui. Senza però voler fare nulla di sistematico sia per il Crespi che per il Creti, mi accorgerò solo alla fine di dove volevo arrivare.

Ragazza con gatto e topolino cm 44,4 x 34,9 1705 circa
Cambridge, Fitzwilliam Museum


La ragazza, maliziosa ed un po' sadica, si è organizzata bene. Ha legato una cordicella alla coda del topolino morto (ma qualche critico sostiene che è ancora vivo e fa solo finta), ed ha chiamato il gattone nero, a cui si vede che è affezionata, non ha occhi che per lui. Se lo tiene stretto con la mano tozza di una che fa i lavori e adesso comincia il divertimento, il gattone gli artigli li ha già cacciati fuori.
Dicevano che il Crespi amasse associare immagini di donne e di gatti per trasmettere sentimenti di pericolosità, ma non lo credo: i gatti non sono per niente pericolosi.

Donna con rosa e gatto cm 66 x 56 1705 circa
Bologna, Pinacoteca Nazionale


Andrea Emiliani fece un colpo di cui dobbiamo essergli grati: acquistò questo quadro nel 1967 sul mercato antiquario, così a Bologna lo possiamo vedere tutti. L'abbinamento della rosa col gatto, quindi spine ed artigli, con bellezza sopra come se piovesse, è di quelli talmente evidenti che non ci si pensa: le insidie dell'amore. Questa ragazza non è una che fa i mestieri, ma comunque le mani sono robuste, però il turbante, anche se fatto di pasta sfoglia come quello della ragazza di prima, è più lavorato, inoltre la ragazza ha due narcisi vicino all'orecchio. Non si capisce se ci sta avvertendo o lusingando. Tiene con cautela, attenta a non pungersi, il rametto di rose, col gatto non ha problemi, sembra tranquillo, anche perché non ci sono topi in vista. Lo sguardo della ragazza è nascosto, però buca il buio, forse ce l'ha solo col pittore che le ha detto -pensando a noi- di tenere la spalla scoperta, bianca come la fronte, mentre le guance sono arrossate come era solito il Crespi. Mira Pajes Merriman ha scritto che la ragazza sta "suggerendo in tal modo i pericoli dell'amore mentre seduce lo spettatore con la sua bellezza felina". Credo proprio che abbia ragione.

Donna che accorda un liuto cm 121 x 152,5 1708-09
Boston, Museum of Fine Arts


E' meglio partire dall'orecchio, per capire cosa sta succedendo. La giovane donna non sta suonando, ma accordando il liuto, basta vedere come e dove agisce la mano sinistra. E l'orecchio della donna ha giustamente il rilievo che merita, perché è in piena azione, al meglio delle sue possibilità.
Sulla destra c'è la custodia del liuto, spostandoci un po' a sinistra si vedono fogli di musica stropicciati e ci si accorge che la donna ed il tavolo che regge fogli e custodia sono paralleli fra di loro e posti di tre quarti rispetto a noi.
Però il Crespi gioca con noi come il gatto col topo, e lo fa in due maniere.
La prima è con la torsione del collo della donna: naturalezza vorrebbe che, essendo la figura di tre quarti, la testa corrispondesse al corpo. E invece no, la testa è di tre quarti, ma dall'altra parte, così il profilo del viso non è pieno, ma a metà fra il pieno ed il perduto: lo sguardo non lo vediamo, ma l'incavo delle orbite sì.
La seconda maniera è più facile, ma non del tutto. La donna è al tempo stesso molto vestita ma anche quasi nuda. La sovrabbondanza dei drappeggi, specie sul braccio destro è clamorosamente smentita alzando lo sguardo: è come se qualcuno le avesse fatto scendere il vestito sia sul petto che sulla spalla, che così attirano gli sguardi appena scendiamo dall'orecchio.
Non finisce qui, altre piccole accortezze: i capelli sono nerissimi, mentre la guancia rubiconda confina col pallore tutt'altro che smorto del collo pienamente esibito, come la spalla ed il petto. Chi è, la donna rappresentata? Eh sì! Vorremmo proprio conoscerla...
Ci sono due ipotesi.
La prima è che sia una giovane della famiglia di Zanobio Troni, difatti nel Ritratto della famiglia Troni (qui sotto), la giovane a destra - quella che si tocca la fronte- richiama i lineamenti della nostra accordatrice di liuto. D'altra parte il Crespi e l'argentiere Troni erano amicissimi, sembrerebbe però che il Crespi estendesse il suo affetto anche ad una figlia dell'amico in modo lievemente indebito.
La seconda ipotesi parte dal fatto che il Crespi amava la musica. Cioè, per dirla tutta, amava il mondo che gravitava attorno alla musica, in particolare le cantanti. Si sa che qualche anno dopo, nel 1716, a Bologna cominciò ad esibirsi la sedicenne cantante Vittoria Tesi, che divenne rapidamente famosa e che il Crespi certamente conosceva. A Pommersfelden c'è un quadro di cui ho solo l'immagine in bianco e nero, in cui il Crespi rappresenta L'Allegoria della Pittura, della Scultura e della Musica. La figura di gran lunga più rapinosa è proprio quella della Musica, una giovane donna che suona il violino. Il suo coinvolgimento partecipe richiama quello della nostra accordatrice di liuto. I pittori di Bologna aspiravano ad una loro Accademia per pareggiare i conti con i letterati tradizionalmente privilegiati, secondo il motto ut pictura poesis, ma anche i musicisti volevano ottenere spazio e considerazione. Il Crespi, per non sbagliare, aveva buoni amici fra i letterati, i pittori ed i musicisti: i due dipinti Scaffali con libri di musica (giustamente famosi), sono ancor oggi custoditi nel Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna, ed i quarantadue titoli dei libri sono stati riconosciuti. I due dipinti costituivano le ante di un armadio, aprendo il quale si trovavano proprio i quarantadue libri effigiati nei dipinti.

La famiglia di Zanobio Troni 112 x 90 1715 circa
Bologna, Pinacoteca Nazionale


Zanobio Troni, l'amico del Crespi, è sulla sinistra, ma il centro del quadro, sia come topografia che come sentimenti, è sua moglie, circondata dall'affetto del marito e dei figli, forse in occasione di una festa evidentemente sentita. Niente di ufficiale, di commemorativo, di cerimonioso. E' un quadro che da solo giustificherebbe la locuzione "Natura ed espressione" inventata da Francesco Arcangeli per definire il permanere di alcuni caratteri nella pittura di Bologna attraverso i secoli. E' singolare anche vedere come è fatto: si vede proprio la tela sotto i colori, che in alcuni punti non è neppure dipinta. Il Crespi fece così non perché abbandonò il quadro, ma perché, appunto, ci aveva messo natura ed espressione: l'amico Zanobio avrebbe perfettamente capito.

La pulce cm 54,5 x 42 (part) 1730 circa
Pisa, Museo Nazionale e Civico di San Matteo


Di pulci, il Crespi ne fece diverse, anche perché certamente allora non mancavano. Ho scelto un particolare di quella che sta a Pisa, perché finisco per parlare ancora di musica, partendo dalle pulci. Ogni quadro aveva un significato metaforico: per le pulci facevano un discorso di pulizia (o purificazione...) interiore, ma gli artisti non ci badavano molto: era un tema ghiotto perché curioso e perché consentiva di mostrare una bella donna appena sveglia, quindi mezzo discinta, che si esplora per rintracciare il fastidioso animaletto. Esplorandosi, è costretta a mostrarsi anche a noi, così piccoli quadri e stampe di questo tipo andavano a ruba.
Ma anche qui il Crespi fa qualcosa di diverso, pur ispirandosi ad olandesi cone Teniers e Steen. Ho inserito solo il centro del quadro, ma osservando i particolari ci si accorge di alcune singolarità. Prima di tutto, non è poi tanto vera l'impressione iniziale di una situazione di povertà: c'è anche roba costosa, là dentro, compreso un piccolo cane maltese che i veri poveri erano ben lontani dal desiderare o dal potersi permettere. Poi, in un angolo c'è una spinetta, ed attaccati alla parete della stanza ci sono dei programmi di musiche. Significa che la donna impegnata nella ricerca della pulce è una cantante.

A Bologna, proprio in quegli anni, giungevano impresari inglesi per scritturare ad ottime condizioni le cantanti emergenti, e Crespi ha sicuramente eseguito una serie, La vita di una cantante d'opera, che purtroppo a noi non è pervenuta.
Vittoria Tesi, di cui ho già scritto, era figlia di un lacché, e la carriera, se andava bene, poteva essere molto rapida, sempre tenendo presente che allora il confine fra cantare in teatro e prostituirsi non era molto chiaro. Difatti nel quadro della pulce ci sono anche due facce di uomini che spiano all'interno, come se fosse un episodio di Susanna fra i vecchioni, con una Susanna non castissima però canterina. Hogarth in Inghilterra faceva operazioni del genere (la carriera di un libertino, il matrimonio alla moda etc), mentre Giuseppe Maria Crespi il tempo maggiore doveva dedicarlo a commissioni chiesastiche. In questo la differenza rispetto all'Inghilterra era abissale.
Potersi dedicare ogni tanto a questi quadri di piccole dimensioni era per lui come trarre un respiro liberatorio. Probabilmente guadagnava di meno ma si divertiva assai di più: molti, ancora oggi, conoscono il Crespi solo attraveso il quadro della pulce. Ma trovò un altro curioso sbocco al suo talento, fra un po' lo racconterò.

P.S. Qualche tempo fa, come dicevo, ho messo due immagini di opere importanti del Crespi, che trovate qui e qui e che vi consiglio di guardare per capirlo meglio.