lunedì 31 dicembre 2007

Nevica


Giovanni Segantini: Ritorno dal bosco


Nevica

di Letizia Ricci


Sì, nevica, non troppo, quel tanto che basta per coprire tutto di un velo sottile di bianco, e lasciare scoperti a metà i rami, brizzolare il ciglio delle strade, lasciare sporco l'asfalto dove cammini e candido tutto intorno.
Il cielo è plumbeo, e mi pare più bello di ieri, quando era blu, terso, prepotente. Nel grigiore svettano tutti i rami secchi, le foglie a terra non ci sono più, ormai sono concime, e mi ritrovo improvvisamente ad amare questa città, questa campagna, tutto stretto in una valle stretta.
Oggi tornando a casa e guardando la strada dinanzi a me, col suo muretto di pietra pieno di muschio appena coperto di neve, gli ippocastani nudi, un po' tozzi e rozzi sfidati dal salice che pure senza foglie si lascia cadere in quei rami sottili che sembrano capelli, elegante lui, ecco mi pareva di vedere un quadro che ho negli occhi e di cui non ricordo l'autore, un quadro impressionista che non mi ha mai comunicato tristezza ma solo calore, il senso di casa, la voglia di entrarci dentro e camminare lungo quel viale lungo, di fermare quel passante dalla schiena curva. Sono entrata nel quadro. Nei suoi colori scarni e nel suo orizzonte che fotografa il "senso di casa" che non si materializza in nulla se non nelle nostre emozioni.
A volte l'assenza di colore fa bene, fa pure allegria. Come l'assenza di rumore. Sembra uno scatto al foto finish, tutto fermo, solo pochi istanti, ma fermo.
Poi ho trovato questa poesia, è di un giovane poeta francese, e mi è parsa bellissima.

"Tutto l'azzurro che c'era
tra lo stagno e il muro
tra l'oracolo di un silenzio
e quello del vecchio susino
Tu sceglievi una pietra
Per credere
alla propria gioia
essa diveniva più grave
del giorno."


(Christian Viguié, estratti)


Alfred Sisley: A Village Street in Winter

venerdì 28 dicembre 2007

Anne Tyler


Il sole all'alba


Anne Tyler
(Rendere l’ordinario straordinario)

di Giulia




Anne Tyler (di lei ho parlato già in questo post) ha il potere di incantarmi perché sa raccontare piccole storie della quotidianità e tutto quello che scrive prende valore e significato. Entra con mano leggera nei suoi personaggi e li rende così veri, che ti pare di conoscerli da sempre. Con loro ti sembra di poter parlare, di poter partecipare alle loro piccole gioie, alle loro delusioni, alle loro tristezze. E’ gente comune a popolare i suoi libri, quella gente che nessuno nota e che trascorre la sua vita accanto alla nostra, persone giudicate il più delle volte insignificanti e senza volto.
Mentre leggi ti ritrovi proprio a pensare a questo. Noi tendiamo a vedere la vita quotidiana un luogo dove si instaura l’abitudine, dove tutto sembra essere ripetuto nell’opacità e nell’irrilevanza. E sembra che conti solo quello che ha il sapore dello straordinario che solo può salvarci dal rischio di scivolare nell’insignificanza, nel buio dell'oblio, dimenticata dagli altri e magari anche da noi stessi. Ed è, invece, su questo presupposto che costruiamo la nostra frustrazione e solitudine.

Il libro Lezioni di respiro racconta un’unica giornata, ventiquattro ore, trascorse da Ira e Maggie Moran: una coppia come tante altre che abita a Baltimora. Una giornata trascorsa insieme per andare al funerale di un loro amico che non abitava più nella loro stessa città. Un racconto senza una grande storia, nulla di diverso da quello che potrebbe accadere a chiunque.

E’ proprio qui il segreto del libro. Viaggiamo con loro e scopriamo quanti pensieri si dipanano nella mente delle persone, quante emozioni, quanti sentimenti e ricordi, semplicemente vivendo. E capiamo quante sfumature ha il colore della solitudine, della gioia, della tristezza, dell’amore, dell’amicizia. Come è facile fraintendersi quando sarebbe molto più facile forse capirsi se non fossimo troppo concentrati su noi stessi. La scrittrice ci aiuta ad entrare nei nostri pensieri e a comprendere quanto siamo bisognosi di vicinanza e di affetto anche quando non lo vogliamo ammettere.

Un viaggio quindi nella quotidianità di Ira e Maggie, ma un viaggio anche in noi stessi. Perché è nella vita di tutti i giorni, nei piccoli gesti, nelle più o meno insignificanti azioni che va intessendosi la nostra storia e formandosi la nostra persona. Proprio nella vita di tutti i giorni noi costruiamo la nostra presenza nel mondo; cresciamo e cambiamo sempre e solo giorno dopo giorno.

Tutto questo, nelle narrazioni, sfugge troppo spesso a ogni considerazione, non trova voce, ma assume un colore indistinto che cancella ogni possibile tonalità. “Cosa ho da raccontarti? – ci diciamo speso – nulla, sempre le solite cose”

La capacità “straordinaria” descrittiva della Tyler riesce a rendere l’ordinario straordinario. E l’insegnamento che, se si vuole, si può trarre è quello di imparare a prestare più attenzione al quotidiano e ai momenti che nella loro apparente insignificanza danno colore alle nostre giornate e ai nostri rapporti con gli altri. Ogni giorno combattiamo la nostra battaglia con le nostre inadeguatezze, le nostre contraddizioni e paure e solo conoscendole e ri-conoscendole potremmo imparare a vincere anche i lati più oscuri di noi stessi e a migliorare i rapporti con gli altri.

E la domanda fondamentale che dovremmo imparare a porci è quella che Maggie fa al marito: "Oh, Ira per che cosa vivremo noi due, per il resto della nostra vita?".

giovedì, 25 ottobre 2007


Da Pensare in un'altra luce


Il sole al tramonto



giovedì 27 dicembre 2007

Lo zucchero-rosmarino




Lo zucchero-rosmarino

di Mazapegul



C'era una volta un re, che era vedovo, ma aveva tre devotissime figlie: Petronilla, Logistilla e Domitilla. Un giorno il re s'ammalò d'una strana malattia che nessuno sapeva curare. Vennero chiamati medici d'ogni dove, ma nessuno aveva mai visto la malattia e tantomeno sapeva come porvi rimedio. Vennero quindi cercati maghi e guaritori, ma senza maggiori risultati. Si ricorse persino a delle streghe, che non seppero però dare nessun consiglio.
Il re, intanto, diventava sempre più magro...

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mercoledì 26 dicembre 2007

Bischerate (5)


G.P.Gori, La festa del grillo (1959)


Bischerate (5)


di Roby




In controcorrente con il clima natalizio in corso, vorrei parlarvi di un'altra festa, decisamente primaverile, molto sentita a Firenze fino a una quindicina d'anni fa. In occasione dell'Ascensione, che cade in una data variabile attorno al mese di maggio, il parco delle Cascine (la vecchia tenuta granducale delle Cascine dell'Isola, poi munificamente donata alla cittadinanza tutta) si animava fin dalla prima mattina di voci, colori, profumi e suoni. Soprattutto suoni, sì, ma di un tipo molto speciale, molto naturale, per non dire quasi biologico: a produrre la musica di sottofondo dell'intera giornata, infatti, erano le elitre di migliaia di grilli dalla livrea nero ed oro, ospitati -volenti o nolenti- in migliaia di coloratissime gabbiette di legno a forma di casetta, castello, villetta o chalet, per la gioia dei fiorentini under 10. L'agitazione, nelle case all'ombra del cupolone, iniziava appena svegli: "Babbo, si va? Se 'un ci si spiccia, le meglio gabbiette le 'un si trovan più, come successe anno: ti ricordi? Quelle, le finiscan per prime!". Genitori e nonni, pressati dalle insistenze dei pargoli, finivano per cedere, rassegnandosi a trascorrere un paio d'ore in mezzo all'allegra confusione di bancarelle traboccanti di croccante e duri di menta, venditori di palloncini che parevano sul punto di volar via insieme a tutta la merce, cani lasciati liberi nel prato del Quercione... e poi tanti, tanti banchini, piccoli e grandi, pieni di gabbiette (vuote) disposte in bell'ordine, dalle più semplici alle più complesse (e costose). Una volta effettuata la scelta, indicata dal ditino infantile puntato sulla casetta desiderata, il venditore apriva lo sportellino di ferro e introduceva nella minuscola prigione, traendolo da scatoloni collocati sotto il banco, un cosino scuro e piccino, palesemente contrariato di trovarsi colà: il grillo, re e vittima di tutta la festa! Insieme a lui, veniva consegnata ufficialmente al piccolo proprietario qualche foglia d'insalata, invitandolo a non far mancare all'insetto detenuto la sua razione di cibo quotidiano: e se vedeste con che appetito divorava la cena, l'ospite canterino!!! Le mamme, a casa, non erano granchè entusiaste di ritrovarsi sul davanzale di cucina -sia pure in gabbia- un animaletto nero pieno di zampette, ali e antennine. Appunto per questo, intercedevano subito perchè al carcerato fosse concessa al più presto la grazia, da applicarsi lasciando aperta la prigione nel bel mezzo della campagna, in Roveta o a Monte Morello: cerimonia, questa, presieduta da tutta la famiglia ed officiata dal giovane carceriere, con grande serietà. I grilli, insomma, non soffrivano troppo a lungo la mancanza di libertà, e probabilmente, una volta tornati alla vita civile, si davano da fare saltellando qua e là e riproducendosi con maggior lena del solito. Ma -a torto o a ragione- negli anni '90 del XX secolo ambientalisti ed amici degli animali sollevarono vibrate proteste contro i crudeli maltrattamenti sofferti dalle indifese bestiole, decretando ben presto la fine di una manifestazione tanto spensierata e sentita. A onor del vero, la Festa del grillo esiste ancora, almeno di nome: ma nelle gabbiette vendute a carissimo prezzo albergano malinconici grilli di plastica, di gran lunga più repellenti di quelli in elitre e cartilagine. Era meglio prima? E' più "politicamente corretto" adesso? Indovinala grillo!!!


Il viale della Regina alle Cascine (fine Ottocento)


martedì 25 dicembre 2007

Il Maestro di Tolentino


La Madonna e una sua amica fanno il bagno al Bambino
che non sembra fidarsi molto



La Natività del Maestro di Tolentino

di Primo Casalini



Il 30 giugno 2004 pubblicavo su Arengario il Bel Momento dedicato al Maestro di Tolentino ed in questi giorni mi è venuta l' idea di approfittare di due novità tecnologiche per pubblicare oggi, che è il giorno di Natale, parte del mio testo di allora. Lo corredo di alcune immagini realizzate per l’occasione, che credo non siano ancora in rete. Adopero uno scanner migliore di quello che avevo ed utilizzo la possibilità di poter mostrare le immagini grandi, come si fa con Blogger. Si tratta di particolari appartenenti all’affresco della Natività, che è uno degli affreschi di Tolentino. Mi sembra di ricordare che una volta il Natale era la festa della nascita di Gesù, non il giorno di Babbo Natale!
Gli affreschi sono nel Santuario di San Nicola da Tolentino, ed è bene sapere qualcosa di questo santo, del Santuario, degli affreschi e del misterioso pittore che li dipinse. Riporto qui sotto il il mio testo, lievemente rivisto.

San Nicola da Tolentino non va confuso con San Nicola di Bari, anche se un legame c'è: Compagnone ed Amata Guarutti (o Guarinti), due sposi ormai avanti negli anni, avevano chiesto la grazia di avere un figlio durante un pellegrinaggio al santuario di Bari, e chiamarono Nicola il figlio che nacque nel 1245.
Nicola divenne frate agostiniano nel 1261, sacerdote nel 1273 e per trent'anni, dal 1275 al 1305, visse nel convento degli Agostiniani di Tolentino. Nel 1325 si celebrò il Processo di Canonizzazione ma l'Ordine Agostiniano dovette attendere ben 120 anni per vederlo ufficialmente canonizzato (da papa Eugenio IV nel 1446). Questo non impedì agli artisti ed ai fedeli di venerarlo come santo, e papa Bonifacio IX nel 1400 non attese la canonizzazione per concedere l'indulgenza plenaria a chi visitava la sua tomba. E' un santo taumaturgo e protettore in specie delle Sante Anime del Purgatorio. La Vita del Santo, scritta dal suo contemporaneo Pietro da Monterubbiano, divenne rapidamente assai nota. Il Santuario fu costruito dagli Agostiniani presso la già esistente chiesa di San Giorgio e fu intitolato dapprima a Sant'Agostino, solo più tardi a San Nicola.

Un angelo mostra la Natività ad un altro angelo

A Tolentino un ampio locale a volta ogivale, il Cappellone, fu interamente rivestito da affreschi: un'opera vasta ed impegnativa, di alto valore artistico e giunta a noi in ottimo stato di conservazione, almeno in gran parte. Gli affreschi del Cappellone forse furono eseguiti negli anni 1335-45 - ma recenti ricerche li anticipano agli anni 1320-25 - quindi proprio nel primo sviluppo del culto del santo.
Esiste un documento dell'agosto 1348 che attesta che la cappella era officiata da un cappellano ad essa assegnato, quindi a quella data la decorazione era già stata eseguita. Non esistono invece documenti riguardanti gli affreschi, e su chi ne sia stato l'autore, il che, dal nostro punto di vista, è assai singolare.
Non si tratta infatti di un'opera attribuibile a maestranze provinciali, è del tutto evidente l'elevato livello artistico, anche se oltre al maestro opera anche la sua bottega, come era d'uso, ma la guida e l'impronta del maestro si vede ovunque, anche nelle parti eseguite dagli allievi.
Un maestro chiamato da fuori, e già ben noto, visto l'investimento finanziario che era richiesto, e l'importanza che l'iconografia degli affreschi avrebbe avuto nella vita del Santuario, allora in piena crescita. E nessun documento che lo attesti, per cui i critici si accapigliano per secoli per capire chi fosse il Maestro di Tolentino, giungendo solo recentemente ad una conclusione generalmente condivisa (o quasi, visto che i documenti continuano a mancare).

Di fronte all'arte medievale gli appassionati d'arte hanno due difficoltà.
La prima sorge dal fatto che i programmi iconografici, pur nella loro complessità, sono quasi sempre simili in tutta l'Europa cristiana.
La seconda è che facciamo fatica a distinguere gli artisti fra di loro perché nella nostra percezione le somiglianze stilistiche e rappresentative prevalgono sulle differenze.
In genere il programma iconografico è talmente vasto da lasciare uno spazio ridotto alla personalizzazione anche stilistica del singolo artista. Fin dall'inizio venivano definiti addirittura i quantitativi di oro o di blu cobalto che sarebbero stati impiegati. Ecco cosa dice un celebre critico:

"Ma veramente non è esatto parlare di copia e di modello; sarebbe più giusto pensare all'opera dell'artista medievale come oggi pensiamo alle interpretazioni di un musicista o di un attore. Il testo è lì: è il modo in cui viene presentato – la carica di significato che vi è immessa – che costituisce il traguardo estetico. Chi interpreta un testo senza intelligenza non meno di chi lo storpia arbitrariamente, non è un artista".
(Ernst H. Gombrich A cavallo di una manico di scopa Einaudi 1971
).

Le nostre difficoltà si attenuano con le opere del gotico internazionale e scompaiono del tutto nel Quattrocento, da Masaccio in poi. Non a caso, è nel Quattrocento che si sviluppa l'arte del ritratto individuale; anche prima c'erano dei ritratti, ma si trattava sempre di personaggi in mezzo ad un gruppo di fedeli o di donatori, rappresentati in ginocchio e su scala ridotta. Il ritratto individuale, come lo pensiamo noi, non faceva parte del mondo artistico medievale, ancor prima, del loro mondo spirituale: poteva essere un dettaglio curioso, non il centro della rappresentazione.

La meraviglia dei pastori all'annuncio angelico

Negli anni in cui a Tolentino si decise di affrescare il Cappellone, in cui si scelse il programma iconografico e si cercò la bottega che potesse realizzarlo al meglio, il punto di riferimento artistico, ben noto in tutta Italia, era Giotto: la sua bottega, i suoi allievi e le altre botteghe che dai suoi esempi avevano imparato.
E' usuale citare ciò che scrive il Vasari all'inizio della vita di Giotto da Bondone:

"Essendo stati sotterrati tanti anni dalle rovine delle guerre i modi delle buone pitture et i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, per dono di Dio quella che era per mala via risuscitò et a tale forma ridusse che si potette chiamar buona. E veramente fu miracolo grandissimo che quella età e grossa et inetta avesse forza d'operare in Giotto sì dottamente, che il disegno, del quale poca o niuna cognizione avevano gli uomini di quei tempi, mediante lui ritornasse del tutto in vita".

Ma il Vasari scrive a cose fatte, attorno alla metà del Cinquecento, e si ispira probabilmente a ciò che aveva scritto il Boccaccio quasi negli stessi anni in cui veniva affrescato il Cappellone:

"Ebbe un ingenio di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose ed operatrice col continuo girar de' cieli, che egli con lo stile e con la penna e col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo essere vero che era dipinto. e per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni che più a dilettar gli occhi degl'ignoranti che a compiacere allo intelletto de' savi dipigneano, era stata sepulta, meritatamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote".(Quinta novella della Sesta giornata del Decamerone)

Giotto ed il Boccaccio non vivevano certo in una età grossa et inetta, come riteneva più di duecento anni dopo il superbo Vasari. Si è detto che Giotto e Boccaccio sono l'espressione di classi in ascesa, le classi mercantili e popolari, quelle delle Arti, che stavano prendendo il posto delle famiglie magnatizie. Il vigore di Giotto e dei giotteschi (di cui fa parte il Maestro di Tolentino) è sostanza di nuova civiltà, più che accidente di nuova rappresentazione.
I critici sono concordi nel ritenere che il Maestro di Tolentino appartenesse alla scuola giottesca riminese, in pieno fulgore negli anni degli affreschi da Tolentino e che era sorta al tempo in cui Giotto aveva eseguito a Rimini opere nella chiesa di San Francesco, che a noi oggi è nota come Tempio Malatestiano.
Di queste opere ci è rimasto solo il magnifico Crocifisso ancora conservato nel Tempio, il resto è stato distrutto al tempo dei grandi lavori che Sigismondo Pandolfo Malatesta fece eseguire attorno al 1450. Il Vasari, più di un secolo dopo, se la prende ancora con queste distruzioni .
I maestri riminesi irradiano la loro influenza, oltre che a Tolentino, anche a Pomposa, ed in genere nelle località della costa adriatica romagnola e marchigiana. La scuola riminese scompare quasi del tutto attorno al 1350, probabilmente per la scomparsa degli artisti più insigni nella peste nera del 1348. Prevarrà allora la scuola bolognese, aperta anche alle influenze del gotico francese.

L'ariete del gregge, dietro di lui una pecora

Il Maestro di Tolentino, secondo gran parte dei critici, è da identificare in Pietro da Rimini, che è il più noto dei maestri riminesi, e gli affreschi di Tolentino sono la sua opera più importante che ci sia pervenuta. Conosce bene l'arte di Giotto, da cui deriva l'espressività potente, la solidità corporea delle figure e dei panneggi. E' meno interessato di Giotto ad una organizzazione razionale degli spazi, sia quelli dei singoli riquadri sia quelli che hanno una funzione di raccordo, di telaio prospettico ante litteram.
L'impressione è quella di una narrazione paratattica, in cui l'emozione e la vivacità dei singoli episodi costituiscono i punti focali, esaltati da un cromatismo che richiama gli antichi mosaici di Ravenna, ai riminesi ben noti. Renato Roli scrive, un po' riduttivamente, di bellissimi frammenti soltanto accostati, ma quella del Maestro di Tolentino non è una reazione passatista alla pittura di Giotto: si guardi ad esempio la rappresentazione delle mani, grandi e potenti, ma non grossolane, con una eleganza da artiglio, e la teatralità originale di tanti riquadri.
Le nozze di Cana, con i commensali disposti su tre tavoli, la sposa e lo sposo con l'aureola, gli inservienti alle prese con le anfore, il personaggio seduto, quasi accosciato, che beve in punta di labbra, o l'annuncio ai pastori ed il bagno al bambino nel riquadro della Natività.
Nella fascia inferiore, quella dedicata alla vita di San Nicola, si vede l'intervento esecutivo degli aiutanti del Maestro, e ci sono vaste perdite di affresco, sino a portare a vista il sottostante muro di mattoni. Ma la vestizione del santo, il miracolo della donna resuscitata e la morte del santo - col Cristo che ne tiene in braccio l'anima e col concerto angelico - mostrano con chiarezza che il Maestro di Tolentino (fosse o non fosse Pietro da Rimini) seguiva tutto il lavoro della bottega, che si svolgeva sulla base di suoi disegni e cartoni.
Richiese anni, l'impresa così vasta e così ben curata, così rispettosa del programma stabilito e così vigorosa e fresca, condotta con tranquilla costanza dal maestro e dalla sua bottega.
Gli Agostiniani onoravano gli impegni presi e la bottega venuta da Rimini era soddisfatta: perché firmare gli affreschi o compilare documenti? C'erano altre priorità: accogliere i pellegrini, assicurare il necessario flusso di denaro, documentare i miracoli del santo, ormai noto e venerato al di là dei confini locali. Proprio per questo, al di là delle auspicabili ricerche negli archivi, possiamo benissimo continuare a chiamarlo il Maestro di Tolentino, chiunque sia stato nella sua vita reale.

Anche il bue e l'asinello guardano la Natività

sabato 22 dicembre 2007

IL DONO DI NATALE


Giotto: La Natività di Cristo
Cappella degli Scrovegni, Padova



IL DONO DI NATALE

di Grazia Deledda




I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.

Era una festa eccezionale, per loro, quell'anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.
Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.

E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.

Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.

Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d'alberi carichi di neve e di ghiacciuoli, appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole.

Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.
Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un'altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.
Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.

- Ben tornato, Felle.
- Oh, Lia! - egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.

Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l'amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d'occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.

- Che ci hai, qui? - domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. - Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, - aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: - e anche noi!

Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.

In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con buccie di arancie e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.

La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un'aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.
Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.

- Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po' di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? - pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.

Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca.

Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all'esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l'uomo che lo accompagnava. Quest'uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l'indipendenza d'Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista.

E rimasero tutti scambievolmente contenti.

Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d'oro.

Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.
L'ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s'intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.

Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.
Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.
Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d'occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.

Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.

Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.

- La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini - disse a Felle: - anch'essi hanno diritto di godersi la festa.
Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile.
La notte era gelida ma calma, e d'un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.

Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.
All'entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:

- La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.

Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c'erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po' triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.
Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.

- Oh, ragazzi, su, in fila.

E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.

I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.
Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell'aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.

Dentro la chiesa continuava l'illusione della primavera: l'altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l'ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.

In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d'oro illuminava loro la via.
Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.
Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.

- Gloria, gloria - cantavano i preti sull'altare: e il popolo rispondeva:
- Gloria a Dio nel più alto dei cieli.
E pace in terra agli uomini di buona volontà.

Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.
All'uscita di chiesa sentì un po' freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l'odore d'arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l'uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d'arancio, perché l'anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.

Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un'asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.
Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.

In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d'avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l'arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.

Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolìo della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.
Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.

Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?
Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.

Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov'era?

- Vieni avanti, e va su a vedere - gli disse l'uomo, indovinando il pensiero di lui.

Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.
E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.

- È il nostro primo fratellino - mormorò Lia. - Mio padre l'ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il "Gloria". Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale.
Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.


Giotto: L'adorazione dei Magi
Cappella degli Scrovegni, Padova


giovedì 20 dicembre 2007

San Gerolamo e il leone


Lo studiolo di Gian Giacomo Poldi Pezzoli


San Gerolamo e il leone

di Giuliano


Scricchiola sotto le mie scarpe, il parquet del Poldi Pezzoli. L'antica casa del signor Poldi Pezzoli, in via Manzoni a Milano, oggi trasformata in Museo, ha questa caratteristica: sembra davvero ancora una casa d'abitazione, e ho sempre un po' di timore reverenziale ogni volta che ci entro. Mi verrebbe da chiedere permesso, e mi sento un intruso: ma ho tra le dita il biglietto appena fatto, giù all'ingresso della Casa (pardon, del Museo), e quindi la mia parte razionale mi incoraggia ad andare avanti. Una gran bella casa, la casa di un vero signore: con la fontana all'ingresso, sotto la bella scala che porta ai piani superiori. E il Museo è bellissimo, forse il più bello di Milano. Non è un museo tematico, si vede che è il frutto della raccolta di un appassionato; ma un appassionato davvero competente. Per esempio rimango sempre un po' sconcertato quando arrivo davanti al ritratto di Martin Lutero del Cranach (come sarà arrivato fin qui?), ma tutto quanto è da guardare e da ricordare, compresi i mobili e gli arredi residui della casa. Si ha l'idea di un'altra Milano, di un'altra civiltà, di qualcosa che si è perduto forse definitivamente. Del resto, siamo in via Manzoni, nel cuore della Milano ottocentesca, a due passi dalla Scala: ed è inevitabile il confronto di questo cortile e di questa casa con il lavoro degli architetti e dei politici del nostro tempo, che non sanno rinunciare a lasciare la loro firma indelebile (proprio come gli aborriti writers) invece di restaurare, e magari anche ammodernare, ma con rispetto e "sottotraccia", senza farsi notare troppo. Operazioni che non portano voti né pubblicità, ma solo il rispetto degli appassionati veri; e quindi del tutto fuori moda.

Lucas Cranach the Elder : Ritratto di Lutero e sua moglie
Museo Poldi Pezzoli, Milano


Ma intanto sono arrivato davanti ai quadri del Luini, e ormai sapete quanto ci tenga, a questo pittore. Davanti a me c'è il suo San Gerolamo: il vecchio santo nel deserto, intento a scrivere la Vulgata, con un leone al suo fianco. Il leone è domestico, sembra un grosso gatto ed è abbastanza ridicolo. Ma non credo che sia un caso: di certo Luini avrà avuto voglia di giocare, magari di divertire i suoi figli (futuri pittori anch'essi); e poi, via, il leone terribile che diventa un grosso gatto sorridente è una bella metafora sulle nostre collere e sulle nostre preoccupazioni. Magari andasse sempre così, magari si potessero trasformare le nostre rabbie in questo modo... Per queste operazioni, è bene rivolgersi ai santi, sembra dirci Bernardino Luini: e dunque, eccomi raccolto, meglio che posso, in orazione davanti a San Gerolamo.

Il leone del Luini in San Gerolamo
che sembra un gatto ma incute anche terrore
è un grosso gatto ma è ugualmente splendido
nell'opera buffa ma bella del Pittore.
Egli è un Leone ma per il Santo è gatto:
e così accade col nostro malumore
che ci perseguita e non se ne vuole andare -
ci vuole un Santo, tramite d'amore.

(6 gennaio 2005)


P.S.
Il San Gerolamo del Poldi Pezzoli è qui ma non me lo lasciano portare via. Guardare e non toccare.
(Habanera)

Antonio Colantonio: San Gerolamo nello studio
(ca. 1445-1446) - San Lorenzo Maggiore - Napoli

martedì 18 dicembre 2007

Ulisse




Ulisse

di Mazapegul


Ulisse viaggiava per tornare a casa, ma più viaggiava e più se ne allontanava, e finiva col visitare luoghi sempre più distanti e strani. Scriveva delle lettere per sua moglie Penelope e per suo figlio Telemaco, le metteva dentro un vaso, lo tappava ben bene che non entrasse l’acqua e lo faceva scivolare in mare, sperando che le onde lo portassero a Itaca, la sua isola.
Una volta aveva scritto: “Mi trovo nell’isola degli uomini-con-la-testa-di-cane”, ma la lettera, invece di arrivare a Telemaco, era finita all’isola degli uomini-con-la-testa-di-gatto, che la lessero e si spaventarono tantissimo. Affondarono le loro barche e giurarono che non avrebbero più navigato per il mare, non avesse voluto il destino che incontrassero qualche orrido uomo-con-la-testa-di-cane.

C’era un isola in cui tutte le correnti arrivavano e nessuna la lasciava. Tutta l’acqua veniva inghiottita da delle grotte scavate sulla scogliera e sprofondava sottoterra, nessuno sapeva bene dove. Ulisse cercava di spedire i vasi con le sue lettere, ma la corrente glieli faceva ritornare tutti indietro.

In compenso, gli arrivavano vasi da naviganti sperduti in ogni dove, con pergamene che dicevano: “Sono in un paese dove non c’è mai la notte e per questo le case non hanno la camera da letto,”
oppure “La mia nave s’è arenata in un posto dove c’è sempre notte e la gente tiene pipistrelli invece che canarini nelle gabbiette.”

Un giorno gli arrivò un vaso con scritto:
“Sono in un’isola dove non arriva nessuna corrente, ma tutte la lasciano. Al centro dell’isola c’è una grande sorgente d’acqua che viene da sottoterra, nessuno sa bene da dove, che forma dei grandi torrenti che scendono a mare facendo delle grandi onde che spingono via i vasi con le mie lettere, ma che impediscono alle lettere che mi vengono scritte di raggiungermi.”

Quando si trovava in mezzo al mare sulla sua nave, Ulisse gettava in acqua dei vasi con delle lettere dolcissime per Penelope. Non sapeva che le sirene li rubavano e li portavano in fondo al mare, per leggere le sue lettere d’amore e sospirare, riempiendo l’abisso di bollicine.

Domenica 7 ottobre 2007

Da Mazapegul

sabato 15 dicembre 2007

Provenza: Fox Amphoux




Fox Amphoux

di Letizia Ricci



Sul limitare della strada che attraversa il parco regionale del Verdon, poco prima che si tuffi nella discesa che dall'altopiano riporta a fondo valle per andare a ricongiungersi con le enormi distese della valle di Manosque, a grano e frutta, solcati dalla Durance cantata da tanti poeti francesi, ecco proprio prima c'è un cartello che dice “Fox Amphoux” e più sotto “chef-lieu”, che ne vorrebbe far intendere in modo sibillino una qualche importanza. Ancora più sotto, disordinatamente, un cartellino azzurro poco più che manoscritto che annuncia “Tessitura” e che più che altro conferma che ci troviamo al sud, nel Midi, dove il suo disordine e la sua fattura artigianali non sono un vezzo ma ancora una realtà. 300 km più a nord il nostro “Tissage” avrebbe fatto bella mostra di sé in un cartello altisonante piantato dall'azienda di soggiorno, con tanto di fronzoli ed avalli amministrativi.


La curiosità ieri è stata irreprimibile, così abbiamo imboccato la stradina, sempre più stretta e bozzuta, costeggiata dai quercioli, i ginepri e un po' di quella macchia che da queste parti si chiama garrigue, che lasciava planare lo sguardo solo al cielo, talmente era fitta ed odorosa.
La stradina si faceva sempre più stretta e ardua, gli affossamenti sempre più pronunciati e coperti d'acqua, piove da due giorni e la natura è contenta. Noi un po' meno. Un incrocio in cui è difficile capire quale sia la strada maestra, poi la stradina, ormai angusta e stretta tra uno strapiombo ed una parete, uno spigolo di una vecchia fattoria dismessa ed una buca, si inabissa in una specie di cortile, non si capisce più se si è già nel paese o direttamente e senza esitazioni a casa di qualcuno.


Ma è strano il silenzio. Non tutti i silenzi sono uguali. Questo è strano, davvero immobile. Siamo sul poggio, si vedono le mura diroccate di alcune case e dietro alberi e cielo. La stradina ormai percorribile solo a piedi si insinua tra le pietre ed i muri, porte chiuse, persiane serrate, fiori di ippocastano a terra, un tappeto spesso e talmente profumato da togliere il respiro. Un gruppo di iris pervinca, poi una parete di roselline. Tra rientranze e sporgenze, è tutto chiuso ma questo “paese” vive, c'è. Si sente dall'odore. Passaggi a volta in cui sono incastrati ferri, fili elettrici stentati. I portoni sono puliti, ci sono targhette sopra con nomi fantastici: “Liliums en tempête”, “Vasquez rubio”, “Atelier de tissage” (eccolo! È lui, mi dico).


Per terra talvolta ghiaia, talvolta pietrisco. La geometria del luogo è incomprensibile. Guardando in alto si vede un campanile, ci deve essere una chiesa. Ridiscendendo lungo una strada più principale delle altre, ecco infine una piazzetta, un miracolo di dolcezza, accoglienza, calore. Una fontanella con su scritto “acqua potabile”, una cassetta della posta. Non c'è nulla, non ci sono negozi, insegne, persone, nulla. Poi, quasi accanto alla chiesa, nascosta tra i tralci di un glicine bianco ed una vite americana, una porticina con su scritto “hotel”.


Apro la porta e cado a piè pari nella fiaba. Una dimora calda e accogliente, rustica ed elegantissima, un piccolo salotto con tante piante, lampade, una strana testa di bacco appesa nel mezzo di una cornice dorata senza quadro, le finestre non danno quasi luce, oscurate dalle piante dentro e fuori, le poltrone di pelle nera coperte di cuscini di vago sapore orientale, tanti kilim a rischiararle, e poi libri. Sotto ad una finestrina c'è il De Bello Gallico, in latino. Un libro di foto di Lucca. Tanti libri in inglese. Guardo oltre, mi muovo timidamente, sopraffatta dal colore e dalla magia inattesa, dal silenzio e dall'immobilità, quasi fosse un posto in perenne attesa. Una sala da pranzo piccola, complice, discreta, ovattata. Dalle finestre si vede il mondo. Ma dov'è, allora, quel mondo? Ci deve essere un segreto …


Torno indietro, camminando piano sulle piastrelle di cotto rosse e ottagonali, antiche, sbrecciate, lucide. La scala, storta, bianca, con travi di legno conficcate qua e là fa indovinare le stanze: ce ne sono solo 7, tutti nidi di pace. Un gradino alto di pietra, attenzione alla testa perché l'arco è basso, porta allo studiolo dove l'albergatore riceve i suoi ospiti. Altri libri, tanti, col loro odore fantastico e un po' umido. Fuori sta scendendo un acquazzone, una strana coppia con due bambine bionde ed esili rientra dalla porticina magica, parlano una lingua strana, lui sembra lei (sguardo dolce, occhi di mare) e lei sembra lui (voce dura e roca, carabiniera mancata). Esitano: dentro o fuori. E la porta aperta offre un nuovo sguardo alla piazzetta inverosimile, col suo albero gigantesco al centro, col tronco triplicato e le foglie giovani, piccole ma ombrose. La porta si richiude, l'acquazzone può attendere. Le chiavi delle camere sono lì, di ferro, appese, con una targhetta annodata con la corda. Sono belle. Prendiamo un caffè, uno sguardo al De Bello – non ci capisco più niente – e una rapida lettura del libro inglese che cita Fox Amphoux, ex accampamento romano. La chiesa è del 1100. L'albergo del 1500, come molte case sulla piazzetta. La gente è morta e quella nuova non si vede. L'albergo è gestito da una inglese. Complimenti. Il ristorante è celebrato, si raccomanda di prenotare. Ma come diavolo si fa ad arrivare qui?


Poi l'ho capito. Basta sognare. Sognare ad occhi aperti. E il mondo cambia volto. Dalla piazzetta si esce su un belvedere. Adesso non si vede più solo il cielo, si vede la valle e da questa altura si domina tutto, lo sguardo si perde e il senso di solitudine è immenso. Non si vedono case, neanche fattorie, nulla. In paese non c'è neanche un forno. C'è solo il piccolo hotel. La tazzina del caffè aveva delle roselline discrete, l'ho tenuta in mano come fosse una foto antica e scolorita. Ora guardando il mondo, quello che si rubava dalle finestre dell'hotel, immerso nel cielo ingrigito dai nuvoloni, risentivo tra le mani la tazzina con le rose, il suo calore, il benessere di guardarsi intorno e scoprire le lampade di luce gialla accese, neanche un pezzo di tecnologia apparente, nessun timer che sordo scandisse i secondi, gli attimi, tentando malamente di sostituire i vecchi orologi a cucù o le pendole lugubri ed ipnotizzanti. No. Non un telefono, tantomeno un telefonino, la tecnologia è bella quando se ne resta nascosta.
Neanche il pannello solare 80x80 circa poggiato non si sa come né da chi sul bordo del precipizio, è riuscito a ferire il paesaggio. Neanche le tre macchine parcheggiate a ridosso degli alberi.
Un ultimo sguardo alla piazzetta silenziosa, sotto l'ultimo scroscio, la luce del tramonto annunciato, i passi che non fanno rumore sul tappeto di foglie e fiori strappati dal vento.
Fox Amphoux, Provenza orientale.

(4 maggio 2002)

Su Arengario: I bei momenti



giovedì 13 dicembre 2007

Bischerate (4)




Bischerate (4)

di Roby



Quando si parla di cucina toscana, la prima cosa che viene in mente è la tipica fiorentina al sangue, alta due dita e col suo bel pezzo d'osso attaccato, magari servita insieme ad un fiasco di Chianti "di quello bono". Ora, in questa "bischerata" dedicata al mangiare fiorentino non aspettatevi niente di tutto ciò, perchè io -l'ho già detto e ribadito altre volte- potrei benissimo vivere senza toccare carne rossa, cotta, cruda, arrostita o in umido che sia: mentre cadrei stecchita in 24 ore se mi togliessero i cibi derivati dal pane, dalle verdure e dai latticini in genere. Ad esempio, potrei annegare piacevolmente in un'enorme pentola di coccio colma di minestra di pane -meglio ancora se "ribollita"- lasciandomi sommergere da un denso brodo di fagioli, fra onde di spumeggiante cavolo nero, isolotti di pane raffermo ammollato, zattere di pomodoro maturo e allegre conchiglie di carota. E il naufragar mi sarebbe gustoso in questo mare... specie se favorito da un "C" d'olio versato dal beccuccio, a degno coronamento del capolavoro.



Ma non mi fermo certo qui: un'altra delle mie debolezze gastronomiche, che antepongo senza esitare alle più raffinate creazioni di nouvelle cuisine d'oltralpe, sono i crostini di fegatini, altro tipico piatto povero, ricavato con rara perizia contadina dalle umili frattaglie di pollo e gallina usati per il brodo o per il bollito. Mi è impossibile anche solo accennare ai crostini "toscani" senza avvertire all'istante un robusto languore allo stomaco, accompagnato dall'immediato sorgere di acquolina in bocca e dal dilatarsi delle narici, in cerca del profumino caratteristico dell'impasto che cuoce nel tegamino antiaderente, opportunamente rimestato col cucchiaio di legno. La "morte" dei fegatini, secondo me, è su fette di pane rigorosamente toscano (quello non salato, o-per dirla come noi a Firenze- "sciocco"), tagliate piuttosto grosse. Purtroppo, in rete non ho trovato immagini adeguate di simile saporoso paradiso, se non quella di un vassoio abbastanza anonimo, nonchè (per i miei gusti) decisamente scarso: io, con quella quantità di crostini, potrei farci appena appena merenda!

Per fortuna, l'ora di cena si avvicina: e benchè io non sia certo una cuoca provetta, mi basta affettare un bel filoncino cotto a legna, abbrustolirlo sul fuoco e poi ungerlo d'olio extravergine d'oliva D.O.C.G. per sentirmi detto fatto seduta alla principesca tavola del Magnifico Lorenzo.




mercoledì 12 dicembre 2007

Le facce del Cossa

Solimano


Pochi giorni fa sono stato alla Pinacoteca di Brera, con amici di vita reale e di vita virtuale e l'ho raccontato qui, in Abbracci e pop corn. Ma non ho raccontato tutto, perché avevo una mia curiosità, e di qui parto.

E' in corso a Ferrara una mostra che mi interessa ed a cui quasi sicuramente non riuscirò ad andare, perché è troppo fuori mano rispetto a Monza. Colpa mia, perché chi dorme non piglia pesci, e l'Università Popolare di Monza ha già fatto la visita con partenza del pullman alle 7 di mattina e ritorno entro le 8 di sera. Mi sarebbe andata d'incanto, in pullman avrei dormicchiato, chiacchierato, mi sarei persino preparato alla mostra. Solo che non mi sono informato, e ci voleva così poco!

La mostra riguarda due dei tre grandi pittori ferraresi del Quattrocento, e qui bisogna capirsi, perché in Storia dell'Arte si usa ogni tanto impropriamente il plurale: i Carracci, i ferraresi... Ma quando mai, Ludovico, Annibale e Agostino Carracci sono molto diversi l'uno dall'altro sia per il modo che per il livello ed i tre grandi ferraresi, Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de' Roberti lo sono ancora di più, almeno per il modo.
Il danno è che se chiedete ad una persona mediamente acculturata quali sono i grandi pittori del Quattrocento, vi farà i nomi di Masaccio, del Mantegna, di Piero della Francesca, di Antonello, del Bellini... ed altri dieci nomi, dopo di che, se avrà tempo e voglia vi dirà: "... e poi, vabbé, ci sono anche i ferraresi".
Come se fossero una società per azioni, ognuno col suo bel 33%. Mentre Tura, Cossa e Roberti sono tutti e tre fra i massimi di quel secolo.

La mia curiosità a Brera riguardava due scomparti di polittico del Cossa, perché non sapevo se fossero stati prestati alla mostra di Ferrara oppure no (c'è anche la complicazione che sono dipinti su tavola e le tavole non dovrebbero viaggiare). La soluzione è stata la più italiana, a suo modo la più semplice: hanno prestato uno scomparto e l'altro no. Non ci avevo pensato, e non la condivido: i due scomparti sono in relazione molto stretta l'uno con l'altro, si bilanciavano all'interno del polittico Griffoni che da secoli è smembrato in diversi musei. Potevano prestarli entrambi oppure non prestarli, hanno scelto il contenti tutti, proprio all'italiana.



Così il San Pietro rimasto a Brera aveva un'aria più dispiaciuta del solito. Già normalmente ha lo sguardo basso, a differenza del San Giovanni Battista, ma sembrava che esprimesse una indignazione un po' amara per essere stato lasciato solo: quando c'è il bruno-giallastro San Giovanni, può vantarsi del suo colorito roseo. San Giovanni esprime così la durezza della vita nel deserto, sottolineata anche dalle ossa sporgenti dello sterno, mentre San Pietro, più in età, con una mano regge una enorme chiave a cui è appesa con una cordicella rossa e riccioluta un'altra chiave identica. Con l'altra mano San Pietro impugna saldamente il libro che sta leggendo. E' per questo che lo sguardo è basso, non certo per timidità introspettiva, le facce del Cossa esprimono sentimenti forti e guardano il mondo come se fosse proprio. Il San Giovanni, che adesso sta a Ferrara e che tornerà a fine Gennaio, non guarda a noi, guarda davanti a sé esprimendo la forza amara del suo tipo di santità, con un dippiù che gli aggiunge il Cossa di suo. Il cartiglio non è più gotico, ma in belle maiuscole da lapide romana e si regge in aria per forza propria, inamidato e spegazzato com'è. Il bastone pastorale dall'altra parte ha quasi in cima la bellissima idea dell'agnello in prospettiva: tutti debbono conquistarsi il proprio spazio, compreso l'Agnus Dei. Parrebbe in piena analogia con Mantegna e con Tura, che Cossa conosceva bene, ma ci sono differenze che in parte si spiegano riflettendo su un esempio ben presente al Cossa: Piero della Francesca, che aveva lavorato a Ferrara per opere oggi scomparse, e che è il nume tutelare di tutti e tre i ferraresi, ma del Cossa in particolare. All'influenza di Piero si aggiunge l'accettazione delle novità di Padova, non tanto per la fantomatica bottega dello Squarcione, ma per il Mantegna, e forse ancora più per l'altare di Donatello, perché pittori e scultori lavoravano a stretto contatto. Come i migliori pittori che guardavano Piero della Francesca, qualcuno essendone anche allievo, il Cossa ha una sua strada di fedeltà infedele. Si riconosce Piero nell'ampiezza e nella dignità delle forme, che bastano a se stesse, c'è lo stesso appagamento che troviamo in Melozzo e nel Signorelli. Le forme tengono stretto tranquillamente lo spazio che hanno conquistato, lo sentono come a loro dovuto. Il Cossa ha due modi di essere infedele a Piero, il primo è quello di una fantasia ubiqua, che ci sorprende nelle nuvole, nei calzari, nei capelli, nei panneggi, dovunque. Succede anche agli altri ferraresi, ma con fantasie diverse. Il secondo modo di infedeltà è tipico del Cossa: la veracità nella rappresentazione delle persone. Il Tura individua in mille modi i suoi personaggi fantastici, che nella vita reale non incontreremo mai, i personaggi del Cossa li conosciamo e li incontriamo, i suoi sono dei ritratti di persone reali, con l'aggiunta del suo stile trasfigurante. Si somigliano fra di loro, perché quei personaggi sono anche e soprattutto il Cossa - il pittore non può dimenticare che sta ritraendo anzitutto sé stesso - e la differenza con Tura e Mantegna è del tutto evidente. Il Cossa esprime grandi sentimenti in corpi e soprattutto facce che possono sembrare persino rozze. Si tratta di una normalità di tipo eroico.



Alla National Gallery of Art di Washington ci sono altri due scomparti del Polittico Griffoni, anche se la discussione non è del tutto chiusa, malgrado lo schema di ricostruzione proposto a suo tempo da Roberto Longhi. Le perplessità non sono sulla attribuzione dei due scomparti al Cossa, ma sul fatto che mentre i due scomparti di Brera hanno per sfondo un paesaggio i due di Washington sono a fondo oro. A me sembra piuttosto convincente l'argomentazione che parte dal fatto che gli sguardi dei due santi sono rivolti verso il basso, ma come se guardassero i fedeli nella chiesa: è un indizio che i due scomparti di Washington fossero nella parte superiore del polittico a differenza dei due santi di Brera e della pala centrale, che sta alla National Gallery di Londra. Quindi, la scelta del fondo oro avrebbe una sua coerenza: paesaggio terrestre nella parte inferiore, celeste nella parte superiore. La forza espressiva del San Floriano e della Santa Lucia di Washington è quella consueta nel Cossa: una forza personalizzata in un essere umano vero, concreto, di cui il Cossa indaga l'aspetto fisionomico continuando ad applicare il suo modo caratteristico: le grandi e rotonde palpebre sormontate dagli archi sopracciliari, le fronti spaziose, le orecchie lunghe e movimentate, lo sprezzo per ogni tipo di carineria adulatoria. E, come sempre, nelle figure intere che qui non metto, compare una specie di firma del Cossa, una sua piccola, innocua e bellissima ostinazione: il mignolo che si scosta dalle altre dita, è così anche per i due santi di Brera.
Il Polittico Griffoni è del 1473, ed è stato fatto per la chiesa di San Petronio di Bologna. Contemporaneamente il Cossa lavorava ad un'altra opera importante, sempre per Bologna, la cosiddetta Pala della Mercanzia, che è nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. Il Cossa, nato a Ferrara, manteneva la residenza nella sua città, ma finiti gli affreschi di Schifanoia, che costituiscono il suo capolavoro, dal 1470 in poi lavorò esclusivamente per Bologna. Il motivo era molto semplice: il duca Borso d'Este pagava poco e male. C'è una lettera del Cossa al duca, del 25 marzo 1470, in cui il Cossa, al di là delle solite supplichevoli richieste, dice: "Et masime Considerando che io che pur ho incomenciato ad avere un pocho di nome, fusse tratato et judicato ed apparagonato al più tristo garzone de ferara...". Francesco del Cossa sapeva bene il suo valore, ed a Bologna fu apprezzatissimo: il Polittico Griffoni, la Pala della Mercanzia, poi, nel 1477, gli affreschi della cappella Garganelli in San Pietro (purtroppo perduti, ma che impressionarono Michelangelo). Oltre all'apprezzamento, a Bologna aveva a che fare con un artista grande come lui, lo scultore Niccolò dell'Arca, e si capisce che i due si guardavano con ammirata attenzione. Ma nel 1478 Francesco del Cossa morì a Bologna, a soli 42 anni, probabilmente di peste. Ci sono rimaste le lettere che due gentiluomini bolognesi, Angelo Michele Salimbeni e Sebastiano Aldrovandi si scambiarono subito dopo la sua morte, scrissero anche due modesti sonetti in sua lode, così finisce il sonetto dell'Aldrovandi:
...
Di ziò pianga Ferara che la perse
un spirto si zentil che li fu gloria,
né speri mai d'haver più simil dono:

ch'el dì che nacque natura sofferse
dal ciel sì bella gratia et tal victoria
che rare volte simil punti sono.


Ma già a metà del Cinquecento il di solito bene informato Vasari del Cossa parla poco, e lo confonde con Lorenzo Costa. Un oblio che durò secoli: solo nella seconda metà dell'Ottocento il nome del Cossa cominciò a riemergere a Ferrara, ma la vera, completa riscoperta è datata 1934, l'anno della Officina Ferrarese di Roberto Longhi.
I due santi della Pala della Mercanzia sono quanto di meglio ha fatto il Cossa a livello di umana espressività -a parte forse alcune figure negli affreschi di Schifanoia. Il San Petronio è una vecchio magro, però forte e deciso. Il viso è in penombra, ma se ne coglie l'acutezza da rapace, e lo sguardo è di fuoco. Questo vecchio non teme nessuno e tiene stretta fra le sue mani possenti la città si cui è patrono, piccola e riconoscibilissima, con la torre degli Asinelli. La pala, a vederla di persona la prima volta, colpisce per i colori opachi, spenti, non so se decisi così dal pittore o frutto dell'incuria di secoli. Fatto sta che proprio l'assenza di bellurie nei colori ne esalta la forza rappresentativa di tipo scultoreo, e si sente benissimo l'attenzione che il Cossa riservava ai due grandi scultori, Donatello e Niccolò dell'Arca, oltre che naturalmente al Tura ed al Mantegna. Ma la sua è emulazione da pari a pari, altro che imitazione.

L'altro santo è San Giovanni Evangelista, in tutto diverso dal San Petronio tranne che nella forza che esprime. E' più giovane che vecchio, di stirpe contadina, un contadino che ha studiato e che capisce bene, attento e concentrato nella lettura del libro che sembra più un libro mastro che un codice miniato. Entrambi, sia il San Petronio che il San Giovanni non hanno tempo per noi, e neppure per la Madonna che sta in mezzo a loro, sono assorti in pensieri totalizzanti, pensieri però fatti di cose. Ci impongono il loro esserci e possiamo solo obbedire ammirati. L'immagine della Madonna altocinta che sta in mezzo ai due santi l'ho messa in cima al post, ed il Bambino cresce proprio bene, cossesco pure lui: è biondo, bello e un po' prepotente, l'uccellino che stringe nella mano prima o poi avrà dei problemi. Si intravede anche, sulla sinistra dell'immagine, il donatore, che cercò di metterla giù dura, esigendo di essere rappresentato pure lui, visto che era quello che pagava, e il Cossa l'accontentò, però a suo modo: la Madonna guarda noi, da mamma bella e severa però di fondo amorosissima, il Bambino si compiace della forza sia pure infantile e della bellezza riccioluta, i due santi pensano ai fatti loro, certamente importanti, insomma, il donatore non l'ha in nota nessuno: se ne sta lì, in secondo piano -praticamente in un angoletto- inginocchiato ed a mani giunte da 534 (cinquecentotrentaquattro) anni. Il suo Purgatorio si sta facendo lungo.

C'è poi il ritratto maschile della Thyssen-Bornemisza (ora a Madrid, ahimè, non più a Lugano), piccolo di dimensioni ma bellissimo. Ancora si discute se sia del Cossa o del Roberti, ma sta prevalendo il Cossa. Credo anch'io così, il paesaggio di fantasia rocciosa è tipico del Cossa, ma ci potrebbe stare anche Ercole de' Roberti, che in quegli anni lavorava con lui: la meravigliosa predella del Polittico Griffoni, quella con i miracoli di San Vincenzo Ferrer, è sua, e sta attualmente nei Musei Vaticani. Non solo, il Roberti, dopo la morte del Cossa, proseguì fino a compimento gli affreschi della cappella Garganelli in San Pietro di Bologna.


Il ritratto sembra meno improntato a terribilità delle altre opere del Cossa, solo che va ricordato che, oltre ad essere un ritratto vero, non un santo effigiato anche come santo, si tratta di un quadro di fidanzamento (nella mano il giovane regge un anello, e le fidanzate è bene non spaventarle). Ma la fermezza dello sguardo, la cura fisionomica che non sconfina mai in eleganza fine a se stessa è tutta del Cossa (o del Roberti nel momento in cui è più cossesco).

Torno alla Santa Lucia di Washington, la protettrice della vista, perché come martirio le cavarono gli occhi. Difatti spesso è effigiata con un piattino su cui ci sono i due globi oculari. Ma il Cossa, su quel fondo oro, voleva fare una cosa diversa, ed inventò lo stelo di un fiore che la santa tiene in mano. Alla fine dello stelo, non c'è un fiore, ma due. Sono gli occhi della Santa, occhi che ci guardano. Pur essendo su fondo oro, questi occhi-fiori non vogliono sedurci con le raffinatezze e le meraviglie del gotico internazionale, quello di Gentile da Fabriano, di Masolino da Panicale, del Pisanello. Sono occhi veri che ci scrutano, e lo sguardo è quello deciso e dominante di una persona effigiata da Francesco del Cossa, non ci sono alternative.



lunedì 10 dicembre 2007

Tu alla cassa 5. Io alla 6


Auguste Rodin: Young Girl with Roses on Her Hat




Tu alla cassa 5. Io alla 6

di Remo Bassini




Signore, signore, fa 22 e 75, signore… guardi che c’è la coda.
C’era la coda, c’era ressa, c’era che non trovavo la carta di credito; e così ti ho persa di vista. Io ero alla cassa numero 6, tu alla 5.
Lo so, ne sono certo: mi hai visto, ne son certo, ma poi hai abbassato la testa. Non dovevi.
La canzone di Venditti diceva
la più carina, la più cretina, cretino tu, che rideva sempre…

Già: tu eri la più carina. Cretina no, non lo eri.
Bella, intelligente, inavvicinabile. Eri troppo per me. Per la mia timidezza. Mi bastava sognarti.

Quel sabato pomeriggio. Autunno o primavera, chissà. Sono bello, sono giovane. C’è il sole, è triste, sembra malato. Ma è sabato pomeriggio: non si pensa alla scuola, oggi.
Ti vedo, sei con loro. Sei con i Tre e io con i Tre non sono mai riuscito ad andare d’accordo. Addirittura con Uno ho pure fatto a botte. Cazzotti. Ha due anni più di me, ma credo che il match sia finito in parità. Mi spiace vederti con i Tre, mi spiace vederti soprattutto con lui, l’Uno.
Vi incrocio. Saluto distrattamente, Ciao, Ciao mi dite tutti, ma io guardo solo te, che rallenti, che, non ci posso credere, ti fermi. Ti fermi e dici (sorprendedo quei coglioni):
Ti aggreghi? Facciamo un giro alla Upim e poi andiamo in cremeria.
No, grazie, rispondo, e proseguo, e, proseguendo, per poco non vado a sbattere contro un palo: non me lo sarei perdonato. Mi sarei suicidato fosse successo.
(Per un attimo vedo i tre che si piegano dalle risate e vedo anche te che ridi mentre io son per terra, e sanguino: lo volete capire o no che può essere una cosa grave, gravissima, anzi, morirò: o mentre mi trasportano in ospedale o quando mi dimettono. Perché so già, pensando a te che ridi, che per me non avrebbe più senso vivere.)
Mi è andata bene, però.
Sono ancora giovane e bello: come gli eroi solitari. Tex Willer o Che Guevara, non importa.
E faccio finta di niente, e continuo a camminare. Penso al palo (che figura di cacca avrei fatto), penso a te, a come sei vestita
bella, col fermaglio tra i capelli a forma di stella…
oppure no, meglio questa
quella tua maglietta fina, tanto stretta che…
penso che forse avrei fatto bene a venire, accettare il tuo invito. E penso anche a come sarà il mio sabato: a camminare, da solo.
Faccio quanti metri?, venti?, cinquanta?, cento? e poi mi giro. Oggesù. Non ti sei mossa, sei ancora lì che mi guardi, mi guardi e mi fai un cenno con la mano come a dire Vieni, Vieni, Vieni e mi sembra che il tuo viso sia serio e al tempo stesso sorridente.
Ti saluto da lontano, e, portando a spasso con me la tua immagine, sono contento: ti ho dimostrato che sono forte, che io
solo me ne vo per la città

Poi ti rividi, certo, in quegli anni. Tante volte. Poi crescendo ti persi di vista. Poi ti rividi e ti persi di vista, ti rividi e ti ripersi di vista. Finché un giorno, all’incirca un anno fa, ti incrocio. In un bar. Io prendo il caffè con un amico, tu sei sola, sei di fretta, sei fuggita via dopo uno ciao di rimando al mio.
Faccio in tempo a vedere.
Il viso deturpato da.
Hai una smorfia, che ti strazia il viso, i lineamenti.
Poi ti ho rivista al supermercato, pochi minuti fa.
Tu alla cassa 5, io alla 6.
Tu, cazzocazzocazzo, hai ANCHE un fazzoletto in testa.
Eri bella, intelligente, inavvicinabile.
Sei ancora bella, sei quella che quel sabato mi facesti sentire un eroe bello e solitario.
Vorrei abbracciarti, ora, vorrei dirti: Sai che sono innamorato ancora di te?
Volevo salutarti, chissenferga se la gente dietro di me, alla casa numero 6, sbuffava.
Ero io stavolta che volevo dirti Vieni, vieni, vieni…

Su La poesia e lo spirito

sabato 8 dicembre 2007

Stasera lungo il fiume...






Stasera lungo il fiume...

di Clelia Mazzini




Stasera lungo il fiume la luce è repentinamente mutata.
Il sole ha inflitto una cesura alla mia sete di nuovi percorsi. Sono tornata indietro, verso casa, prima che il buio mi cogliesse troppo lontana dal sentiero.
Un piccolo, semplice capriccio della mente ha acceso un ricordo. Un fuoco lontano lo ha alimentato. C'è sempre uno scandalo che ci brucia nel cuore e un deserto non è mai un deserto fino in fondo. Riconosco gli alberi a uno a uno, e loro mi riconoscono?
Più mi avvicino a casa e più sono alti.
Mi aspetteranno? Sapranno veramente chi sono?
Ora il cielo non ha mantenuto che un sottile lembo di luce: rossiccia, insicura, malinconica. Tre gocce di anice in acqua e l'amaro percorre il suo spazio. L'udito non raccoglie segreti, la terra non restituisce che inganni.
La notte porterà il suo nitore, mi darà il suo presente e io veglierò sul passato.
Su ogni passato che ho visto, nascosto e amorevolmente conservato.

°

Con il canocchiale capovolto mi capita di viaggiare a ritroso verso i luoghi che mi hanno vista felice. Altre sono le realtà che ora mi attendono, altre le vite.
Non mi muovo di qui, aspetto di partire verso nessun luogo. Non si offre serenità se non a quei viaggiatori che colgono nel domani l'innocenza di ciò che è stato ieri. Il divario del tempo vissuto da quello immaginato è il fondamento di ogni possibile ironia. Chi mi disse questo? Chi mi sussurrò per primo all'orecchio delle parole blasfeme (per la me stessa di allora)? Era una persona che aveva ragione, qualcuno che a distanza di anni sa di aver mirato bene e colpito.
Ma non mi ha fatto del male.
Ha salvato un dettaglio, regalandomi il tutto.

°

Ho più perdonato o sono stata più perdonata? La questione non è irrilevante.
Anais Nïn scriveva che sul problema del perdono ci giochiamo la vita e io le credo. E la perdono per avermi fatto passare una sera - un'intera sera - a interrogarmi sul fatto se avevo o meno perdonato quanto era giusto fare. La risposta non mi ha soddisfatto del tutto. Forse sono stata reticente con la mia coscienza e con la mia memoria. Riceverò comunque un sensato perdono da loro.
Mi accompagnano da tempo, mi conoscono bene.


18 ottobre 2007

Da Akatalepsia

Anais Nïn