lunedì 10 dicembre 2007

Tu alla cassa 5. Io alla 6


Auguste Rodin: Young Girl with Roses on Her Hat




Tu alla cassa 5. Io alla 6

di Remo Bassini




Signore, signore, fa 22 e 75, signore… guardi che c’è la coda.
C’era la coda, c’era ressa, c’era che non trovavo la carta di credito; e così ti ho persa di vista. Io ero alla cassa numero 6, tu alla 5.
Lo so, ne sono certo: mi hai visto, ne son certo, ma poi hai abbassato la testa. Non dovevi.
La canzone di Venditti diceva
la più carina, la più cretina, cretino tu, che rideva sempre…

Già: tu eri la più carina. Cretina no, non lo eri.
Bella, intelligente, inavvicinabile. Eri troppo per me. Per la mia timidezza. Mi bastava sognarti.

Quel sabato pomeriggio. Autunno o primavera, chissà. Sono bello, sono giovane. C’è il sole, è triste, sembra malato. Ma è sabato pomeriggio: non si pensa alla scuola, oggi.
Ti vedo, sei con loro. Sei con i Tre e io con i Tre non sono mai riuscito ad andare d’accordo. Addirittura con Uno ho pure fatto a botte. Cazzotti. Ha due anni più di me, ma credo che il match sia finito in parità. Mi spiace vederti con i Tre, mi spiace vederti soprattutto con lui, l’Uno.
Vi incrocio. Saluto distrattamente, Ciao, Ciao mi dite tutti, ma io guardo solo te, che rallenti, che, non ci posso credere, ti fermi. Ti fermi e dici (sorprendedo quei coglioni):
Ti aggreghi? Facciamo un giro alla Upim e poi andiamo in cremeria.
No, grazie, rispondo, e proseguo, e, proseguendo, per poco non vado a sbattere contro un palo: non me lo sarei perdonato. Mi sarei suicidato fosse successo.
(Per un attimo vedo i tre che si piegano dalle risate e vedo anche te che ridi mentre io son per terra, e sanguino: lo volete capire o no che può essere una cosa grave, gravissima, anzi, morirò: o mentre mi trasportano in ospedale o quando mi dimettono. Perché so già, pensando a te che ridi, che per me non avrebbe più senso vivere.)
Mi è andata bene, però.
Sono ancora giovane e bello: come gli eroi solitari. Tex Willer o Che Guevara, non importa.
E faccio finta di niente, e continuo a camminare. Penso al palo (che figura di cacca avrei fatto), penso a te, a come sei vestita
bella, col fermaglio tra i capelli a forma di stella…
oppure no, meglio questa
quella tua maglietta fina, tanto stretta che…
penso che forse avrei fatto bene a venire, accettare il tuo invito. E penso anche a come sarà il mio sabato: a camminare, da solo.
Faccio quanti metri?, venti?, cinquanta?, cento? e poi mi giro. Oggesù. Non ti sei mossa, sei ancora lì che mi guardi, mi guardi e mi fai un cenno con la mano come a dire Vieni, Vieni, Vieni e mi sembra che il tuo viso sia serio e al tempo stesso sorridente.
Ti saluto da lontano, e, portando a spasso con me la tua immagine, sono contento: ti ho dimostrato che sono forte, che io
solo me ne vo per la città

Poi ti rividi, certo, in quegli anni. Tante volte. Poi crescendo ti persi di vista. Poi ti rividi e ti persi di vista, ti rividi e ti ripersi di vista. Finché un giorno, all’incirca un anno fa, ti incrocio. In un bar. Io prendo il caffè con un amico, tu sei sola, sei di fretta, sei fuggita via dopo uno ciao di rimando al mio.
Faccio in tempo a vedere.
Il viso deturpato da.
Hai una smorfia, che ti strazia il viso, i lineamenti.
Poi ti ho rivista al supermercato, pochi minuti fa.
Tu alla cassa 5, io alla 6.
Tu, cazzocazzocazzo, hai ANCHE un fazzoletto in testa.
Eri bella, intelligente, inavvicinabile.
Sei ancora bella, sei quella che quel sabato mi facesti sentire un eroe bello e solitario.
Vorrei abbracciarti, ora, vorrei dirti: Sai che sono innamorato ancora di te?
Volevo salutarti, chissenferga se la gente dietro di me, alla casa numero 6, sbuffava.
Ero io stavolta che volevo dirti Vieni, vieni, vieni…

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1 commento:

Anonimo ha detto...

Bel pezzo battistiano: "Perché no? Perché no? Perché no? Perché no? Scusi lei mi ama o no?"