Sul limitare della strada che attraversa il parco regionale del Verdon, poco prima che si tuffi nella discesa che dall'altopiano riporta a fondo valle per andare a ricongiungersi con le enormi distese della valle di Manosque, a grano e frutta, solcati dalla Durance cantata da tanti poeti francesi, ecco proprio prima c'è un cartello che dice “Fox Amphoux” e più sotto “chef-lieu”, che ne vorrebbe far intendere in modo sibillino una qualche importanza. Ancora più sotto, disordinatamente, un cartellino azzurro poco più che manoscritto che annuncia “Tessitura” e che più che altro conferma che ci troviamo al sud, nel Midi, dove il suo disordine e la sua fattura artigianali non sono un vezzo ma ancora una realtà. 300 km più a nord il nostro “Tissage” avrebbe fatto bella mostra di sé in un cartello altisonante piantato dall'azienda di soggiorno, con tanto di fronzoli ed avalli amministrativi.
La curiosità ieri è stata irreprimibile, così abbiamo imboccato la stradina, sempre più stretta e bozzuta, costeggiata dai quercioli, i ginepri e un po' di quella macchia che da queste parti si chiama garrigue, che lasciava planare lo sguardo solo al cielo, talmente era fitta ed odorosa.
La stradina si faceva sempre più stretta e ardua, gli affossamenti sempre più pronunciati e coperti d'acqua, piove da due giorni e la natura è contenta. Noi un po' meno. Un incrocio in cui è difficile capire quale sia la strada maestra, poi la stradina, ormai angusta e stretta tra uno strapiombo ed una parete, uno spigolo di una vecchia fattoria dismessa ed una buca, si inabissa in una specie di cortile, non si capisce più se si è già nel paese o direttamente e senza esitazioni a casa di qualcuno.
Ma è strano il silenzio. Non tutti i silenzi sono uguali. Questo è strano, davvero immobile. Siamo sul poggio, si vedono le mura diroccate di alcune case e dietro alberi e cielo. La stradina ormai percorribile solo a piedi si insinua tra le pietre ed i muri, porte chiuse, persiane serrate, fiori di ippocastano a terra, un tappeto spesso e talmente profumato da togliere il respiro. Un gruppo di iris pervinca, poi una parete di roselline. Tra rientranze e sporgenze, è tutto chiuso ma questo “paese” vive, c'è. Si sente dall'odore. Passaggi a volta in cui sono incastrati ferri, fili elettrici stentati. I portoni sono puliti, ci sono targhette sopra con nomi fantastici: “Liliums en tempête”, “Vasquez rubio”, “Atelier de tissage” (eccolo! È lui, mi dico).
Per terra talvolta ghiaia, talvolta pietrisco. La geometria del luogo è incomprensibile. Guardando in alto si vede un campanile, ci deve essere una chiesa. Ridiscendendo lungo una strada più principale delle altre, ecco infine una piazzetta, un miracolo di dolcezza, accoglienza, calore. Una fontanella con su scritto “acqua potabile”, una cassetta della posta. Non c'è nulla, non ci sono negozi, insegne, persone, nulla. Poi, quasi accanto alla chiesa, nascosta tra i tralci di un glicine bianco ed una vite americana, una porticina con su scritto “hotel”.
Apro la porta e cado a piè pari nella fiaba. Una dimora calda e accogliente, rustica ed elegantissima, un piccolo salotto con tante piante, lampade, una strana testa di bacco appesa nel mezzo di una cornice dorata senza quadro, le finestre non danno quasi luce, oscurate dalle piante dentro e fuori, le poltrone di pelle nera coperte di cuscini di vago sapore orientale, tanti kilim a rischiararle, e poi libri. Sotto ad una finestrina c'è il De Bello Gallico, in latino. Un libro di foto di Lucca. Tanti libri in inglese. Guardo oltre, mi muovo timidamente, sopraffatta dal colore e dalla magia inattesa, dal silenzio e dall'immobilità, quasi fosse un posto in perenne attesa. Una sala da pranzo piccola, complice, discreta, ovattata. Dalle finestre si vede il mondo. Ma dov'è, allora, quel mondo? Ci deve essere un segreto …
Torno indietro, camminando piano sulle piastrelle di cotto rosse e ottagonali, antiche, sbrecciate, lucide. La scala, storta, bianca, con travi di legno conficcate qua e là fa indovinare le stanze: ce ne sono solo 7, tutti nidi di pace. Un gradino alto di pietra, attenzione alla testa perché l'arco è basso, porta allo studiolo dove l'albergatore riceve i suoi ospiti. Altri libri, tanti, col loro odore fantastico e un po' umido. Fuori sta scendendo un acquazzone, una strana coppia con due bambine bionde ed esili rientra dalla porticina magica, parlano una lingua strana, lui sembra lei (sguardo dolce, occhi di mare) e lei sembra lui (voce dura e roca, carabiniera mancata). Esitano: dentro o fuori. E la porta aperta offre un nuovo sguardo alla piazzetta inverosimile, col suo albero gigantesco al centro, col tronco triplicato e le foglie giovani, piccole ma ombrose. La porta si richiude, l'acquazzone può attendere. Le chiavi delle camere sono lì, di ferro, appese, con una targhetta annodata con la corda. Sono belle. Prendiamo un caffè, uno sguardo al De Bello – non ci capisco più niente – e una rapida lettura del libro inglese che cita Fox Amphoux, ex accampamento romano. La chiesa è del 1100. L'albergo del 1500, come molte case sulla piazzetta. La gente è morta e quella nuova non si vede. L'albergo è gestito da una inglese. Complimenti. Il ristorante è celebrato, si raccomanda di prenotare. Ma come diavolo si fa ad arrivare qui?
Poi l'ho capito. Basta sognare. Sognare ad occhi aperti. E il mondo cambia volto. Dalla piazzetta si esce su un belvedere. Adesso non si vede più solo il cielo, si vede la valle e da questa altura si domina tutto, lo sguardo si perde e il senso di solitudine è immenso. Non si vedono case, neanche fattorie, nulla. In paese non c'è neanche un forno. C'è solo il piccolo hotel. La tazzina del caffè aveva delle roselline discrete, l'ho tenuta in mano come fosse una foto antica e scolorita. Ora guardando il mondo, quello che si rubava dalle finestre dell'hotel, immerso nel cielo ingrigito dai nuvoloni, risentivo tra le mani la tazzina con le rose, il suo calore, il benessere di guardarsi intorno e scoprire le lampade di luce gialla accese, neanche un pezzo di tecnologia apparente, nessun timer che sordo scandisse i secondi, gli attimi, tentando malamente di sostituire i vecchi orologi a cucù o le pendole lugubri ed ipnotizzanti. No. Non un telefono, tantomeno un telefonino, la tecnologia è bella quando se ne resta nascosta.
Neanche il pannello solare 80x80 circa poggiato non si sa come né da chi sul bordo del precipizio, è riuscito a ferire il paesaggio. Neanche le tre macchine parcheggiate a ridosso degli alberi.
Un ultimo sguardo alla piazzetta silenziosa, sotto l'ultimo scroscio, la luce del tramonto annunciato, i passi che non fanno rumore sul tappeto di foglie e fiori strappati dal vento.
Fox Amphoux, Provenza orientale.
(4 maggio 2002)
Su Arengario: I bei momenti
5 commenti:
un blog splendido.
davvero.
un saluto
marco
Adoro la Francia. Sono stata in Provenza due anni fa, ma Fox Amphoux mi è mancata. Peccato. O per fortuna, così ho una scusa per tornarci...
[:->>>]
Roby
Habanera, hai fatto benissimo ad inserire il Bel Momento a suo tempo scritto da Letizia.
Letizia con fantasia (però concreta), immediatezza e spesso riesce a sorprendere chi legge.
Qui si sente che a Fox Amphoux è stata benissimo: è un posto che, prima del Bel Momento, non avevo mai sentito nominare.
A questo si aggiunge che, vista la discussione di ieri sulla Francia (per meglio dire, sui francesi...) in Abbracci e pop corn, significa che ci sono anche dei posti su cui è possibile pensarla alla stessa maniera.
saludos y besos
Solimano
Benvenuto, Imperium, e grazie per la visita.
Ho visto che il tuo blog è nato da poco e ti faccio tantissimi auguri per un proseguimento felice.
Roby, sono assolutamente d'accordo.
Tutte le scuse sono buone per ritornare, anche per la milionesima volta, in Francia.
Sol, mi fa piacere che tu approvi la scelta di questo brano di Letizia.
Si legge sempre volentieri e fa venire una gran voglia di mettere quattro cose in valigia e partire alla scoperta di questo misterioso e affascinante paesino provenzale.
A tutti, un abbraccio
H.
Bellissimo brano e cheposto stupendo... Giulia
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