mercoledì 30 luglio 2008

Il castello di Ozalj


Castello di Ozali, visto di fronte


Il castello di Ozalj
(Confessioni di un poeta finto -10)

di Solimano


Avrete certamente notato che non ho ancora detto il nome del mio ultimo periodo. Non l’ho fatto perché la poesia precedente sta un po’ lì a mezza strada: non è più del periodo “Eh… eh!” e non è ancora del periodo successivo, il cui nome è “Poesia, forse.” Ed ecco la prima delle due poesie che compongono desso periodo, seguirà la spiega, indispensabile e pedantissima:

Il castello di Ozalj

Fuggire a testa bassa
Il fiume vegetale della vita
Ed il ponte di legno malsicuro
Le macerie nel cortile scrostato
Osservare dal nido.

Orso al guinzaglio, spasso per bambini,
O capra trascinata per le corna
Nel recinto fangoso?
Il levantino biondo,
Piacere esibito di donna estrosa,
Afferra vorace la sua esistenza
Di topo nel formaggio.

Stanca dignità di valigie ordinate,
Languore circolare in un sorriso
Di denti sinistrati?
No: destrezza del momento propizio
Raccolto ancora acerbo
Con gesto necessario.

Il castello di Ozalj esiste, e sta in Croazia. Tutta la poesia si basa su mie percezioni durante un lungo viaggio nell’interno della Jugoslavia -oggi non più esistente- e che toccò Bosnia ed Erzegovina, regioni un po’ selvagge come natura, orografia e persone.
Il fiume vegetale da cui pretendo di fuggire è la vegetazione prorompente fra le mura del castello e il fiume sottostante, che si noma Kupa.
Il ponte di legno malsicuro lo percorsi proprio nel castello. Scopersi anni dopo che Attilio Bertolucci, in una poesia successiva, scrisse “ponticello di legno malsicuro”, casualità de’ poeti sia veri che finti!
Il cortile del castello era ingombro di macerie edilizie, derivanti forse da un restauro mai perfezionato.
Il nido è un nido di rondine sotto l’arcone di ingresso al castello. Spuntavano le teste dei rondinini, ed i genitori erano impegnatissimi con l’avanti e indietro per nutrirli.
Vidi, in Bosnia, gli orsi al guinzaglio - con le necessarie e robuste museruole - e vidi le capre trascinate una ad una acciocché non si perdessero.
Il levantino biondo -si capisce che è da me invidiato- era uno dei tanti mezzo zingari mezzo croati che si sollazzavano in feste vivaci; le loro donne ne erano ghiotte, contente di mostrarla, la ghiottoneria.
Vidi anche le valigie ordinate delle comitive appena giunte o in partenza dagli alberghi, e mi colpì in tal modo che ne scrissi con un dodecasillabo: “stanca dignità di valigie ordinate”, che cercai per anni di mutare in endecasillabo, niente da fare, ne usciva sempre qualcosa di più debole, mentre era la forza che cercavo.
Tutti gli altri versi sono endecasillabi o settenari.
Ascoltai le canzoni zingaresche e la rapsodicità languorosa che sempre su di sé ritorna, e vidi la cantante mostrare i denti pieni di ori.
Vidi, infine, il prodigioso bassorilievo di Traù -Trogir, per i croati- il Kairos di arte greca classica (immagine a destra del post). E’ l’opportunità, il momento propizio, difatti il giovane del bassorilievo ha un grande ciuffo ma la nuca rasata: il momento propizio non va lasciato passare, non si riesce più ad afferrarlo.
Tutto vidi, e tutto indossai su miei pensieri, emozioni, sentimenti che non trovavano via di sbocco per manifestarsi se non così. Mi espressi, faticai a farlo ma mi piacque, e mi piace tuttora leggerla, questa poesia.

Nido di rondini (particolare di una fotografia di Beppe Miceli)

Castello di Ozalj, visto dall'alto

Multi-mediocrità


Paul Klee - Testa d'uomo 1922- acquarello


Multi-mediocrità

di Massimo Marnetto




Io rappresento la “multi-mediocrità”.

So fare tante cose, ma male: suonare la chitarra, cucinare, parlare l’inglese, nascondere la noia, usare il computer, ecc.

Eppure, ho le mie “eccellenze”: spiegare, caricare la lavastoviglie, inventare storie, guidare senza far sentire le curve, cantare, osservare, capire i sentimenti degli altri.

Quest’ultima qualità la devo tutta a una brutta poliomelite che mi sono preso a 4 anni e che ho in gran parte superato passando migliaia di ore nuotando.
E studiando gli sguardi delle persone, per distinguere quello pietoso, l’impaurito, l’incoraggiante…

Un esercizio che ha sviluppato tanto la mia “empatia”, da poter dire che dalla polio ho avuto più di quanto mi ha tolto.

lunedì 28 luglio 2008

Fermo




Fermo

di Massimo Marnetto




Già dalle cassette delle lettere zeppe di posta capisco che il condominio si sta svuotando. Come ogni anno si avvicina questo momento magico che dura sempre meno, come meno durano le vacanze della gente.

Io lo chiamo il "Fermo"

Pochi strani giorni in cui tutti i suoni che abitano il cortile, voci, radio, tv... si attenuano, fino a sparire del tutto.
Per lasciare spazio solo al silenzio e a un caldo di cicale.

Il "Fermo" avviene sempre in momenti diversi, ma sempre tra la fine di luglio e l'inizio di agosto. Adesso.

Attraverso il cortile con la ghiaia abbacinante di sole messicano che fa male agli occhi, le palme ferme nell'afa,
i gatti immobili e con gli occhi a fessura, negli stretti angoli d' ombra.

Sembra un incantesimo.

E io sento il rumore dei miei passi mentre entro nell'alito fresco delle scale di travertino. Apro la porta di casa, ha un odore diverso. E' bollente con l'aria vecchia e la polvere sulle foto all'ingresso. Accendo il ventilatore dello studio, apro la finestra, sento che ho la camicia attaccata alla schiena sudata.

Vado in bagno per lavarmi la faccia, ma anche l'acqua fredda è calda. Lascio che scorra un po'.

E' strano, questo caldo e questa solitudine mi piacciono.

Mi sembra un'atmosfera da western, di quelle magiche di Sergio Leone dove la lentezza dilata le emozioni come una lente d'ingrandimento... L'acqua fresca sul viso mi fa bene.
Chiudo la finestra, spengo il ventilatore e mi tiro la porta dietro.

E subito mi sembra che dentro casa, finalmente di nuovo vuota, escano dai loro nascondigli James Coburn, Rod Steiger... con i loro poncho pidocchiosi e con un pessimo alito per farsi l'ultimo goccio di rum in pace.




sabato 26 luglio 2008

Tristram Shandy (3)


Gli uomini si tormentano per le opinioni che hanno delle cose,
non per le cose


Tristram Shandy (3)
(Laurence Sterne)

postato da Giuliano




Che galoppata ho fatta sin qui, con corvette e impennate, a due per volta, per quattro volumi di seguito, senza voltarmi una volta indietro o di lato per vedere chi calpestavo. "Non calpesterò nessuno, - dissi tra me quando montai in sella. - Me ne andrò ad un sonante galoppo, ma non urterò il più umile somaro che incontrerò sulla strada".
E partii, su per un viottolo, giù per un altro, qui infilando un varco, là saltando una barriera, come se avessi avuto in groppa con me il più diabolico dei fantini.



Ora, a questa andatura, con tutte le migliori intenzioni e propositi, ci sono un milione di probabilità contro una che voi combiniate qualche malestro, se non a voi stesso, agli altri. E la gente a gridare:
- E' disarcionato - è sbalzato di sella - è partito - è giù - non ancora, ma finirà col rompersi il collo - vedete, è andato a sbattere contro l'armamentario dei critici più audaci - si fracasserà le cervella contro un palo - lo ha schivato - eccolo là che corre all'impazzata, piomba nel folto d'un mucchio di pittori, violinisti, poeti, biografi, avvocati, filosofi, suonatori, scolastici, ecclesiastici, statisti, generali, casuidici, esperti, prelati, pontefici, ingegneri.
- Niente paura, - mi dissi io: - non farò male a nessun povero diavolo che cavalchi sulle vie maestre.
- Ma il vostro cavallo schizza fango; ecco, avete inzaccherato un vescovo.
- Fido in Dio, - rispondo-. - non era che Ernulfo.
- Ma avete schizzato in pieno anche le facce dei Signori Le Moyne, De Romigny, e De Marcilly, dottori della Sorbona.
- Acqua passata, roba d'un anno fa.
- Ma solo un momento fa avete pestato i piedi ad un re.
- Poveri re, se si fan pestare i piedi da un poveraccio come me.
- Eppure è quello che avete fatto or ora, - risponde il mio accusatore.
- Lo nego, - ribatto io. Ed eccomi smontato, eccomi qui a terra con la briglia in mano e il berretto nell'altra, pronto a riprendere la mia storia.
- Che storia è?
- La udirete nel prossimo capitolo.


Capitolo ventunesimo
Non sarebbe male, - incominciò Francesco I , re di Francia mentre, una sera d'inverno, si scaldava alla brace di un fuoco di legna e parlava col suo primo ministro di varie cose interessanti il bene dello stato. - Non sarebbe male, -disse, mentre andava attizzando la brace col suo bastone, - se rafforzassimo questa buona intesa tra noi e la Svizzera.
- Sire, - rispose il ministro: - non c'è scopo a dar denaro a quelle gente; ingoierebbe il tesoro di Francia.
- Poh, poh! - rispose il re. - Vi sono diverse altre maniere, Signor Primo Ministro, dì corrompere gli stati, oltre a quella di dar loro denaro. La Svizzera avrà l'onore di fare da padrino al mio prossimo figlio.
- Vostra Maestà, - rispose il primo ministro, - si tirerà addosso le furie di tutti i grammatici d'Europa. La Svizzera come repubblica è femminile e non può in nessun modo fare da padrino.
- Potrà fare da madrina, penso, - rispose il re, scattando. - Per cui mandate ad annunciare le mie intenzioni con un corriere, domani mattina. (...)
(Laurence Sterne, Tristram Shandy: volume quarto, capitoli ventesimo e ventunesimo )



Vorrei saper scrivere un capitolo sul sonno. (...)
Oh, le parole di Sancio Panza! "La benedizione di Dio discenda sull'uomo che per primo inventò questa precisa cosa che si chiama sonno: essa copre tutto l'uomo con il suo mantello."
(Laurence Sterne, Tristram Shandy: volume quarto, capitolo quindicesimo )


Per parte mia, essendo appena un principiante in questa materia, ne so poco; ma, a mio giudizio, scrivere un libro è in tutto e per tutto come intonare una canzone: non importa, signora, che il vostro tono sia alto o basso, purché voi riusciate a mantenervi intonata. E' per questa ragione, mi concedano le vostre reverenze, che alcune delle più scadenti e delle più piatte composizioni s'impongono al pubblico (come disse una sera Yorick a mio zio Tobia) "d'assedio". Ricordo che mio zio Tobia aguzzò gli occhi al suono della parola "assedio", ma non capì che senso potesse avere.
(Laurence Sterne, Tristram Shandy: volume quarto, capitolo ventiseiesimo )


Da questo momento io devo essere considerato erede presuntivo della famiglia Shandy; da questo punto comincia la vera storia della mia vita, e delle mie opinioni. (...) Ed ora che siete giunti al termine di questi quattro volumi, ecco la domanda che volevo farvi: come vi sentite la testa? La mia mi fa terribilmente male.
(Laurence Sterne, Tristram Shandy: volume quarto, capitolo trentaduesimo )


Pogo di Walt Kelly è stato pubblicato dal mensile “Linus” negli anni ’60.
Il ritratto di Laurence Sterne è opera di Joshua Reynolds; le immagini della prima edizione del “Tristram Shandy” vengono dal sito della Glasgow University Library.
La versione italiana è quella di Antonio Meo e Giorgio Melchiori (Oscar Mondadori).




giovedì 24 luglio 2008

Mobbing in famiglia


William Merritt Chase: A Portrait of a Woman, 1890
Metropolitan Museum of Art, Manhattan


Mobbing in famiglia

di Remo Bassini




Sembrava un bel pranzo colorato di primavera, tra amici. Quindici persone. Gente adulta, benestante, i figli ormai grandi sono altrove.

Si banchetta, si ride e si scherza. E si brinda. Arrivano dolce, caffè, calvados o cognac, e amari. La giornata è illuminata da un sole caldo, la compagnia è piacevole e la padrona di casa - involontariamente - rutta.
Tutti fan finta di niente, chisseneimporta.
E invece.
«Fai schifo, ogni giorno che passa fai sempre più schifo» sbotta il marito, nel cui viso si staglia una smorfia che è peggio di un insulto. Su tutto cade una cappa di gelo, di imbarazzo, di sguardi che cercano rifugio oltre le finestre spalancate, verso il prato coi riflessi di sole, oppure sotto il tavolo.
Lei si porta le mani al volto, singhiozza, si alza, vacilla e quasi casca, ma nessuno che vada a sorreggerla mentre, barcollando, fugge in cucina. Nessuno che dica una parola. Del resto si sa.

Sembrava un bel pranzo colorato di primavera, tra amici. Quindici persone. Gente adulta, benestante, i figli ormai grandi sono altrove. Insomma, stessa scena.

Con la padrona di casa che - improvvisamente - rutta.
Non l’ha fatto apposta, è chiaro a tutti, si dovrebbe continuare, far finta di niente: e invece…
«Fai schifo, ogni giorno che passa fai sempre più schifo», farfuglia il marito, tra l’imbarazzo generale e un silenzio che dura un attimo.
Perché lei, dopo un sorriso e uno “scusate” per gli ospiti, guarda il consorte e lo gela, con lo sguardo ma non solo: «Che dici Carlo, mi chiedi scusa subito?, o aspettiamo che se ne vadano tutti?» dice, scandendo bene le parole.

Ci raccontasti queste due storie, parlandoci di mobbing familiare, caro prof.
Più che raccontare ce le facesti vedere. Il prato era verde e la barba dei mariti bianca, curata alla perfezione.
Dicesti anche: «Ragazzi, considerate che c’è sempre di mezzo il caso. Sempre. Due mariti teste di cavolo, uno con la moglie che s’ingozza di psicofarmaci, forse perché sta invecchiando ed è troppo grassa, e che finirà prima dallo psicanalista, poi sul giornale per un tentativo di suicidio sventato in zona Cesarini, e infine da un maresciallo, a dire, dirgli che ne ha basta di un marito che la tradisce da anni, che la tratta come una bestia di fronte a tutti, umiliandola, e che le molla anche qualche ceffone, ma non solo, non solo. Ha fatto in modo che i figli la odino, che si vergognino di lei. E poi non la sfiora nemmeno più. Preferisco farmi una sega, le dice, anzi no: le sussurra piano, così che nessuno sappia. Così che un qualsiasi maresciallo, un giorno, non potrà che dire: «Signora, ho bisogno di qualcosa di concreto, non posso intervenire. Si rivolga a un avvocato, ma ne scelga uno bravo, altro non le so consigliare».
«Ma signor maresciallo, mi ascolti… è arrivato al punto di portare a casa le sue amanti; e i miei figli la sera escono con lui, con lui e quelle puttane, e quando gli chiedo i soldi per la spesa mi dice che dovrei andare a lavorare; certo che vorrei, ma a 54 anni?, come si fa, a 54 anni? E dove li trovo i soldi per un avvocato, io?».
Quella donna, ci dicesti, si sentirà impotente, umiliata; un giorno, forse, potrebbe fare di tutto, anche togliersi la vita: «Ai calpestati a volte non resta altro».
Solo ora capisco, so il significato di quella frase.
E so che i due mariti sono la stessa persona.
Il primo potrebbe essere condannato: o dalla legge o dai sensi di colpa se lei s’ammazza.
Il secondo no.
Ha una moglie che non si fa mortificare in mezzo a tutti, anzi.
E poi, non s’ammazzerà, lei, non piangerà, non si vendicherà, non scatenerà sensi di colpa che durano una vita. Solo tanta paura quando la si tradisce, con qualsiasi segretaria più o meno conseziente, in ufficio.
E tu, professore, eri come uno dei due mariti.

Professore, dicevi che il mobbing invisibile è il male peggiore.
Le ricordo, io, le tue parole.
«Donne e uomini che soccombono, perché quando non ci sono prove non c’è neanche la legge».
«Le leggi non sanno pesare i pesi del cuore».
Le ricordo e le ho scritte tutte le tue parole, io.
A casa, quando ti pensavo; e poi a lezione ci dicevi di non prendere appunti.
Professore, non sapevamo, non sapevo io, del peso che ti portavi dentro.
A Milano, poi, c’è tanta nebbia, che avvolge tutto; e tanto smog, che avvelena; e tanti rumori di clacson, che sommergono voci e disperazioni.
La tua, professore: per una figlia forse suicida.

Eduard Charlemont : A Gentleman In An Interior, 1881
Private collection

Quando penso a te, ti dipingo. Un grande quadro, tu sei al centro. Attorno a te quattro donne. Tua madre, che guarda in alto, serena e austera. Tua moglie invece è in penombra, sullo sfondo. Poi ci sono loro, le tue due figlie. Ilaria, la più grande, la più bella, quella che ti somiglia. E Nadia, piccola e tozza, che vi guarda. E aspetta di incrociare il tuo sguardo.
Ma tu hai occhi solo per Ilaria.

L’abbiamo saputo nella tua lettera d’addio, professore.
Una lettera pubblica, per tutti. Hai creato un blog, hai postato una sola volta. Poi ti sei impiccato (e io, lo sai, perché lo sai, te l’avevo fatto capire, io ero innamorata di te).
Tua figlia Nadia si era uccisa, perché l’avevi derisa, pesantemente.
Umiliata.
Era sovrappeso, un po’ strabica.
Era carnevale di un anno prima, quando successe.
Lei che entra nel tuo studio, forse ti dà fastidio, perché stai leggendo, studiando: «Papà ti piaccio vestita da fatina?».
«Sei una palla Nadia. Giuliaaaaaa, ma quand’è che ti decidi di metterla a dieta? Questa vive di Nutella e Mulino Bianco.
E ti sembra intelligente mandarla in mezzo a tamarri e coglionazzi conciata in questo modo? Giuliaaaa, me la stai rovinando».
“Invece l’ho rovinata, l’ho distrutta io”, hai scritto nel blog.
Nadia andò alla sfilata di Carnevale insieme a due sue compagne di scuola, che poi la riaccompagnarono ma, accidenti al caso, fino all’altro lato della strada; la salutarono la lasciarono attraversare da sola, o forse fu Nadia che insistette, che disse: Andate, che sono arrivata. Attraversò, e fu investita da un’auto, sotto i tuoi occhi.
Nel blog, tu, professore, scrivesti:
“Ma non fu un incidente. Mi vide, stavo fumando sul balcone. E mi guardò, con odio. E ho una certezza, anche. Che piangeva. Ho un’altra certezza: Nadia aspettò che arrivasse un’auto, e fu fredda, spietata nella scelta: perché scelse quella che andava più di fretta, merda. Mia moglie Giulia disse che no, non era andata così. Temeva di perdermi, per questo mentì e mente tuttora”.

Professore, nel blog, hai scritto: “Chiedo cinque volte scusa”.
Scusa numero uno: a Nadia, che ti ha trascinato con sé.
Scusa numero due: a Giulia, tua moglie.
Scusa numero tre: a Ilaria, la figlia prediletta, “quella che usavo per mortificare, violentare la sensibilità e la fragilità di Nadia”. “Scusami Ilaria, meritavi un altro padre”, hai scritto.
Scusa numero quattro: Alla tua vecchia mamma; “Perdonami mamma, ma non ho ereditato né la tua dolcezza né la tua forza”.
Poi la scusa numero cinque: “E chiedo scusa a i miei studenti e alle mie studentesse dai capelli in fiore”.
Un messaggio criptato: per me. Per quella volta, al parco.

Mi raccontasti di tua madre, eri orgoglioso di lei. Ti aveva cresciuto con rabbia e con amore, dicesti.
Guardavi il vuoto, mentre parlavi. E la tua borsa da prof. la blandivi come un’arma: tesa, di fronte a te, come qualcosa che si può scagliare, o qualcosa con cui si accusa.
Ti risento, sai?
«Con la tessera del partito comunista in tasca, prima del sessantanove, prima dello Statuto dei lavoratori, dovevi lavorare il doppio se non volevi rischiare di non trovare più la cartolina da timbrare. Quando ti licenziavano non si sprecavano nemmeno a dirtelo, o scrivertelo. Ti toglievano la cartolina, via, espulso. Vai a fare la puttana se vuoi mantenere i tuoi figli, così impari a fare la comunista, a perdere tempo alla Camera del lavoro».
Parlavi in fretta, scuro in volto.
«Certe sere, quando mi addormentavo sentivo la mamma che piangeva. Succedeva solo di sera, tardi, mai e poi mai si sarebbe fatta vedere piangere da me».
Non osai chiederti nulla di tuo padre. Pensai che non c’era.
(Tua madre dovette prostituirsi per mantenerti, farti studiare?)
Poi cambiasti espressione. Arrivò, anzi tornò il tuo bel sorriso, di sempre. Di quando a lezione dicevi “ragazzi”.
Ti avevo proposto io quella passeggiata.

«Hai i capelli in fiore», mi dicesti. E con la mano, frugasti tra i miei capelli. C’era un petalo di magnolia, me lo porgesti.
Mi salutasti, con un saluto diverso.
«Ciao piccola».
(Ciao piccola, era un saluto diverso. Nuovo. Mi dicevi sempre “ciao ragazza”, quando ci salutavamo, dopo aver parlato, io e te, durante l’intervallo).
Subito, ti scrissi un sms: Ti prego, torna, che ti aspetto.
Ma il cuore mi batteva forte, non lo inviai; e così è rimasto in memoria nel mio Nokia, quel messaggio che ogni tanto bacio.

Ti rividi a lezione un’altra volta, e basta. E durante l’intervallo non riuscii a incrociarti, chissà dov’eri (ero gelosa, sai?).
Non ti rividi più perché partii, insieme a mio padre, una settimana a Londra dalla zia. Accidenti ai testamenti, alle zie che non si conoscono.
Da quanto ho saputo, ti sei ucciso mentre il mio aereo stava atterrando a Milano Malpensa. Pensavo a te, sai?
Ti sei ammazzato perché hai trovato il diario di Nadia.
Ti ha ucciso una frase.
“Mio papà vuol bene solo a Ilaria”.
Hai scritto tutto nel blog, due giorni prima.
Sono mesi che vengo qui, sul parco. E cerco tra i miei capelli, petali. Però non piango, no. Scrivo di te. E le tue storie.
Del mobbing per caso. Nelle case.

Sembrava un bel pranzo colorato di primavera, tra amici. Quindici persone. Gente adulta, benestante, i figli ormai…

Da Altri appunti, Remo Bassini

Albert Lynch: A Young Beauty with Flowers in her Hair
Private collection


sabato 19 luglio 2008

Tristram Shandy (2)




Tristram Shandy (2)

postato da Giuliano




Scrivere, quando è fatto a dovere - e potete esser sicuri che tale reputo il mio - non è che un altro nome per conversare.
(Laurence Sterne, Tristram Shandy: volume secondo, capitolo undicesimo)



Se volete fare un'esperienza curiosa, andate in libreria e cercate un'edizione qualsiasi di "La vita e le avventure di Tristram Shandy, gentiluomo". Sfogliatela a caso, e vi troverete di tutto: lineette, asterischi, pagine bianche, pagine in latino, capitoli spostati, citazioni, manine puntate a indicare qualcosa di rimarchevole, lapidi, riproduzioni più o meno riuscite della carta con le quale si facevano un tempo le copertine dei libri... Quanto alla struttura narrativa, basti dire che la prefazione dell'autore è nel ventesimo capitolo del terzo volume (prima non c'era tempo), e che Tristram - che ne è protagonista e narratore - nasce dopo due terzi delle pagine che avete tra le mani. Quello che precede, e buona parte di quello che segue, sono digressioni, chiacchierate e discussioni tra i personaggi fatte nella casa del padre di Tristram. Il padre del protagonista e lo zio Tobia discorrono tra di loro, coinvolgendo servitori e altri personaggi, in attesa che il bambino, al piano di sopra, si decida a nascere; in più, deve arrivare un medico che soprintenderà al parto, grande novità per l'epoca.


Il personaggio più bello del libro è senza dubbio lo zio Tobia, reduce da una delle infinite guerre dell'epoca e spirito pacifico che, debilitato da una grave ferita, si appassiona ormai, più che alle discussioni filosofiche del fratello, a quello che è il suo hobby (hobby horse, nell'originale: il cavallino con cui giocano i bambini, magari solo un manico di scopa). L'hobby dello zio Tobia è quello di ricostruire, nel giardino di casa, le battaglie alle quali ha partecipato e quelle delle quali gli arrivano notizie: aiutato dal fedele Trim, ricostruisce in piccolo ma con grande cura fortificazioni e fossati.
Alle volte capita che nel giardino entri qualche animale e distrugga inconsapevolmente settimane e settimane di duro lavoro, il che è veramente increscioso ma in fin dei conti si può sempre ricominciare.
Insomma, qualcosa di molto inglese ma anche di molto universale: chi di noi non ha il suo "hobby horse" nel quale perdersi e dimenticarsi di qualche ferita?


Cordialmente, con tutta l'anima raccomando alla protezione di Colui che non fa del male ad anima viva, voi ed i vostri affari. Solo nel prossimo mese, se qualcuno di voi dovesse digrignare i denti, e tempestare e infuriare contro di me, come avvenne nel maggio scorso, quando ricordo che il tempo era molto caldo, non si esasperi se io ci passo sopra un'altra volta filosoficamente, essendo risoluto finché vivo o scrivo (che per me è lo stesso) a non dire una parola o far mai a nessun galantuomo augurio peggiore di quello che mio zio Tobia fece alla mosca che gli aveva ronzato sul naso per tutto il desinare. "Va', va', diavolaccia, - disse mio zio Tobia: - vattene; perché dovrei farti del male? Il mondo è di certo largo abbastanza per contenere tanto te che me. "
(Laurence Sterne, Tristram Shandy: volume terzo, capitolo quarto )



Farei 50 miglia a piedi, giacché non ho un cavallo che valga la pena di montare, per andare a baciare la mano a quell'uomo che avesse la generosità di lasciar le redini della sua fantasia nelle mani dell'autore, e si abbandonasse al piacere della lettura senza sapere né domandarsi il perché.
(Laurence Sterne, Tristram Shandy: volume terzo, capitolo dodicesimo )


Nel corso delle infinite digressioni del libro, Sterne trova il tempo di parlarci dei nomi di battesimo (quarto volume); del Tempo, di Locke e di Sant'Agostino (terzo volume, cap.18) ; del cardine di una porta da riparare (fatto vero e citazione dall'Amleto, terzo volume cap.21) ; del segreto nascosto dietro le parole scritte (terzo volume, cap.37); dei nasi e delle loro forme (volume quarto); della struttura della tragedia greca (sempre volume quarto); del nome Trismegisto e della sua importanza per il nascituro (ahimé, il nome verrà sbagliato: volume quarto capitolo 15) ; e se vi interessa l'oroscopo di Lutero è nel quarto volume, all'inizio, dentro la novella di Slawkenbergius.


Che fortunato capitolo sui casi è risultato questo! Perché mi ha risparmiato la fatica di scriverne uno espressamente, e in verità ho già abbastanza da fare anche senza di quello. Non ho io promesso al mondo un capitolo sui nodi? due capitoli sul diritto e il rovescio di una donna? uno sui baffi? uno sui desideri? uno sui nasi? - no, questo l'ho già scritto.
(Laurence Sterne, Tristram Shandy: volume quarto, capitolo nono )


(...) Non è una vergogna fare due capitoli di quel ch'è accaduto in due rampe di scale? Perché siamo arrivati solo al primo pianerottolo, e vi sono ancora 15 scalini da scendere; e, che io sappia, siccome mio padre e mio zio Tobia sono in vena di chiacchierare, vi potranno essere tanti capitoli quanti sono gli scalini. Sia come si vuole, signore, è inevitabile come il mio destino: mi prende un improvviso impulso; una voce che mi dice: "cala giù la tela, Shandy.". La calo. "Tira giù una riga di traverso qui.". La tiro. E poi ? Apro un nuovo capitolo? Diavolo se ho un'altra regola a cui attenermi in questa faccenda! E quand'anche l'avessi, siccome faccio tutto contro ogni regola, se la seguissi, finirei con l'accartocciare il foglio, ridurlo in tanti pezzi e gettarlo nel fuoco. Mi scaldo? E ne ho ben ragione! Bella storia: è l'uomo che deve seguire le regole, o queste l'uomo? (...)
Mio padre riflettè mezzo minuto, guardò in terra, si toccò in mezzo alla fronte leggermente con il dito, e:
- Vero, - egli concluse.
(Laurence Sterne, Tristram Shandy: volume quarto, capitolo nono )



Pogo di Walt Kelly è stato pubblicato dal mensile “Linus” negli anni ’60. Le immagini della prima edizione del “Tristram Shandy” vengono dal sito della Glasgow University Library. La versione italiana è quella di Antonio Meo e Giorgio Melchiori (Oscar Mondadori).



giovedì 17 luglio 2008

Neve ventosa


Pisanello: San Giorgio e la Principessa (part) 1433-38
Affresco Chiesa di Sant'Anastasia, Verona


Neve ventosa
(Le confessioni di un poeta finto -9)

di Solimano


Mi capitò, un giorno, di scrivere una poesia strana. So che non vi piacerà, ma ha una sua storia ed è diversa da tutte quelle che avevo scritto prima. Per intanto, eccola qui:

1965

Biondi capelli della Santa, avvolti
In cartigli gotici.
Madonna con ciliege
Bambino con la mela
E quella mela è il mondo.
Piazza dei miracoli
Una città-colore
Certezza di uno spazio in cui si crede.

Donna elegante legge
Laidi fotoromanzi
Duro sguardo luttuoso
Viso da prenotazione obbligata.
Mondo di vita-moda
Ingenua arlecchinata
Tanti colori ed un solo sapore.

Sguardo vuoto della ragazza triste
In un velo di sonno intraveduta.
Per le persone che amiamo di meno
La gentilezza al posto dell’amore
Goccia d’acqua sulla lastra rovente.

Polline nato da neve ventosa
Scala della ragione
Surreale orologio
Macchie d'ombra e di luce
I colori diversi delle viole.
Fare senza parlare
Bellezza del reale.

Nel 1965 giravo per l’Italia, da Taranto a Bolzano, da Siena a Rimini, per prendere le abilitazioni alla guida dei diversi mezzi di trazione: locomotori elettrici, diesel, locomotive a vapore. Prendevo nota in un taccuino delle cose che mi colpivano, era un sintetico diario personale e finì lì.
Finché, circa venticinque anni dopo, mi capitò sott’occhio e decisi di estrarre da esso alcune frasi ed alcuni incisi, che avessero un senso non relativo al 1965, ma al momento che stavo vivendo. Fu una operazione molto semplice, perché le percezioni primarie erano latenti ma vivissime in me, venticinque anni dopo. Ritengo che questa, della latenza e della vitalità nel tempo di molte percezioni, sia una chiave fondamentale per fare in modo che i ricordi entrino nel presente con efficacia, non si trasformino nel pensiero su un ricordo, come succede di frequente.
La Madonna, il Bambino e la Santa dei primi quattro versi esistono, le statue lignee sono in un museo di Bressanone (Brixen). C'è anche Verona, lì è la piazza dei miracoli di cui scrivo - me la importai da Pisa - ed è Verona la città-colore. Un gelato mi deluse per il suo sapore sciapo: tanti colori ed un solo sapore. A Verona esiste realmente la Scala della Ragione, magnifica opera all’interno di un palazzo gotico. C’era un orologio antico sulla parete di una chiesa, forse Sant'Anastasia, eccolo, è il surreale orologio.
Le persone di cui parlo le vidi realmente viggiando in treno. Così vidi le gocce d’acqua sulla lastra rovente, durante le lavorazioni nella grande officina ferroviaria di Verona. Vidi persino i colori diversi delle viole, che dipendevano dalle diversità dei terreni in cui crescevano.
Mischiate a queste cose viste, ci sono delle affermazioni morali, che a quelle cose dovrebbero collegarsi, e non è detto che lo facciano. Ma gli ultimi due versi dicono qualcosa in più, perché era cambiato il mio atteggiamento. Un tentativo imperfetto che diede qualche frutto poco tempo dopo.

P.S. L'immagine a destra del post è un altro particolare dell'affresco del Pisanello in Sant'Anastasia a Verona.

Pisanello: L'angelo annunciante (part) 1424-26
Affresco Chiesa di San Fermo, Verona

lunedì 14 luglio 2008

Salutazioni


Pontormo: La Visitazione (part) 1528-29
Olio su tavola Pieve di San Michele, Carmignano (FI)


Salutazioni

di Zena Roncada
(Colfavore delle nebbie)




Famoso, ovunque, è il saluto alla R****** ( gli asterischi stanno per le lettere che compongono il mio cognome).

E’ praticato in ogni occasione possibile, quando si materializza un incontro.
Se io e mio padre siamo nello stesso supermercato e ci incrociamo due volte nel giro di venti minuti, per due volte ci abbracciamo e ci baciamo sulle guance come se fossero vent’anni che non ci vediamo. E poi, mentre ci allontaniamo in direzioni diverse, ci giriamo alcune volte per dirci ‘ciao neh, …saluta la mamma’, ‘saluta Lino…’ (che è stato già oggetto di accurati ‘ ben trovato ’ due scaffali prima).

Mon mari non si è ancora ripreso dalla prima volta.
La prima volta del saluto dell’allora sconosciuta zia Nelly. Non solo ripetutamente gli corse incontro, ma lo abbracciò e lo baciò, dicendo estatica ‘ al me bel al me bel’ : commossa, continuò a covarlo con occhi adoranti per tutto il tempo della visita.

Il meglio, comunque, in famiglia, siam capaci di darlo quando ci si incontra nei numeri grandi, dagli otto in su, fino al tetto massimo della trentina.
Allora gli abbracci e i baci si moltiplicano per ogni componente, nel rapporto uno a uno.
Siccome siamo anche vagamente distratti, ci dimentichiamo se ci siamo già salutati e ricominciamo daccapo: non si sa mai.
E siamo proprio felici di vederci e di trovarci bellissimi.
Non siamo preoccupati per i nuovi affiliati: giovani mariti di cugine di secondo grado, morosi timidi e ragazzine in boccio, arrossenti…. Baciamo e abbracciamo anche loro, come se li conoscessimo da sempre, trovandoli bellissimi, naturalmente: sono valore aggiunto.

Un cugino (simpatico: da clonare e da tenere in casa in più esemplari per i momenti bui) è solito presentarsi, ai compagni/compagne dei figli, nel rito ufficiale del primo pranzo insieme, come l’ultimo degli Intillimani: canta
Vola colomba’ da lui opportunamente tradotta in spagnolo con l'aiuto del dizionario, accompagnandosi con la chitarra (talvolta). Per metterli a loro agio.

Ma è il momento del commiato a mettere una vaga inquietudine: almeno tre quarti d’ora prima dell’orario prefissato per la partenza, cominciamo a guardare l’orologio. Ci si dice “meglio cominciare a salutarci”.
Il più coraggioso comincia, ... eppure qualcosa succede sempre: una notizia dimenticata, una fettina di torta che chiama, quella foto da cercare, il regalo scordato sulla poltrona…
Facile dover ricominciare e poi, poi prolungare il saluto in strada, con le braccia che oscillano finchè l’ultimo fanale non scompare, alla curva del viale.
L’ultima mano in aria.
Mai stati bravi nei distacchi, mai.

Ieri, una serata così.

Con le voci sorridenti, a ridosso di una siepe fresca, la voglia di rimanere lì e di legare al saluto tutte le speranze di giorni buoni, specie quando l’esistenza non offre il suo volto migliore e mostra le crepe del tempo, gli ammanchi, i cambiamenti.
Il saluto, allora, diventa promessa di non cambiare e passaggio di consegne.
Segno di appartenenza e di condivisione.

L’accompagnare la vita con una carezza.


Correggio: La Madonna di San Girolamo (part) 1525-28
Olio su tavola Galleria Nazionale, Parma


giovedì, 13 luglio 2006 (dedicato alle mie cugine sorelle, ovvio)

Da Pesci di nebbia

sabato 12 luglio 2008

Sono un nuovo padre




Sono un nuovo padre

di Fabio R.




Primavera, un pomeriggio qualunque, in un qualunque giardino pubblico di Milano.
Ragazzi che giocano a pallone sul prato, fidanzati storditi dall'amore che si guardano negli occhi, badanti che fanno passeggiare anziani, cani che corrono: insomma, un paesaggio che conosciamo bene, che sapremmo spiegare in ogni dettaglio.
Però, da qualche tempo, ci sono nuove figure che fatichiamo a decifrare.
Un uomo con i capelli brizzolati che spinge un passeggino, un altro con la fronte increspata di rughe pensierose che fa dondolare un bimbo sull'altalena, un terzo con il pizzetto sale e pepe che legge il giornale e intanto controlla la piccola che cerca di arrampicarsi su un triciclo.
Li guardo e penso: ma chi sono?
Fingo di dubitare, ma in realtà conosco la risposta:
sono i nuovi padri!
Lo so bene perchè anch'io sono un nuovo padre, che incontra uomini come me, entusiasti, imbranati, un po’ spaventati ma con una grande certezza: comunque è bellissimo.
Sì, siamo noi, siamo colleghi, siamo i nuovi genitori, il nuovo ottimismo appena tinto di malinconia, attenti a quanto il governo progetta sulle pensioni e sugli asili.
Siamo i padri arrivati quasi fuori tempo massimo, quelli che hanno pensato a riprodursi mentre l'autunno già buttava giù foglie e capelli.
E siamo in tanti, convinti e al tempo stesso spaventati, impegnati ad avvitare per bene il biberon e a fare i conti con una certa stanchezza fisiologica.
Siamo un ponte traballante ed emozionato tra questa infanzia improvvisa che amiamo da matti e una vaga idea di declino, che non si cela in un futuro lontano, ma ci aspetta pochi isolati più avanti.


Siamo quelli che hanno pianto per la morte di John Lennon e fatto festa dopo i gol di Paolo Rossi. Quelli che hanno subito il passaggio da De Andrè a Ligabue e dai minestroni ai sushi. Quelli che ancora corrono tutto il santo giorno, pioggia, vento e gelo chissenefrega, perchè di mollare proprio non se ne parla.
Di strada ne abbiamo fatta tanta, qualcuno è diventato anche importante, qualcuno persino ricco mentre qualcuno s'è salvato per miracolo.
E di colpo alla nostra porta hanno bussato quaranta volte gli anni.
Come è stato possibile?
Ancora l’altro ieri eravamo in Grecia o in Egitto con i nostri vent’anni e neppure l’albergo prenotato e solo ieri ci siamo sentiti all’imbocco del tramonto.
Le nostre fidanzate, compagne, mogli o non mogli, erano invecchiate insieme a noi e ci hanno messo un po’ di tristezza addosso, perché di figli non se ne parlava; c’era troppo da fare, da viaggiare, da scoprire; c’era l’eterna giovinezza da trascinare tra concerti, viaggi e divertimenti.
E improvvisamente un giorno, la frase:
“Amore, ho fatto il test…. aspettiamo un bambino…”
E dopo nove mesi è arrivata quella piccoletta che piangeva, doveva essere nutrita, lavata, coccolata, accudita.
Notti insonni di padri abituati a tirare tardi, sì, ma in qualche fumoso locale sui Navigli chiacchierando con gli amici di cose astratte, impalpabili e inutili.
E ora invece c’è cacca da pulire, ci sono pianti da consolare, un corridoio da fare cento volte avanti e indietro con in braccio quella briciola di tenera vita che strilla a più non posso.
C'è da far fronte al nervosismo della madre, alla gelosia dell’altra figlia e a tutta una serie di spese impreviste.
C'è da essere felici in un modo che non si poteva neanche immaginare.
I padri con i capelli brizzolati sono apprensivi più di un giovane padre; sanno quanto il mondo può essere carogna, hanno cavalcato il dinosauro a lungo.
I padri con i capelli brizzolati che hanno molta vita alle spalle, per quanto la sappiano lunga, però non sanno come far fruttare tutto quanto hanno vissuto, perchè qui si tratta di tutta un’altra storia e l'esperienza assimilata serve poco o niente.
Adesso bisogna capire come funziona la palestrina musicale, come diavolo riconoscere le Winx, sapere fino a che punto è giusto cedere alle richieste di quel minimo che pretende di essere il tutto.
E così ci si trova dopo aver letto decine di libri di filosofia, psicologia, sociologia e averci capito quasi nulla, sdraiati sul pavimento con le favole dei lupi, delle streghe e dei principi tra le mani.
Dopo tanti castelli in aria, tanti progetti vanamente ambiziosi, c'è un cantiere sul tappeto fatto coi pezzi del Lego e un piccolo ingegnere minuscolo da aiutare, desideroso di una fiducia assoluta che non si può assolutamente deludere.
Dopo tanta vita, c'è ancora vita: ed è una sorpresa bellissima, un dono meraviglioso per noi padri con tanti chilometri da condividere, tante canzoni da cantare insieme e tanto amore da regalare.



giovedì 10 luglio 2008

Tristram Shandy (1)




Tristram Shandy (1)

postato da Giuliano



- Mi intendo tanto di calcoli, - disse lo zio Tobia, - quanto questa balaustra.
E, nel tentativo di indicarla con la sua stampella, fallì il bersaglio e prese in pieno lo stinco di mio padre.
- L'avrei presa cento contro uno, - si scusò lo zio Tobia.
- Credevo che tu non avessi nessuna nozione di calcolo, fratello Tobia. - disse mio padre fregandosi lo stinco.
- E' un puro caso, - rispose lo zio Tobia.
- Un altro da aggiungere al capitolo, allora. - replicò mio padre.
(Laurence Sterne, Tristram Shandy: volume quarto, capitolo nono )



Ne parlavo con un'amica, che mi rispondeva: " A me piacciono le storie che hanno un andamento diretto, che non si perdano troppo per la strada. Storie classiche, insomma, dove sia facile seguire il filo della trama, anche se magari è complessa. " Ovviamente sono d'accordo, è sempre bello trovare autori che sanno raccontare bene una storia: Stevenson, magari, oppure Calvino. Ma ci sono grandi scrittori che fanno esattamente l'opposto, e riescono lo stesso ad essere piacevoli.
Il loro campione è probabilmente Laurence Sterne con il suo "Tristram Shandy", pubblicato con grande successo tra il 1760 e il 1767. Sterne era un reverendo inglese, ed iniziò a scrivere le storie di Tristram Shandy quando aveva 46 anni ed era un perfetto sconosciuto. Ma il racconto, pubblicato a puntate, ebbe subito il successo che si meritava: per le sue qualità letterarie, ma soprattutto perché era molto divertente. Infatti è difficile farne un'antologia, di bei momenti ce ne sono anche troppi; però ci vuole anche molta pazienza, e spirito di adattamento. Sterne va dietro al suo naso, all'ispirazione del momento; e in più, pretende dai suoi lettori la massima attenzione.


Sterne dialoga con i suoi lettori, ogni tanto "guarda in macchina" (quasi come Oliver Hardy), chiede la nostra collaborazione e controlla se siamo stati attenti. Insomma, si potrebbe dire che Sterne è interattivo, ed anche per questo è modernissimo.

- Allora, signore, devo avere saltato una pagina.
- No, signora, non avete saltato nulla.
- Ero addormentata, allora.
- Offenderei il mio orgoglio di scrittore se vi concedessi un simile rifugio.
- Allora devo dichiarare di non saperne assolutamente nulla.
- Appunto questa è la colpa che vi faccio. E per punizione insisto che, appena giunta al punto fermo, riprendiate il capitolo da capo e lo rileggiate tutto.
(Laurence Sterne, Tristram Shandy: volume primo, capitolo ventesimo )



Pogo di Walt Kelly è stato pubblicato dal mensile “Linus” negli anni ’60.
Il ritratto di Laurence Sterne è opera di Joshua Reynolds; le immagini della prima edizione del “Tristram Shandy” vengono dal sito della Glasgow University Library.




lunedì 7 luglio 2008

Gli amori maturi


Marc Chagall: Gli Amanti nel Sambuco (part.) 1929
Collezione Richard Z. Seisler - New York


Gli amori maturi

di Lilli Guacci




Hanno più coraggio, perché devono scalfire la diffidenza generata dalle delusioni, gli amori maturi.
Nascono inattesi, con lo stupore delle cose inaspettate e perciò ancora più celebrate.
Riescono ad avere pazienza e profondità, perché accettano l'altro con la sua storia e i figli, le complicanze e i segni sulla pelle, sbagli grandi come case, senza tutta la fusionalità irruente dei vent'anni.
Perché si è stati mascalzoni e puttane, martiri e sante, e ora si è, solamente si è.
Lì.
Finalmente in rada, al sicuro di un amore maturo, al riparo dai venti e dalle ingiurie del tempo che a qual punto scorre più soavemente.
Hanno quella capacità di ascolto bella, che ti ha portato fin lì, correndo attraverso gli eventi, i giorni, i dolori degli amici, i lutti, i momenti felici, la tranquillità cercata sempre e avuta mai, la fatica, mioddio quanta fatica! Ci si presenta con le mani piene di valigie del ricordo ad un amore maturo.
Sono allegri, gli amori maturi, perché oramai sanno quanto sia inutile dannarsi su patimenti che passeranno in una settimana.
Si concentrano solo sugli amanti, gli amori maturi.
E’ passato il bisogno di conferme o della conoscenza dei propri limiti, il tuo uomo o la tua donna non sono palestra delle tue insicurezze, non più, possono permettersi il lusso della consapevolezza, dell'errore, dell'accoglimento, negano l'egoismo gli amori maturi.

Diane Keaton e Jack Nicholson
in "Tutto può succedere" di Nancy Meyers

Basta ansia e schermaglie, talami di vetri rotti, bambini scagliati.
Perché il compimento di noi stessi permette di esserci davvero, senza vergogna, senza pudore, senza decenza, con il cuore nei polpastrelli e la carne viva, scoperta, che tocca e si fa toccare, passare da parte a parte.
Si sa che si sopravvivrà comunque, in questa terra senza governo, che cerca il suo spazio.
Si sa che l'altro ha potere di vita o di morte su di noi, che la sua sentenza potrebbe essere definitiva e atterrarci per sempre, ma che non arriverà mai; ci si crede ancora e si lotta contro le dissuasioni vane degli amici delusi.
II ritegno è negato, si sa che è inutile, si è dato negli anni, non è necessario proseguire nell'ostinazione, non si impugnano parole, non si rinfacciano promesse.
Le parole diventano invece sesso, amore, pensiero.
E si è più attenti perché si è capito che l'oggetto amoroso è sacro, perché il suo corpo non è più perfetto ma unico, l'azione non è casuale ma dedicata, la tenerezza non strumentalizzata ma autentica.
Si vorrebbe che fosse l'ultimo, questo amore, come se fosse finalmente scesa una pace mistica e incorruttibile, sui cui non si vorrebbe sbagliare più.
Hanno sapore di cibo e di vino, la pienezza di un pasto, la delicatezza di una amaca, l'accoglienza e la nostalgia di un fado, la complessità di una vita arrivata, infine, solo per quello, per quell'amore.
II garbo e il mirabile incanto di un paesaggio in cui riposano gli occhi.
Perché ha il colore di una estate indiana, un amore maturo.

I colori dell'India


sabato 5 luglio 2008

Maturità - Lo scontro finale




Maturità - Lo scontro finale
di Roby




E' andata. Dopo circa dieci mesi di gestazione, è nata in Italia una nuova generazione di studenti maturati, a cui anche la mia pargola -senza infamia e senza lode- appartiene ormai di diritto. A tale periodo vanno aggiunte le annate precedenti, costellate di pagelle... pardon! schede di valutazione, debiti, crediti, test, simulazioni della terza prova, ecc.: il tutto più simile, terminologicamente parlando, all'ambiente della Formula Uno o della progettazione aeronautica che a quello scolastico!
Ma non basta. Le complicazioni non finiscono qui. Ricordate anche voi con struggente nostalgia il classico punteggio finale, dallo striminzito 36 al prestigioso 60? Allora dimenticatevelo: il 60 è stato ormai da anni retrocesso a voto minimo per essere licenziati, mentre il massimo raggiungibile è un banalissimo 100. 60-100... praticamente il cartello di limite di velocità in autostrada!
E rammentate il suono magico, quasi ipnotico, di quei numeri, mentre li sillabavamo, scorrendoli con gli occhi, davanti ai quadri appesi nell'atrio del liceo? Bene: tutto finito, dimenticato, sepolto. Nell'epoca del villaggio globale, delle intercettazioni telefoniche selvagge (almeno fino a nuov'ordine), dei dati personali consegnati ad internet con impressionante leggerezza, il Ministero dell' istruzione ha decretato che la votazione finale non sia mostrata coram populo, ma rivelata all'interessato solo in segreteria. Sul cartellone compare soltanto la dicitura esito positivo o esito negativo: come dire, ti ho bocciato ignominiosamente ma te lo dico con garbo, con stile, con tatto, senza obbligarti al confronto con quel secchione della prima fila che si è beccato 99 (giusto per aver scritto Nietzche invece di Nietzsche nel tema d'italiano a carattere storico-filosofico) o con la biondina sexy del banco accanto al tuo, che ha preso 78 dopo aver infinocchiato per tre anni il prof. di diritto sbattendo languidamente le sue lunghe ciglia.
Vi risparmio il calcolo dettagliato attraverso cui si arriva a questi punteggi, sommando cifre parziali degne dei risultati di un' analisi del sangue (tipo: i valori normali dei poligliceridi ABCD vanno da 25 a 40, quindi se sei > oppure < corri subito dal medico, a meno che i polisaccaridi DCBA non restino fra 30 e 45).
Mi limito a tirare un sospiro di sollievo perchè quella testona un po' pigra e un po' superficiale della mi' figliola ce l'ha fatta, ed ora guardo con aria di sottile compatimento le genitrici degli alunni di quarta, destinati all'immolazione l'anno prossimo. Chissà, da qui ad altri 10 mesi potrebbe capitare -improvvisa ed improvvida- una nuova circolare ministeriale, che magari gonfierà ulteriormente i tempi e i costi di questi immaturi esami di maturità, prevedendo forse una quarta, micidiale prova pratica: qualcosa come riempimento e vuotatura dello zaino in meno di 30 secondi -lettore cd e dvd, palmare, cellulare con fotocamera e i-pod compresi- o capacità di prendere appunti di senso compiuto da una prof. d'italiano dalle qualità didattico-oratorie tanto contorte e soporifere che -ci scommetto la mia laurea- persino il buon Garrone del deamicisiano Cuore, colto da una crisi di nervi, l'avrebbe centrata in piena fronte col tipico, pesantissimo calamaio dell'epoca!




giovedì 3 luglio 2008

Sono la Cana di Massimo...




Sono la Cana di Massimo...
(arriva l'estate)

di Massimo Marnetto



Il mio padrone continua a darsi degli schiaffoni terrificanti.
Non dovrei dirlo, ma quando ritornano le zanzare, mi diverto moltissimo a vederlo. E l'unico caso di rissa con una persona sola. Poveretto, lui ce la mette tutta per risolvere il problema: si cosparge di strane sostanze... si circonda di zampironi...
ma niente: quelle lo pungono sempre.
E dopo un po', il divertimento aumenta. Sì perché mentre con una mano si gratta, con l'altra cerca di scacciare gli insetti, in una tale dissociazione di gesti, da farlo sembrare un robot impazzito. L'unico momento in cui il poveretto trova pace è durante le sedute di depilazione delle ragazze. La puzza di quella robaccia bollente terrebbe lontano persino gli orsi. In questo clima di agitazione, l'unica traquilla sono io. E' la mia caratteristica. Ci sono infatti cani da caccia, da guardia; io sono una cana... da calma.
E loro - tutti freneteci - hanno bisogno di essere contagiati dalla mia tranquillità. Così, sonnecchiando tutto il giorno, mi guadagno le mie quattro scatolete quotidiane, tutte di gusti diversi: asino tenero e carote, castoro magro e spinaci, suora lessa e verdure, e postino disossato in bianco.
(Io non so leggere le etichette: magari i gusti saranno diversi, ma - vi assicuro - i sapori sono proprio questi).