lunedì 30 giugno 2008

Lo zen e l'arte del tiro col blog


Kyoto: Padiglione d'Oro in un giorno invernale



Lo zen e l'arte del tiro col blog


di Solimano



Che c'entra lo zen? C'entra, ve ne accorgerete nel corso di questo mio intervento, che rischia di non essere breve.
Più una lungagnata che una brevitudine.
A proposito.
Tutti se la prendono con le lungagnate, i cui rischi e difetti sono evidenti. Sarebbe il caso, per ovvia par condicio, di prendersela pure con le brevitudini: scriver corto non è sinonimo di scriver bene. L'Autore dovrebbe soppesare la propria cortezza con molta cura, parola per parola, congiunzione per congiunzione, virgola per virgola, a capo per a capo. Ha da essere un di più di responsabilità, non un togliersi l'incombenza scrittoria in pochi minuti, come una pipì che scappa.

Il mio tema è l'improvvisa, e a mio avviso improvvida, chiusura del Nonblog, la successiva riapertura e il che fare oggi e domani qui nel Nonblog.
Sulla chiusura ci siamo ovviamente scambiati delle email, per accusare, discutere, chiarire. Mi sembra che siamo arrivati a conclusioni accettabili, nel senso che ognuno si chiarisce gli errori suoi -che indubbiamente ci sono stati- e provvede a far meglio.
Credo che funzionerà, ma nel caso non dovesse funzionare, questo non è un blog normale, in cui il blogghiere dice "Chiudo!" e festa finita. Qui ci sono dei collaboratori e dei blog ospiti che si vedono pubblicate robe loro, sarebbe stato il caso di avvertirli prima, per non metterli di fronte al fatto compiuto. Credo proprio che Habanera sia d'accordo con questa osservazione che faccio in pubblico perché riguarda tutti, poi ci sono gli errori privati di ognuno di noi, me compreso naturalmente. Chi fa sbaglia -e noi abbiamo fatto e facciamo- però è bene capitalizzare sugli errori, in modo da non farli più... per fare naturalmente errori di tipo diverso! Così vanno le cose in questo mondo sublunare, lo sappiamo anche se tendiamo a scordarcelo.

Shodo (calligrafia)

Lo scrivere nel Nonblog ha per me una priorità alta, inferiore solo a quella di scrivere su Abbracci e pop corn, il blog di cui sono admin. Il progetto del Nonblog è più ambizioso di quello del blog del cinema, che è più semplice nei suoi obiettivi. Più ambizioso vuol dire anche più complesso, vedo di chiarirne il perché, soprattutto a me.

Anzitutto c'è uno zoccolo duro di collaboratori. Attualmente sono sei, compresa Habanera. I collaboratori hanno una storia variegata di conoscenza reciproca -cosa che vi risparmio- e ritengono, con un po' di imprudenza, di essere sopra una soglia di scrittura almeno decorosa. L'argomento su cui scrivere è assolutamente libero. Ognuno dei sei scrive tendenzialmente due post al mese e li mette nella bacheca del Nonblog. L'admin Habanera ha l'ultima parola - può decidere di non pubblicare- e sceglie comunque la sequenza di pubblicazione dei singoli post.
C'è poi il discorso sulle immagini, che è molto importante: dico soltanto che abbiamo trovato il modo di darci una mano l'un l'altro.

Ma non finisce qui, perché ci sono alcuni blog che stimiamo e che ci piace ospitare qui. Attualmente Habanera sceglie i brani, decide il flusso di pubblicazione e tiene i contatti con i blog. Ci sono stati casi in cui dei blog hanno creduto che si trattasse di una attività di copia/incolla più da tollerare che da apprezzare. In questi pochi casi, senza discusssioni né animosità -non ce n'era motivo- si è deciso di non pubblicare più brani di quei blog. O la cosa è percepita come un vantaggio reciproco, altrimenti è meglio non farla, senza inutili mal di testa: gioco chiaro gioco bello, come sempre.
Tutto ciò significa che siamo assai vicini alla massa critica ottimale per il Nonblog, sommando i collaboratori con i blog amici, usando la parola amici in una accezione un po' diversa dagli amici Splinder, che io vedo solo come una più o meno utile lubrificazione dei rapporti in rete.

Karesansui (giardino di pietra)

Sembrerebbe che tutto sia stato detto; con rapidi conti si vede che il Nonblog è in grado di pubblicare fra quindici e venti post al mese -che sono tutt'altro che pochi. Viste le premesse, dovrebbero essere generalmente buoni, e credo che lo siano.

Oltre all'aspetto scrittorio c'è l'aspetto conversativo, uso volutamente questi termini invece di quelli usuali nei blog: post e commenti. Ognuno dei collaboratori dovrebbe avvertire come parte del suo compito il conversare quasi sistematicamente sui post non suoi che vengono pubblicati nel Nonblog, non per l'usuale bene bravo bis, che ognuno può benissimo dirselo da solo, ma per fare sue considerazioni. Magari anche poche righe, liberamente, senza preoccuparsi dell'O.T. che non ho capito bene cosa sia, ma certamente deve essere una cosa brutta, [quasi come mettersi in pubblico le dita nel naso] dal momento che tutti se ne scusano.
Non sto ipotizzando il migliore -o peggiore- dei blog possibili, dico una cosa che negli ultimi tre mesi è successa non di rado: delle vere e proprie conversazioni a cui hanno partecipato volentieri anche persone non appartenenti al gruppo dei collaboratori; faccio alcuni nomi, chiedo scusa se me ne scordo qualcuno: Barbara, Gabrilu, Giulia, Remo, Stefania, Zena. Altri non lo fanno, il che non vuol dire assolutamente che vengano tolti dalla lista dei Consigliati, che è una cosa serissima, visto anche l'ottima idea di Habanera di inserire il blogroll, ma a quel punto occorre, come sempre, procedere per priorità. Faccio due esempi chiari, così ci capiamo: Akatalepsia e Currenti Calamo.
Sono due blog che ammiro e che leggo ogni giorno. Per ragioni loro, sicuramente rispettabili, non commentano in giro, quindi è presumibile che non lo facciano neanche sul Nonblog.
Che si fa? Li si consiglia, gli si dà giustamente visibilità, ma non si pubblicano loro post nel Nonblog, perché il problema vero è di non eccedere col numero dei post (massimo venti al mese) e la priorità è giusto e opportuno che l'abbiano i collaboratori e i conversatori.

Ikebana (disposizione dei fiori)

Qualcuno potrebbe dirmi: ma qual'è l'obiettivo? Dove vorresti arrivare? Nessun obiettivo, o meglio, l'obiettivo è nel fare così. Riflettiamo un momento considerando gli oltre trecento post pubblicati finora nel Nonblog. C'è di tutto, generalmente buono: letteratura, arte, musica, poesia, politica, matematica, giornalismo, cinema, teatro ed altro ancora. In ottica al tempo stesso localista e cosmopolita.
Una vera e propria Rivista in Rete, però con un alto grado di libertà dei partecipanti, senza la gabbia delle rubriche e la routine delle scadenze. Una rivista vasta ma non generica. Inclusiva, anche, ma non in ottica da piccola lobby o da circolo autoreferenziale: ognuno si sostiene da solo, per come è e per cosa ha fatto. Fra l'altro a prescindere dal numero delle visite dei vari blog, puntando sulla qualità personale e di scrittura delle singole persone. Naturalmente un posto aperto: se si trova una esperienza utile e gradevole, non c'è motivo per non offrire la partecipazione. Non una cosa ferma come roccia che non crolla: ci sarà chi se ne va e chi arriva, perché oltre ai complimenti anche gli scazzi sono inevitabili, fanno parte della vita. Chi sa scrivere ha in genere un carattere, un umore, un sapore, ed avere un carattere vuol dire anche un po' avere un cattivo carattere, se non altro perché non si è di contento facile.

C'è però una cosa da fare assolutamente: ridurre il più possibile il carico di lavoro di Habanera, che fra l'altro ha reso questo posto bellissimo, esteticamente, graficamente, musicalmente. Quindi, da una parte i collaboratori debbono mettere in bacheca il più possibile dei prodotti finiti, corredati anche di immagini adeguate (che non è un gioco che s'impara in cinque minuti). Dall'altra parte i blog che vengono pubblicati possono dare una mano consigliando ad esempio cose loro che ritengono di pubblicare, evitando una faticosa escavazione nel mare magnum dei post. Rendere il flusso più fluido, in modo da potersi spendere meglio. La forza di questa soluzione, possibile e praticabile, è che si abbina alla quantità dell'offerta del blog la qualità dei singoli post: si riesce a far bene con un investimento di tempo abbastanza contenuto, perché tutti siamo sommersi di incombenze di ogni genere. Si tratta di fare meglio, non di più.

A questo punto, viene buono lo zen, di cui da anni sono un convinto e laico ammiratore, però di tipo riduzionistico, non olistico. Intendo che lo zen è anche nel migliorare la determinazione e la penetrazione nel presente, mentre purtroppo molti lo intendono come una discesa dal treno della vita -che è uno solo- per prendere un altro treno -che non c'è. La mia laica ammirazione per lo zen si basa sul fatto che è un mito fecondo, generatore di arti: architettura, giardini di pietra (karesansui), calligrafia (shodo), poesia (haiku), disposizione dei fiori (ikebana) e non finisce qui.

C'è un'arte zen che è la cerimonia del te (chado o cha no yu), su cui qui non mi dilungo, ognuno è in grado di trovare in rete le informazioni che vuole. Inserisco però un breve brano che ho trovato in Wikipedia, brano in cui c'è qualcosa di interessante:

"I personaggi che si muovono in essa sono usciti temporaneamente dal mondo e dai suoi affanni per contemplare brevemente il vuoto. Il concetto di mu-shin, cioè letteralmente non-mente, quindi il dimenticare la razionalità per giungere ad un approccio totalizzante con le cose e le persone, è rappresentato perfettamente dallo spazio racchiuso nella stanza del tè. Al vuoto materiale deve corrispondere il vuoto mentale. Nella stanza tutti dovevano entrare disarmati e tutti erano uguali, tutti si dovevano inginocchiare e tutti dovevano "subire" le stesse regole".

Per capirsi, la cerimonia del te si svolgeva in una costruzione apposita, ed era un'arte zen molto amata dai samurai. Prima di entrare nella stanza del te dovevano fare due cose: lasciare la sciabola appoggiata fuori e chinare il capo, perché l'entrata aveva una apertura più bassa della statura normale. Il motivo non era una generica umiltà come la intendiamo noi, ma una temporanea rinunzia ad uno status symbol personale, perché nella stanza del te tutti si trovassero nelle stesse condizioni, a prescindere da età, titoli, geografia, famiglia di provenienza.
Mi è sembrata, questa della cerimonia del te, una metafora gradevole e profonda di quello che possiamo fare.

Aggiungo un'ultima considerazione che riguarda un film che è fra i capolavori assoluti del Novecento: "I sette samurai" di Akira Kurosawa. Molti ricordano certamente il personaggio del samurai contadino, Kikuchiyo (Toshiro Mifune). Ma c'è un altro samurai che si chiama Kyuzo (Seiji Miyaguchi), che è il samurai zen, il più valoroso di tutti, ma anche il più disattaccato (che non è sinonimo di distaccato). C'è un momento del film in cui Kyuzo è appostato con altri due perché stanno arrivando i briganti con cui ci sarà uno scontro a rischio di morte. Kurosawa riprende in primo piano il volto di Kyuzo. Improvvisamente Kyuzo si accorge che lì dov'è, fra l'erba, a pochissima distanza dai suoi occhi e dal suo naso, c'è un fiore. E Kyuzo sorride al fiore, un sorriso come se lui capisse il fiore ed il fiore capisse lui. Poi torna alla massima concentrazione per il compito che l'attende, con naturalezza. Non ho l'immagine giusta, peccato.

Tutto quello che ho scritto è contestabile, vorrei sentire altre opinioni, però non contestatemi Kyuzo, c'è da stare attenti, ad uno come Kyuzo!

P.S. Nell'immagine sulla destra del post ci sono gli utensili per la cerimonia del te (chado o cha no yu).

Kyuzo è il terzo da sinistra, quello magro col codino

P.P.S. Eureka, ho trovato Kyuzo! Metto l'immagine qui sotto, solo che la storia è leggermente diversa, da un certo punto di vista ancora meglio. I samurai in azione sono tre.
Kyuzo se ne sta seduto appoggiato ad un tronco, ed ha attorno un mare di fiori, però è concentrato solo su un fiore che ha in mano.
Kikuchiyo si è arrampicato sull'albero e sta scrutando il bosco per vedere se arrivano i briganti.
Katushiro, il samurai più giovane, è al primo scontro e Kyuzo l'ha mandato ad appostarsi più in basso, così potrà capire senza rischiare la vita.
Tutti e tre tacciono, ma c'è il momento in cui Kikuchiyo avverte Kyuzo che i briganti stanno arrivando. Lo fa tirandogli addosso un piccolo sasso. Kyuzo muove leggermente il collo (questione di un attimo) e torna a concentrarsi sul fiore. Dopo pochi secondi arrivano i briganti e... guardatevi il film! (s)

sabato 28 giugno 2008

Il vero Emilio Gauna




Il vero Emilio Gauna

di Giuliano




Emilio Gauna, quello vero, è il protagonista di “Il sogno degli eroi”, un romanzo di Adolfo Bioy Casares, scritto nel 1954, che inizia così:

Nel corso dei tre giorni e delle tre notti di carnevale del 1927 la vita di Emilio Gauna raggiunse il suo primo e misterioso culmine. Se qualcuno sia stato in grado di prevedere il terribile termine accordato e, da lontano, abbia alterato il flusso degli eventi, non è cosa facile da stabilire. Certamente, una soluzione che indicasse un oscuro demiurgo come autore dei fatti che la povera e frettolosa intelligenza umana vagamente attribuisce al destino, più che una luce nuova aggiungerebbe un problema nuovo.
Ciò che Gauna intravide verso la fine della terza notte diventò, per lui, come un bramato oggetto magico, ottenuto e perduto in una prodigiosa avventura. Indagare quella esperienza, recuperarla, fu negli anni successivi il tema delle conversazioni che tanto lo screditarono davanti agli amici. Gli amici si riunivano tutte le sere nel caffè Platense, all'angolo di via Iberà con il viale Del Tejar, e, quando non c'era il dottor Valerga, maestro e modello di tutti loro, parlavano di calcio. (...)


Adolfo Bioy Casares, amico e collaboratore di Borges, è uno scrittore che mi accompagna da molti anni; a lui ho rubato il nome che nasconde il mio anagramma (“ma è Giuliano / Emilio Gauna?”). Cerco di pagare il mio debito meglio che posso, chiedo scusa per l’abominevole furto e gli rendo omaggio portando qui l’incontro di Gauna (un giovane meccanico di Buenos Aires, negli anni ’20 del Novecento) con il Mago Taboada, che diventerà suo suocero. Gauna è andato dal mago solo perché ci sono andati tutti i suoi amici, tutti insieme, per non saper cosa fare e per far passare la serata. Come si vede subito, Gauna è molto scettico sui maghi.

(...)
L'ultimo a entrare fu Gauna. Serafin Taboada gli offrì una mano molto pulita e molto asciutta. Era un uomo magro, basso, con un'abbondante capigliatura, la fronte alta, ossuta, gli occhi infossati, e un naso rosso e prominente. Nella stanza c'erano molti libri, un armonium, un tavolo, due sedie; sul tavolo, un incontenibile disordine di libri e dì fogli, un portacenere con molti mozziconi, una pietra grigia che serviva da fermacarte. Due stampe - le effigi di Spencer e dì Confucio - erano appese alle pareti. Taboada fece segno a Gauna di sedersi; gli offrì una sigaretta (che Gauna non accettò) e, dopo averne accesa una, domandò:
- In che cosa posso esserle utile?
Gauna rifletté un momento. Poi rispose:
- In niente. Sono venuto per accompagnare i ragazzi.
Taboada buttò la sigaretta e ne accese un'altra.
- Mi dispiace, - disse, come se stesse per alzarsi e mettere fine al colloquio; rimase seduto e, in modo enigmatico, continuò: - Mi dispiace, perché avevo da dirle qualcosa.
Sarà per un'altra volta.
- Chissà.
- Non bisogna disperare. Il futuro è un mondo in cui c'è di tutto.
- Come nell'emporio qui all'angolo? - commentò Gauna.
- E' quel che afferma la pubblicità, però, mi creda, quando si va a chiedere qualcosa, rispondono che non ce n'è piú.



Gauna pensò che Taboada era forse piú un chiacchierone che non un uomo astuto o intelligente. Taboada continuò:
- Nel futuro scorre, come un fiume, il nostro destino, cosí come noi lo disegnamo quaggiú. Nel futuro c'è tutto, perché tutto è possibile. Lí è morto lei la settimana scorsa e lí sta vivendo per sempre. Lí si è trasformato in un uomo ragionevole e si è trasformato anche in Valerga.
- Non le permetto di burlarsi del dottore.
- Non sto burlandomi, - rispose brevemente Taboada, - ma vorrei domandarle qualcosa, se non se la prende a male: dottore in che?
- Lo saprà lei, - replicò subito Gauna, - dal momento che è un mago.
Taboada sorrise.
- Va bene, ragazzo, - disse.
Poi continuò a spiegare:
- Se nel futuro non troviamo quel che cerchiamo, sarà perché non sappiamo cercare. Possiamo sempre sperare in qualche cosa.
- Io non spero un gran che, - dichiarò Gauna. - Non credo, nemmeno, alle stregonerie.
- Può darsi che abbia ragione, - rispose con tristezza Taboada. - Ma bisognerebbe sapere che cosa intende lei per stregoneria. Mettiamo per esempio la trasmissione del pensiero. Non è un grande merito, glielo assicuro, sapere che pensa un giovane arrabbiato e pieno di paure.



Le dita di Taboada sembravano molto lisce e molto asciutte. Continuamente accendeva sigarette, le fumava un poco e le schiacciava nel portacenere. Oppure affilava la punta di una matita sulla carta vetrata di una scatola di fiammiferi. In quei movimenti non c'era alcun nervosismo. Quando gettava una sigaretta non era nervoso, ma assorto. Domandò:
- E' molto che abita in questo quartiere?
- Lo saprà lei, - rispose Gauna. Si domandò subito se il suo atteggiamento non fosse un po' ridicolo.
- E' vero, - riconobbe Taboada. - L'ha portato qui un amico. Poi ha conosciuto altri amici, meno degni, forse, della sua fiducia. Ha fatto una specie di viaggio. Adesso è nostalgico, come Ulisse ritornato a Itaca, o come Giasone quando pensava alle mele d'oro.
Non fu l'accenno all'avventura quel che attrasse Gauna. Nelle parole del Mago intravedeva un mondo sconosciuto, forse piú avvincente di quello coraggioso e nostalgico del dottore.
Taboada continuò:
- In quel viaggio (perché in qualche modo bisogna pure chiamarlo) non tutto è buono e non tutto è cattivo. Per lei e per gli altri, non lo intraprenda di nuovo. E' una bella memoria e la memoria è la vita. Non la distrugga
.


Gauna provò di nuovo avversione per Taboada; provava anche diffidenza.
- Di chi è quel ritratto? - domandò, per interrompere il discorso del Mago.
- Quella stampa rappresenta Confucio.
- Non credo ai preti, - affermò con durezza Gauna; dopo una pausa domandò: - Se voglio ricordare ciò che è avvenuto in quel viaggio, che cosa devo fare?
- Deve cercare di migliorare.
- Non sono malato.
- Un giorno capirà.
- Può darsi, - riconobbe Gauna.
- E perché no? Se vuole capire, si faccia mago; basta un po' di metodo, un po' di applicazione, mi creda, e l'esperienza di tutta una vita.
Con l'intenzione di distrarre Taboada, per ritornare poi all'interrogatorio, indicando la pietra che serviva da fermacarte, domandò:
- Che cos'è?
- E' una pietra, una pietra di Sierras Bayas. L'ho raccolta con le mie mani.
- Lei è stato a Sierras Bayas?
- Nel 1918. Per quanto sembri incredibile, raccolsi questa pietra il giorno dell'Armistizio. Come vede, si tratta di un ricordo.
- Nove anni fa! - commentò Gauna.
Si fece coraggio, pensò " è un povero vecchio " e, dopo un breve silenzio, domandò:
- In questa faccenda che lei chiama il mio viaggio, non devo continuare a fare indagini?
- Non bisogna smettere mai di indagare, - continuò il Mago. - Ma la cosa piú importante è lo spirito con cui indaghiamo.
- Non la seguo, signore, - riconobbe Gauna. - Allora, perché devo dimenticare quel viaggio?
- Ignoro se deve dimenticarlo. Non credo nemmeno che possa dimenticarlo; penso, semplicemente, che non le conviene...
- Ora le faccio una domanda personale. Spero che sappia interpretarmi. Che pensa di me?
- Che penso dì lei? Come vuole che le dica in due parole quel che penso di lei?
- Non si arrabbi, - replicò Gauna con soavità. - Come al pappagallo che estrae il biglietto verde, le domando: 'Sarò fortunato o no? La mia salute è buona o no? Sono coraggioso o no?'
- Credo di capirla, - rispose il Mago; poi seguitò con tono distratto: - Per quanto sia coraggioso un uomo non è coraggioso in tutte le occasioni.
- Va bene, - disse Gauna. - Ho visto una maschera...
- Lo so, - rispose il Mago.
Ormai fiducioso, Gauna domandò:
- La vedrò di nuovo?
- Mi domanda se la vedrà. Sí e no. Io l'ho difeso contro un dio cieco, ho rotto il tessuto che doveva formarsi. Benché sia piú sottile che se fatto d'aria, tornerà a formarsi appena non ci sarò io a evitarlo.
Di nuovo, Gauna sentí confermati il suo disprezzo e il suo rancore. Adesso voleva soltanto terminare il colloquio; alzandosi, domandò:
- C'è qualche altro consiglio per me?
Taboada rispose con voce monotona:
- Non ci sono consigli da dare. Non ci sono fortune da predire. La consultazione costa tre pesos.



Gauna, con finta distrazione, diede uno sguardo a una pila di libri; lesse sui dorsi nomi stranieri: un conte, che doveva essere italiano, perché aveva, a parte altre follie, una " t " e quel titolo o cognome che gli suggerí l'idea di scrivere un giorno una lettera ai giornali per dire quattro verità che gli stavano a cuore e di adoperarlo come firma: Flammarion.
Mise i tre pesos sul tavolo. Taboada lo accompagnò alla porta. La figlia di Taboada stava aspettando l'ascensore. Gauna disse: - Come sta? - ma non osò darle la mano.
Mentre scendevano, la luce si spense e l'ascensore si fermò. Gauna pensò: ora sarebbe il caso di fare un'allusione opportuna. Poi balbettò:
- Suo padre non mi ha detto che oggi era la mia giornata.
La ragazza rispose con naturalezza:
- E' un corto circuito. Da un momento all'altro la luce ritornerà.
Gauna non si curò piú delle proprie reazioni, dei propri nervi o di quel che doveva dire; sentí la presenza della ragazza, come a un tratto si sente, imperioso, un battito al cuore. La luce si accese e l'ascensore scese placidamente. Sul portone la ragazza gli diede la mano e, sorridendo, gli disse:
- Mi chiamo Clara.
Poi la vide correre verso un'automobile che aspettava accanto al marciapiede. Alcuni giovanotti scesero dall'automobile. Gauna pensò che la ragazza avrebbe raccontato loro ciò che era successo e che avrebbero riso di lui. Li sentí ridere.

(Adolfo Bioy Casares, Il sogno degli eroi, cap. XIII) (traduzione di Livio Bacchi Wilcock, edizione Bompiani 1968)



“Il sogno degli eroi” parla del destino, se esiste e se sia possibile cambiarlo, se è vero che il nostro mondo è fatto di sentieri che si biforcano (e ognuno di questi sentieri porta a un nostro io diverso), e soprattutto se noi meritiamo che si cambi in meglio il nostro destino. Perché un destino migliore bisogna meritarselo, se noi ci lasciamo andare nessun mago Taboada potrà proteggerci e cambiare il nostro futuro.

Adolfo Bioy Casares fu amico e collaboratore di Jorge Luis Borges. Insieme hanno scritto molti libri, come i gialli di "Sei problemi per don Isidro Parodi" (l'uomo che risolve i casi più misteriosi stando chiuso in una cella del carcere), e le raccolte "Cielo e inferno" e "Racconti brevi e straordinari". Bioy e Borges, con Victoria Ocampo e Silvina Ocampo (quest'ultima fu moglie di Bioy) hanno realizzato molti altri libri e antologie pieni di cose inaspettate, che purtroppo sono ormai un po' difficili da recuperare ma che sono stati sempre pubblicati anche in Italia.

I tarocchi sono di Sergio Toppi (Tarocchi delle origini e Tarocchi universali, edizioni Scarabeo) e di Emanuele Luzzati (Tarocchi dei bambini, sempre edizioni Scarabeo).
Il dipinto nella copertina del Sogno degli Eroi è di Giorgio De Chirico, "eroi d'Omero", 1929.





mercoledì 25 giugno 2008

Maturità - Il prequel




MATURITA' - IL PREQUEL

di Roby



Trentatre anni fa, (quasi) come oggi.

Faceva caldo, al sesto piano dello stabile dove abitavo con mamma, babbo e sorelle. Un caldo infernale, senza condizionatori, deumidificatori, ventilatori a torre...
Sudata e appiccicaticcia, sfogliavo distrattamente gli appunti di filosofia e di greco, materie che avevo scelto per gli orali.

"Ma come? Filosofia??? Sei sicura? E perchè non italiano?"
Il prof di lettere, nostro "membro interno" (quante battutine a doppio senso in proposito, da parte dei miei compagni maschi!), era rimasto dolorosamente stupito quando, durante gli scritti, gli avevo comunicato la mia preferenza.
In effetti, a italiano andavo molto meglio, ma filosofia aveva un programma molto più breve da ripassare, ed io -sempre indietro e a corto di tempo- contavo su questo.

La mamma si affacciava ogni tanto sulla porta della camera, con aria dolcemente preoccupata.
"Come va? A che punto sei? Hai fame? Ti faccio un panino..."

Fame? Panini? Macchè: forse nessuno in famiglia se n'era accorto, ma a me della maturità e degli esami non importava un piffero. Nel mio cervello, in quel torrido luglio del 1975, c'era solo S., il ragazzo da poco conosciuto e che sarebbe stato (ne ero matematicamente certa) l'uomo della mia vita, il mio compagno, il padre dei miei figli. Tutto il resto (commissione esterna, ragion pura di Kant, aoristi deboli forti e fortissimi) valeva il giusto: cioè meno di niente.

La stragrande maggioranza dei miei coetanei afferma di ricordare l'esame di stato come un incubo, di sognarselo ancora la notte, di essersela fatta sotto aspettando di essere chiamati a sedere davanti agli esaminatori...

...io ricordo perfettamente il bacio leggero che S. mi diede nel corridoio della scuola, poco prima che entrassi nell'aula per gli orali; e poi il sorriso sognante (oltre che lievemente idiota) con cui (non) risposi alle misteriose, ridicole domande del professore di filosofia, un corpulento siciliano strabordante in un completo scuro palesemente fradicio di sudore.

Il risultato?

Quello scolastico: 45/60, grazie alla buona media dei compiti scritti.

Quello personale: l'ineguagliabile, meravigliosa, struggente sensazione che per me tutto, da quella caldissima estate in poi, sarebbe stato possibile.




lunedì 23 giugno 2008

Au revoir




L'avventura (bellissima) continua.
Datemi solo qualche giorno di tempo,
una piccola pausa...


Un grazie ed un saluto affettuoso a tutti

Habanera


venerdì 20 giugno 2008

Assaporare il senso della vita




Assaporare il senso della vita

di Giulia




I più fuggono attraverso la vita, incalzati senza posa dal bisogno: senza un minuto in cui possano riflettere sopra di sé.

Arthur Schopenhauer




Ho incontrato un giorno questa donna. Camminava decisa non so verso dove. Camminava in quel prato di fiori e sapeva dove stava andando. L’ombrello che portava le serviva per ripararsi sia dal sole sia da un’improvvisa pioggia. Previdente, ma sicura. Era pronta per ogni evenienza: non le serviva altro.

Avrei voluto fermarla, parlarle. Non l’ho fatto. Ho preferito soffermarmi a guardarla fino a quando non è scomparsa dall’orizzonte dei miei occhi, portarmi dentro la sua immagine. Poteva essere nata cent’anni fa. Poteva essere nata molto prima. Avevo l’impressione che possedesse un’arte: quella di non avere un orologio in testa, di non porsi tanti perché, né affannarsi a fare domande a cui non avrebbe saputo dare risposte. Avevo l’impressione però che sapesse qualcosa di essenziale: vi sono cose che scompaiono e cose che restano. Cose che vale la spesa vivere e altre che non valgono un minuto della nostra vita. Che basta fermarsi e guardare per capire dove e verso cosa andare. Che è sufficiente attardarsi un attimo per comprendere dove ti porta ogni strada e scegliere quella che é più tua.
Lei aveva scelto il prato, non il sentiero.

Il prato brulicava di vita ed a lei piaceva starci in mezzo, come una dei tanti esseri che lo abitavano. Cercava la strada in cui meglio poteva assaporare il senso della vita. Dove la vita muore e rinasce in un circolo eterno a cui essa stessa apparteneva.

Poi è scomparsa ed io sono rimasta a guardare il sole che tra lame di luce abbandonava il giorno.

(domenica, 02 dicembre 2007)

P.S. La foto sopra il post è di Giulia.

Claude Monet: I Papaveri, 1873
Musée d’Orsay, Parigi


Da Pensare in un'altra luce

La parola proibita


Jean-Louis Ernest Meissonier: The Reader in White
Private collection


La parola proibita

di Barbara Cerquetti
(Woodstock74)




Franti sbuffò buttando il libro sul letto.

-Bah!

-Che hai fatto?- chiese Lilli, entrando in camera con una pila di asciugamani appena stirati da riporre nell’armadio.

-Non finirò nemmeno questo – brontolò lui, pulendosi gli occhiali.
Franti leggeva tantissimo, iniziava almeno tre libri a settimana: essendo libraio doveva conoscere quanti più testi possibile, per avere sempre una nutrita rosa di titoli da consigliare ai clienti ma difficilmente ne finiva uno. Pur amando la lettura reputava spazzatura i tre quarti della roba che si trovava in commercio. Leggeva ogni pagina con occhio spietato, ogni riga con critica feroce e non lesinava commenti velenosi anche agli autori più blasonati. Anche a quelli che gli permettevano di pagare il mutuo. Ma questo ovviamente era un segreto di letto tra lui e Lilli, che si chinò a raccogliere il cestinato di turno. Era “La cattedrale del mare”, di Falcones.

-Strano, dicono tutti che è bellissimo.

- Sì, è carino, non dico di no, ma non mi convince. Lo stile è sciapo, cerca di emulare “I pilastri della terra” senza avere la tecnica di Ken Follet e poi…

-…cosa?

-…e poi ho incontrato la parola proibita!
Lilli scoppiò a ridere.
Già sapeva che Franti stava per tirar fuori una delle sue famose teorie e non vedeva l’ora di sentirla.

-Quando incontro quella parola…- spiegò il ragazzo, riprendendo in mano il libro e scorrendone le pagine – …eccola qua… quando incontro quella parola stai sicura che il libro non lo finirò! Posso insistere ed andare avanti per cinquanta, cento pagine, ma alla fine la maledizione della parola proibita avrà la meglio e non lo terminerò!

- E’ una specie di sortilegio- azzardò Lilli.

-Sì! Senza dubbio c’è dietro qualcosa di malefico. Me ne sono reso conto da poco e sono andato a rivedermi tutti i libri che avevo lasciato a metà negli ultimi mesi, e quella parola c’è sempre!!! Gli autori contemporanei in special modo ne abusano in continuazione.

-E che parola è?- chiese lei, affascinata dalla parola proibita.

-“Sbocconcellare”- proclamò Franti, con solennità, scandendo tutte le sillabe.

Sbocconcellare?- ripeté lei, per accertarsi di aver capito bene.

Georg Flegel: Still-Life with Pygmy Parrot
Staatliche Museen, Berlin


-Ma non lo senti come suona male? E’ proprio un termine pretenzioso e sciocco, lo può usare solo uno che non sa scrivere ma è convinto di sì! Quando leggi un libro e arrivi a trovare quel termine dovresti capire subito che l’autore è un bluff!

-Ma non sarai un po’ troppo severo?

-Pensaci bene Lilli: esistono mille modi per dire la stessa cosa, molto più carini e simpatici. Prima di tutto c’è “mangiucchiare”, che è la parola migliore per esprimere questo concetto, semplice e chiara, poi c’è “piluccare” che ti fa pensare ad una donnina con poco appetito che sta lì con le bricioline del pane sulla punta delle dita. Per non parlare di “rosicchiare” e “spizzicare”, o anche “sgranocchiare”.

- In effetti- concesse Lilli, tra il serio e il divertito – “sbocconcellare” fa venire in mente la saliva… potrebbe usarlo Maria Antonietta, chiusa nella Bastiglia, di fronte ad un pezzo di pane ammuffito…

-Dici?- chiese Franti, ostile.

-Ma sì, pensaci bene: lei è abituata alle brioche e ai fagiani, ma non mangia da giorni, è rinchiusa tra i topi e i pipistrelli e ha di fronte questa pagnotta secca. All’inizio le fa schifo, la ignora con sdegno, ma alla fine i crampi della fame sono troppo forti, l’acquolina le fa fare le capriole allo stomaco e allora cosa fa?

-La sbocconcella?- chiese Franti, lasciando la frase a mezz’aria.
La parola rimase sospesa tra loro due per qualche istante, e guardandosi negli occhi ne soppesarono il suono e la scia che si portava dietro.

-Ma dai – esclamò Franti. – Non senti come suona male? La “sbocconcella”… è orribile. E anche un po’ oscena. Fammi una promessa: se un giorno mai tu dovessi diventare una scrittrice non la usare!

Va bene Franti. Promesso

(giovedì, 13 marzo 2008)

Da Lavoretti

Elisabeth Vigee-Lebrun: Portrait of Marie Antoinette
1783, Chateau de Versailles, Versailles


Sándor Márai: La donna giusta




Sándor Márai: La donna giusta

di Gabriella Alù




Gli Happy Few che frequentano il mio blog sanno già che quando parlo di libri non intendo fare recensioni: quelle le lascio ad altri. I miei sono solo appunti di lettura, e non ho la pretesa di sentenziare su alcunchè.

Perciò quello che penso di questo libro voglio dirlo subito e senza giri di parole: è magnifico.
Un libro dallo stile limpido, smagliante, di grande eleganza ma mai stucchevole e che, come tutti i libri veramente importanti, si presta a parecchi livelli di lettura.

È certo un grande romanzo di passione e tradimenti; di sentimenti estremi e di personaggi tormentati strutturato in monologhi in cui la stessa storia viene narrata dal punto di vista dei diversi protagonisti. Ma sarebbe troppo ingiusto e riduttivo farlo passare esclusivamente come un romanzo d'amore, anche se la stupefacente capacità di approfondimento psicologico di Márai che --- narrando in prima persona si identifica di volta in volta negli uomini e nelle donne dei diversi Io Narranti della storia --- basterebbe già, a mio parere, a fare di questo romanzo una grande opera.
Ma questo è solo uno dei tanti possibili livelli di lettura di "La donna giusta", che è anche, e per certi versi, forse soprattutto un libro su un mondo in trasformazione, sul sentimento di appartenenza ad una classe sociale la borghesia, sulla solitudine e sulla cultura, temi che vengono declinati attraverso le voci dei quattro personaggi monologanti di cui tre protagonisti della storia.

Ilonka, la moglie piccolo borghese, donna bella e intelligente che ama e desidera catturare l'anima del marito amato. E' lei che dipana e sviluppa il tema dell'amore e che ad un certo punto dice "Ho capito che non c'è nessuna persona giusta. Esistono solo le persone ed in ognuna c'è un pizzico di quella giusta".


Peter, il marito, borghese colto e raffinato, personaggio onesto e tormentato, innamorato dell'arte ma incapace di creare. E' la voce di chi sente di appartenere alla borghesia colta ed illuminata ("non quei borghesi da strapazzo, che portano tale titolo soltanto in virtù del loro denaro o perchè sono stati in qualche modo promossi sulla scala sociale [...] Io mi riferisco ai veri borghesi, a quelli che hanno creato qualcosa e lo conservano" ). Peter è la voce della solitudine, quella "... solitudine profonda, intensa, che circonda ogni spirito creatore come l'atmosfera avvolge la terra." Eppure "si continua a sperare. E' davvero difficile arrendersi di fronte a questa realtà sconfortante, rassegnarsi al fatto di essere soli, terribilmente e disperatamente soli" [...] " ...Forse un grande artista è in grado di tollerare una solitudine di quel genere: è costretto a pagare un prezzo terribile, ma entro certi limiti viene risarcito dalla sua opera"

Judit, la sottoproletaria diventata serva, terza voce narrante. Scaltra, bellissima, intelligente, orgogliosa. Di lei Peter si innamora, per sposar lei abbandona la moglie, è da lei che viene derubato da quasi ogni suo bene.

Eppure, è al personaggio di Judit, questa serva che diventa padrona ma che poi ridiventa povera senza farne una tragedia che Márai affida il ruolo di cogliere i significati ultimi e profondi di quello che è la cultura: "la cultura è quando una persona o un popolo sono pieni di una gioia immensa! Dicono che una volta i greci hanno avuto una cultura perchè tutti loro sapevano gioire. Prova ad immaginarti un popolo che vive nella gioia e questa gioia è la cultura!"


Ci sono poi, immediatamente riconoscibili per chi abbia letto i due volumi di memorie di Márai "Confessioni di un borghese" e "Terra, terra!..." lampi autobiografici che squarciano il romanzo e che si colgono soprattutto in due personaggi: Peter (il marito) e Lázár, uno scrittore ... che ha smesso di scrivere perchè --- osservando l'apocalisse e gli orrori dell'occupazione nazista prima e di quella sovietica poi --- si consuma sulla domanda "i libri sono mai riusciti a rendere migliore qualcuno?" ed ha smesso anche di leggere niente più altro che dizionari di lingua ungherese.

Sia Peter che Lazar lasciano per sempre l'Ungheria quando si instaura il regime sovietico; entrambi consapevoli delle profonde trasformazioni cui viene sottoposta la loro appartenenza di classe e di cultura; della messa in discussione delle loro radici più profonde. Sono i due alter ego dello stesso Márai. Non a caso Peter parla di Lázár come del "testimone oculare" della propria esistenza.

Sándor Márai (1900-1989) è uno scrittore che amo profondamente. E' uno di quelli che io chiamo "i miei scrittori".

Era ungherese, profondamente antifascista ed anticomunista. Lasciò l'Ungheria nel 1948 ("La donna giusta" è del 1941) con l'instaurarsi dell'occupazione sovietica e non vi fece più ritorno. Le sue opere (romanzi e volumi autobiografici) rimasero inediti e sconosciuti mentre era vivo poichè gli scritti ungheresi molto raramente venivano tradotti all'estero ed egli, da parte sua, rifiutò di curare la loro pubblicazione in patria durante il regime sovietico.


Viaggiò molto in Europa (Parigi, Roma, Berlino, Napoli) e poi negli Stati Uniti, sempre struggendosi nella nostalgia non tanto della sua terra quanto della sua lingua madre, l'ungherese, lingua ostica e difficile da parlare e da tradurre ("la sola lingua che il diavolo rispetti"), lingua assolutamente minoritaria e pressocchè sconosciuta al di fuori dei confini magiari ma che per Márai rappresentava davvero la sua "madre patria" perduta.

Perchè uno scrittore è davvero senza patria se è consapevole del fatto che la lingua in cui scrive non viene compresa...

Morì suicida negli Stati Uniti, a San Diego, nel 1989. Si racconta che prima di uccidersi telefonò per chiamare un'ambulanza. "C'è un cadavere da portar via", disse all'operatore che aveva risposto al telefono.

Adelphi, dando alle stampe anni fa "Le braci" e continuando in seguito con la pubblicazione di altre sue opere ha fatto (ri)scoprire Márai, che oggi è tradotto e conosciuto in tutto il mondo.
E' dunque grazie all' "operazione Adelphi" che anch'io ho potuto conoscere Márai.
(09/07/2006)

Da NonSoloProust





Alveare autunnale


Hogarth: The shrimp girl c.1740 National Gallery, Londra


Alveare autunnale
(Le confessioni di un poeta finto -8)

di Solimano


Il mio periodo “Eh… eh!” ebbe una buona produttività, perché le poesie venivano quasi da sole, quindi ci voleva poco tempo a scriverle. Ne trascrivo solo un’altra, poi passerò al periodo successivo, che sarete sorpresi nel vedere come si chiama.
Ma ecco la seconda poesia:

Girellona,
La tua musica,
I tuoi canti,
Ostinata ed autentica
Passionale ed avveduta.

Quasi pronta
Ad aprirti
All’amore,
La gioia non è nelle cose,
Scaturisce dal profondo.

Alveare autunnale
Pieno di dolcezza e di ronzio,
Goccia di miele furba e gentile,
Occasione troppo ghiotta.

Forsitia tutta bionda,
Verde fra un mese.

Ginestra bionda e verde
Per mesi e mesi.

Così potete farvi una idea più precisa della mia ispiratrice nel periodo “Eh… eh!”, e ve ne innamorerete tutti, anche solo a leggerla. L’assenza totale di endecasillabi vorrà dire pur qualcosa, ma non abbiate timore, torneranno, dessi endecasillabi, prima o poi. La ghigliottina riguardò solo questo periodo, si vede che la bellezza della Girellona si trovava a suo agio nelle feste frequentate dagli altri versi, ognuna ha i suoi gusti, l’importante è conoscerli e rispettarli. Nella poesia vedete che a volte si è d’autunno a volte all’inizio della primavera: sono stagioni mirabili, se si è bene accompagnati.
Del verso goccia di miele furba e gentile fui soddisfatto quando lo scrissi ed anche successivamente, perché piacque anche al di fuori del periodo “Eh… eh!”, piacque perché -ne ero e ne sono persuaso- le gocce di miele furbe e gentili esistono. Se uno è persuaso, prima o poi le incontra.
Il giochino settenario-quinario degli ultimi quattro versi -quelli botanici- non vi è certo sfuggito: scrivere poesie all’impronta non vuol dire sbraco, vuol dire che certe musiche ti escono da sole perché ce le hai già, ed aspettano solo la Girellona giusta per manifestarsi.
Pur nelle mie goffaggini, qui sostengo che le poesie debbono essere tagliate su misura delle persone che le ispirano, in modo che facciano la loro bella figura col vestito acconcio, che è un regalo universalmente apprezzato. Non gradiscono infatti vestirsi ai grandi magazzini, vogliono essere sole e uniche, almeno finché ci sono. Il poeta deve prendere atto felicemente dei loro troppo giusti desideri, guai se facesse altrimenti, ripiomberebbe in una “Dolcezza cogliona” ormai scaduta di garanzia. Sto forse dicendo che il poeta deve essere un furbacchione? Sì, se vuole anche vivere oltre che poetare, ebbene sì.
Non è, questa, poesia da portare a congressi o seminari, ché i relatori potrebbero sprezzarla, è invece da recitare ad alta voce camminando per strada. Se la recitate bene, può essere che la Girellona si materializzi, proprio davanti a voi, succedono queste cose. Miracoli? Forse che sì, forse che no, ma non fatevi troppi problemi, passate direttamente dal punto interrogativo a quello esclamativo.

P.S. L'immagine a fianco del post è un particolare del quadro "Donna che legge una lettera" (1662-65) di Gabriel Metsu , conservato alla National Gallery of Ireland di Dublino.

Hals: La bohémienne 1628-30 Musée du Louvre, Parigi

giovedì 19 giugno 2008

In treno




In treno

di Letizia Ricci


La donna non è invitante. Sta addossata al finestrino, le gambe stese sul sedile di fronte, senza scarpe, con dei calzini bianchi spessi sopra ai piedi piccoli. Ha le gambe corte, tozze, avvolte in una tuta blu ed ha dovuto far scivolare il sedile di fronte e scivolare lei stessa sul suo per raggiungere la poco plastica posa. Viso tondo, pochi capelli, occhiali grandi da astigmatica. No, non è invitante, con sacchi e buste che la circondano.
L'uomo è tutto vestito di nero, legge e con la mano destra accarezza, direi piuttosto diteggia, alcune riviste poggiate nel sedile a fianco. È alto, bruno, mascella larga, ha le scarpe nere un po' sformate, brutte.

Quando sei l'ultimo arrivato in uno scompartimento devi prendere atto dell'ordine prestabilito. I sedili sono 6, ma ne ho a disposizione due e l'unica cosa che mi preme verificare è che ce ne sia almeno uno che guardi nel senso giusto, quello di marcia, che sennò mi viene fastidio. La porta è chiusa e si apre con difficoltà perché il tappeto ha un lembo rialzato, non è fissato a terra, cammina con te.
Cerco di fissare quel piccolo trambusto, sempre indesiderato, che si crea quando arriva qualcuno in uno scompartimento. Occhiate, riassestamenti sul sedile; ci si guarda per intuire come proseguirà il viaggio.
La donna guarda fuori e poi me, squadra i movimenti, ma non muove neanche un piede. L'uomo si agita sul sedile, continua a leggere, tira col naso, guarda sopra e poi sotto, credo stia scrutando la mole del bagaglio e preparandosi al servigio ineluttabile di issarlo lassù dove io non arrivo.

È un vagone vecchio stampo. Ci hanno tolto i treni di notte e i treni nuovi perché lavorano nel tunnel, per l'alta velocità. Ma che importa. Preferisco così, intendo il vagone, perché quelli open space mi imbarazzano, proprio come negli uffici. Mi piace il corridoio dei vagoni vecchi, fatto apposta per scivolarsi addosso senza toccarsi, impresa ardua d'inverno quando si sta impacchettati nei cappotti, i piumini e le sciarpe. Mi piace quella sorta d'intesa a occhio in cui si stabilisce chi si incolla alla parete a finestre e chi agli scompartimenti, le pance che arretrano sinuosamente e i menti che si alzano per reclinare la testa. Ho notato che ci si spalma alle pareti sempre di schiena e ci si sfiora di faccia. Una sorta di affronto millimetrico.

Intanto il treno va, c'è anche questo da dire. Magari passa su uno di quei viadotti mozzafiato, traversa una stazione di quelle in cui non ci si ferma mai, piccola e isolata, lambisce qualche casa o sfreccia dinanzi ad un passaggio a livello in cui sostano due fari spazientiti o un uomo in bicicletta infreddolito che guardano i finestrini illuminati e immaginano cosa stiano facendo quelli lassù, ma dura un attimo, l'attimo del treno, e poi torna il buio e il silenzio, e la sbarra si alza, e ognuno torna alle sue cose.
Noi lassù non lo sappiamo, e non torniamo alle nostre cose, siamo solo preoccupati di vivere il viaggio presto, perché finisca, come se quel tempo non ci appartenesse.


L'uomo in nero si alza e colloca la mia borsa ai piani alti, pensava fosse più leggera e non riesce a nascondere il disagio, ma ormai deve portare a termine l'operazione. Mi osservano mentre comincio a dispormi nei miei 2 posti, organizzando lo spazio vitale, delimitandolo a dovere: lì ci devo campare per un paio d'ore. Poi torna il silenzio.
L'uomo si muove in continuazione, sbuffa, sposta le sue riviste, si gira qua e là. Mi pare che parli tra sé e sé. Ha una rivista specializzata di psicologia, un'altra di cui non leggo il nome e non indovino il titolo, Marie Claire, fogli sparsi. E borbotta.
La donna giocherella col cellulare quasi fosse un UFO. È chiaro che hanno deciso di non intrattenersi. Ci sono due stampelle distese nei porta pacchi di fronte a me, sulla testa dell'uomo. Osservo i loro bagagli e mi pare di guardarci attraverso come le macchine dell'aeroporto. Bagagli brevi, come i loro percorsi che parlano di viaggi dovuti e poco gratificanti.

Faccio una passeggiata nel vagone. In treno si può fare una passeggiata, un po' ondeggiante, ma pur sempre. In uno scompartimento un uomo e una donna chiacchierano col sorriso e non intendono mollarsi. Due bei tipi. Un altro ha le tendine tirate. Funzionano meglio del filmico cartello "do not disturb": chi oserebbe mai aprire la porta? Ma la curiosità è canaglia e mi fermo proprio là davanti, infilando lo sguardo nelle fessure delle tende per indovinare le sagome. Due scompartimenti sono vuoti; è un'ingiustizia. Per gli scompartimenti, voglio dire. Sono brutti gli scompartimenti vuoti, senza voci, senza facce. Penso che se traslocassi avrei 6 posti tutti per me, ma che ci faccio?

L'uomo nero è uscito nel corridoio e sta appoggiato al finestrino. Fa anche lui la passeggiata, senza scopo. Sono giuste le cose senza scopo.
Fuori non si vede nulla, solo stelline di luci nella campagna, poi le gallerie, che ti risucchiano l'aria nelle orecchie e quando ne esci si sente quel rumore, più o meno fa così: "wom", e ti senti meglio. Mi manca il "tu-tum" dei binari, era bello. Era la filastrocca del treno, che invece ora fila come i pattini sul ghiaccio, con appena un sibilo continuo, che non ti sbilancia.
Le persone non si cascano più addosso.
La tecnologia accorcia le distanze e allontana i corpi.
L'uomo nero trasloca. Lo so, perché non ci sono stazioni, non deve scendere. Raccoglie precipitosamente le sue cose, malamente, borbotta, si parla e si racconta malesseri e insofferenze.
La donna mi parla, infine. Mi va di ascoltare. Mi mostra le sue ginocchia ricostruite, piene di operazioni, placche al titanio, chiodi e ferramenta varia. Gambe bianche come lenzuola, sformate.Vive a Bergamo da 40 anni, è nata a Lione, ha un bastardino che le dorme accanto, un marito morto e un figlio che l'aspetta, una pensione che appena ci campa, un cellulare nuovo che non sa come funziona con un twist per suoneria che ci potremmo ballare su, il prosciutto cotto sottile non le piace, mica è come quelle fette da due centimetri che le tagliano in Francia, gli anni più belli della sua vita li ha passati a Napoli, sotto casa stanno sistemando la piazza e i marciapiedi e lei esce malvolentieri perché con le stampelle inciampa, il chirurgo che l'ha appena controllata dice che va benissimo e che presto potrà gettare le stampelle, la Pepsi è meglio della Coca perché c'è meno zucchero e lei è diabetica, però non troppo, e un dolcetto se lo mangia quando vuole.

Io penso a quelli che adesso stanno nel paese che abbiamo appena attraversato, che camminano in strada e si affrettano perché è ora di cena, al bar della piazzetta dove si fanno l'ultimo goccio due ferrovieri e i vecchi che nessuno aspetta nella casa vuota, alle TV che rumoreggiano con la sigla del TG e le posate che tintinnano nei piatti, ai vetri dei lampioni su cui si è attaccata l'umidità della notte che riverbera la loro luce gialla come uno spiritello, ai marciapiedi soli che si intristiscono, agli uccelli della notte che guardano la cometa che passa senza fare "tu-tum", la donna descrive la pazienza del chirurgo, l'uomo nero ha optato definitivamente per il corridoio, i due dello scompartimento più in là si scambiano il numero di telefono, il macchinista sbadiglia, la Sacra di San Michele sta appesa come un santuario, le macchine sulla strada non possono distrarsi.
Io tra poco sono arrivata e mi dispiace.


lunedì 16 giugno 2008

Vita da cana



Vita da cana

di Massimo Marnetto



Io sono una dalmata, anziana (13 anni) ma ancora discretamente arzilla. E quindi, potrei vivere tranquilla e serena la mia vecchiaia, ma purtroppo sono... la cana di Massimo.

Sì, mi ha sempre chiamato cana e non cagna, perché gli sembrava brutto; ma questa è l'unica premura che mi abbia mai usato.

Invece, vado molto più d'accordo con la moglie e le figlie, che spesso mi riservano i grassetti del prosciutto, facendoli scivolare sotto il tavolo con mossa da prestigiatore, senza che il ciccione (Massimo) se ne accorga.

Adesso che si avvicina l'estate, poi, mi toccherà viaggiare schiacciata tra loro, nella vecchia Micra di oltre 10 anni, che le figlie - fin da bambine - chiamavano "gnosa", per poter poi dire tutto d'un fiato al padre: hai la Micra-gnosa!

Ora non vomito più, ma la cosa che mi scoccia sempre è vedere quei due là davanti discutere sulla strada da fare.
Sì perché il ciccione è un "chiedista" - uno che chiederebbe informazioni a tutti - mentre la mia pricipessa (la moglie) è una "non-chiedista". E spesso litigano perché alla fine lei - per farlo contento - abbassa il finestrino e chiede, ma quando poi deve riferire all'equipaggio, farfuglia "... beh, ero troppo agitata e non ho capito niente, ma comunque giriamo qui a destra..."

"Ma come non hai capito... - fa il ciccione - allora la prossima volta mi sporgo e parlo io..." E così continuano per chilometri.

Se le macchie non ce le avessi avute dalla nascita, mi sarebbero venute lo stesso...




venerdì 13 giugno 2008

La Sefora


Claude Joseph Bail (1862-1921)
Woman Sewing In Front Of Her Cottage


La Sefora

di Zena Roncada
(colfavore delle nebbie)




La Sefora aveva i suoi pensieri.
A ben vedere, neanche piccolini.
Se gli uomini solo capissero, una volta, il verbo figurare…
Se solo intendessero che il disgusto perdura e sa restare: a macchiare il dentro e il fuori, come certi fondi di ruggine marrone, nei bicchieri…
E invece.
In casa, nessuno a sentire la sua preoccupazione: la nuora, sposa nuova di febbraio, invitata dal figlio a fare la bugada.
La bugada lì, nella corte dei Mortai. Senza chiederlo, come fosse una cosa naturale.
-È lei che vuole, s’era scusato il figlio.
Ma la prima bugada a primavera è quella grossa, coi panni sporchi dell’inverno, che han l’odore del freddo e del marcino. Tenuti a cavallo della trave maestra, su nella soffitta: quattro mesate di camicie, federe e lenzuola, con dentro la febbre sudata della vecchia e gli umori del sonno e della notte.

Honoré Daumier: Laveuse au Quai d'Anjou, 1863-1864
Albright-Knox Art Gallery, Buffalo, NY


No, non c’era abbastanza confidenza.
Lei voleva, la Sefora, salvar la dignità: servire a sua nuora il pollo cotto al forno con la legna d’uva (la pelle che sfrigola, insieme al rosmarino e a certe malizie di pancetta fine). E la crostata messa al focolare, con le braci a fare fitto sul coperchio: lì sì che si vede la bravura, nel sapere il punto di cottura solo dal profumo di mela caramella e di biscotto.

Sia chiaro, alla Sefora piaceva far bugada: stare nell’odore della liscia, quando scende calda e lenta, acqua che pare tortorina, con la cenere sciolta e ribollita.
Alla Sefora piaceva stare con le donne dei suoi biolchi, attorno alla mastella. Grembiale bagnato sotto il petto e dita rugate di sapone.

Jean-Baptiste-Simeon Chardin: The Laundress, c.1735
Hermitage, St.Petersburg

Ma con la nuora no.
Così giovane e figlia del notaio. Così in su, così in su che la piuma a lato del cappello già pareva toccare il paradiso.
Un pensiero, da farci malattia. Ché poi era tutta colpa sua, madre matta a voler far studiare suo figlio da ‘ingignere’ per poi vederlo andare fuori dal sentiero.

Fu giornata di mattina chiara, come sa fare marzo, con l’aria dolcebrusca sulla pelle.
Il paiolo al fuoco al fondo del cortile.
La nuora arrivò da piazza in bicicletta, salutò con la mano, appena intimidita, poi si chiuse un poco nelle spalle, stringendosi il golfino sotto il collo.
- Fa fresco, disse la Sefora e fu tutto.
- State ben in là che butto giù, gridò il biolco dalla finestra in alto.

Dalla finestra del solaio nevicò l’inverno.
Fiocchi di tela grossa, impudichi nell’aria.
Tutta la biancheria di casa.
Nel tacere e nel guardare delle donne, come se a scendere fosse la madonna, il manto e la sua veste.

La Sefora fissava dentro il bianco.
La nuora si mosse per prima: c’era da raccogliere i panni e metterli sul fondo del mastello, strato su strato, prima della liscia.
Discreta, prese dal mucchio la federa con le cifre ricamate, l’ombra del capo appena in evidenza.
- Mama, che bella. disse. Ma s’è staccato un pizzo, vede? Neh, che è meglio darle un punto? Adesso, prima di lavarla, sennò si rompe di più...
E dalla tasca prese ago e filo e si mise a cucire, sul bordo dell’abbeveratoio.
La Sefora sentì nelle braccia un chè di molle e buono.

(martedì, 12 febbraio 2008)

Da Pesci di nebbia


Mary Cassatt: Young Woman Sewing in a Garden
c. 1886, Musée d’Orsay, Paris


mercoledì 11 giugno 2008

Maturità II - La vendetta




MATURITA' II - La vendetta

di Roby



11 giugno... ci siamo quasi... ancora una settimana e poi...

«MAMMAAAAAAAAA!!!!!!!!!! Sei su GOOOOOOGLEEEE?????»
Sì: perchè?
«MiguardiquandoènatoequandoèmortoItaloSvevo?»
Ma... non c'è scritto nel tuo libro di...
«MAMMANONROMPEREEGUARDAMELOGRAZIEEEEE!!!»

La molto prossima maturanda sta finendo di redigere nonchè di imparare, con grande impegno personale e notevole sforzo mnemonico, la sua tesina interdisciplinare avente per titolo L'Unione Europea. Alla data di oggi, tutta la famiglia, nonni compresi, è ormai edotta sulle varie tappe che hanno condotto all' Europa unita, dai vagheggiamenti di Cattaneo e Mazzini Ma guarda! Ecco chi è quello lì del viale...!!!») al trattato di Maastricht, fino alle new entry del 2007. Il peggio è stato trovare un argomento di letteratura atto allo scopo: Svevo e Trieste come crocevia mitteleuropeo sono stati -modestamente- un suggerimento materno, accolto per la verità con qualche mugugno.

«UFFFFFFA!!! Macchepalle!!! La Giusy sì che è fortunata: deve ripassarsi solo due o tre poesie di coso... come si chiama? Quello del Ciclamino notturno!»

Segue una breve pausa di quiete, dovuta al fatto che il cellulare ha borbottato più volte, segnalando la presenza di vari messaggini. Speranzosa, ne approfitto per guadagnare la porta di casa, con l'intenzione di andare a fare un po' di spesa: difficile, in effetti, inventare qualcosa per cena potendo contare solo su due uova, mezzo limone e un fondo di barattolo di marmellata di more...

«DOVECA**OVAI????? Ho bisogno di teeeee!!!! Cercami subito dov'è nato e dov'è morto quello là della Giovane Italia!!! Dài, mamma: ti pregooooooooo!!!!»

Insomma, cari amici di web, adesso avete capito come mai -da qualche giorno- làtito dalla rete. La spada di Dàmocle (non oso chiedere alla pargola se conosca tale detto, per evitare gesti osceni accompagnati da profluvi di parolacce) la spada di Dàmocle dell'esame, dicevo, pende ormai vicinissima sulla chioma corvina della ragazza. Siamo al final countdown. Sursum corda (idem c.s.) e che la Gelmini ce la mandi buona!!!



lunedì 9 giugno 2008

Donne [molto] pericolose


Anselm Friedrich Feuerbach: Paolo e Francesca, 1863
Private collection


Donne [molto] pericolose

di Stefania Mola



"Gli uomini non vogliono essere toccati nel cervello da una donna, bensì altrove"
(Gottfriend Benn)



Tempo fa, in occasione della sua uscita in lingua originale, “adottai” nel blog la copertina di questo libro insieme al suo titolo (che sentivo particolarmente vicino al mio pensiero e sensibilmente aperto ad un gran numero di interpretazioni). Ora che il suddetto libro è disponibile anche in italiano prendo nota di alcune perplessità: ho trovato – ad esempio – inutile e troppo autoreferenziale la breve prefazione di Daria Bignardi, e decisamente scorretta la sistemazione nella bandella destra dei suoi dati biografici, a precedere quelli dei due autori, Stefan Bollmann e Elke Heidenreich.

Jean-Étienne Liotard: Marie Adalaide, 1753
Galleria degli Uffizi, Firenze

Ma mi godo soprattutto la straordinaria galleria di ritratti di lettrici che rendono queste pagine così dense e “parlanti”.
Di una parola tutta affidata alle nostre personali considerazioni, giacché il tema presuppone ed esalta circostanze di intimità silenziosa e riflessiva tutta raccolta intorno ad una sostanziosa carrellata di dipinti.

Pieter Janssens Elinga: Reading Woman
Alte Pinakothek, Munich

Otto secoli di immagini e di donne che leggono o che intrattengono con la lettura e i suoi rituali un rapporto particolare, rivoluzionario ed esclusivo. Donne che non si annoiano mai, che hanno sempre una via di fuga e una prospettiva ribaltabile, capaci di cadere nella rete della parola scritta, dissotterrarla, preservarla quand’anche libri e anime fossero fatti a pezzi. Donne pericolose per chiunque tema che le domande rimettano in discussione le regole radicate. Perché queste donne possono disporre del proprio corpo qui e della loro mente altrove, in luoghi dove nessuno può seguirle. Possono stare da sole, coltivare la fantasia e l’autostima, dimenticare spazio e tempo, imparare a ricucire gli strappi della propria esistenza e a plasmare il proprio destino. Sciogliendo i vincoli di un ruolo per acquisire un’identità, avida e incontrollabile.

Hugo van der Goes: Sts. Margaret and Mary Magdalene
with Maria Portinari, 1476-1479

Tra le lettrici “di talento” vi è la fiera e monumentale santa Margherita di Hugo van der Goes, con un libro che è un'arma letale per il drago ai suoi piedi. Tra quelle “stregate” da un legame che sfugge al controllo altrui e regala uno spazio di impagabile libertà (inaccessibile a chi non ne detenga le chiavi) vi è la domestica di Pieter Janssens Elinga, dimentica dei suoi doveri e concentrata in prima istanza a soddisfare il suo bisogno di leggere. Tra le lettrici “consapevoli” troviamo invece l’esotica bellezza della Madame Adélaïde di Jean-Étienne Liotard, e tra quelle "sensibili" – aiutate dai libri a nutrire la propria vita emotiva e ad ampliare le proprie possibilità di percezione – la Francesca da Rimini di Anselm Feuerbach, colta sul limes instabile che separa il silenzio e la contemplazione dall’erompere della passione.

Peter Ilsted: A Girl Reading in an Interior

E ancora. Le lettrici “appassionate” alla ricerca di se stesse e quelle “solitarie” insieme alle loro piccole fughe e alle domande disseminate tra le pagine. Tra le prime non può mancare l’energica fanciulla di Vittorio Matteo Corcos, tra le seconde la ragazza di Peter Ilsted rifugiata tra i bisbigli sommessi delle parole, rincorsa dal fascio di luce che filtra dalla finestra e votata ad una sorta di nostalgia dell’angolo appartato.

Ramón Casas y Carbo: Après le bal , 1895
Montserrat (Catalogne), Museo de la Abadia

Non mi convince la scelta dell’immagine di copertina con la giovane donna di Ramón Casas y Carbo, sfinita dalla fatica del ballo e abbandonata su un divano; non quanto quella dell’edizione tedesca, a mio avviso perfettamente coincidente con quanto evocato dal titolo. Una donna la cui consapevolezza (adombrata dallo sguardo, dalla posa, dal gesto) si nutre anche di quei libri che ha appena riposto e che le sono accanto – ma soprattutto dentro – tanto che pare di riuscire a sentire il rumore dei suoi pensieri. Libri che smentiscono il titolo del quadro, Sogni. Perché i libri possono nutrire i sogni ma nel contempo spalancano orizzonti al di là dello stato di innocenza, e ciò che passa per la testa tradisce aspettative, ruoli e regole. Un prezzo che vale la pena di pagare. In tal senso ha ragione chi sostiene che le donne che leggono sono pericolose: soprattutto per se stesse.

(16 Marzo 2007)

Da Squilibri


Vittorio Matteo Corcos: Sogni, 1896
Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna