sabato 31 maggio 2008

Se l'anima si sporca…




Se l'anima si sporca…

di Remo Bassini




Mi sono fatta rifare naso e zigomi, i miei capelli, ora, sono biondi e corti. Solo i vicini di casa e i colleghi in casa editrice mi riconoscono: da anni, quando vado in giro, non succede mai che qualcuno mi identifichi, a meno che non sia io a volerlo, ma io, solitamente, non voglio.
Tu però mi stai osservando con troppa attenzione.
Sento i tuoi occhi incollati alla mia schiena. Pensa. Se tu venissi qua e mi dicessi che anche senza i capelli ricci e lunghi mi hai riconosciuta, e quindi debbo sparire dal tuo bagno lasciando l’ombrellone ad altri, io ti sorprenderei: sorridendoti.
E’ il terzo giorno, oggi. Ne mancano due alla partenza. Conoscevo la Puglia, ero stata a Bari e Trani, ma mai fin quaggiù, nel Salento.
Son qui per te, per rivederti.
E’ stato facile rintracciarti: ho chiesto a un aspirante scrittore, poliziotto. Mi ha detto della tua casa, a Tricase, di questo bagno sullo Ionio, decoroso, un po’ scalcinato.
Non ho chiesto altro al poliziotto scrittore. Ma avrei voluto: vive solo, ha figli, moglie, fa sempre l’impagliatore di sedie in inverno?
Mi hai riconosciuto, lo vedo. Se mi giro tu continui a fissarmi. Fai così solo con me. Sai che faccio? Oggi resto a pranzo.
Ricorderai, immagino, l’incipit del tuo libro: Quando ci si sporca l’anima una volta…
Non ricordo, poi, le parole che venivano. Ma il senso sì: basta una volta, e l’anima resta sporca, per sempre.
Eccomi qua, al tavolo. Su, da bravo, alza il culo e vieni, non mandare quel ragazzo, troppo giovane per essere tuo figlio.

Stai venendo, mi servirai tu.

Intanto ti servo io: ecco sul tavolo, per i tuoi occhi, due libri.
Uno nuovo, l’altro di quindici anni fa quando tu, ormai, pensavi di… diventare un libro. Fui io a scoprirti, fu mia la prima telefonata.
E’ bellissimo quello che scrive, ti dissi. Fui io a cacciarti.
Cinquantenne del cazzo, presuntuoso. Mi rispondesti con un ghigno.
Ti dissi, volli dirti mentre mi giravi le spalle che il tuo manoscritto non rientra più e mai rientrerà nei nostri piani editoriali. Te ne andasti senza dire una parola, una bestemmia. Vedo i tuoi sandali da frate. Sto guardando i libri, guardali anche tu, forza. Poi interrogami.
Cosa le posso preparare signorina?
Ehi, oggi ho io cinquant’anni e tu mi lusinghi così? Signorina?
Cosa mi consiglia?… Ehi, ma guarda i libri, guarda il nome della casa editrice, prendesti l’aereo per venire da noi, era il tuo primo aereo, scommetto che da allora non hai più volato.
Va bene: cozze, vecchia ricetta salentina. Ma torna, guarda sul tavolo, e leggi il nome della casa editrice...
Eccoti, sei stato veloce, erano già pronte. Te ne vai senza dire, senza guardare? Già, c’è gente, sei indaffarato.
Sono buone queste cozze, non c’è che dire. Avrei voglia di fare la scarpetta ma sono a dieta. Qui in Puglia è tutto più buono. Peccato dover ripartire. Fra tre giorni sono nelle Dolomiti, per la mia depressione è meglio, m’han detto.
Mi sta incantando questa terra, tornerò, magari non qui. Buone, proprie buone queste cozze, da scarpetta.

Henri Edmond Cross: Le Isole d'Oro, 1891-1892
Parigi, museo d'Orsay

Sei di nuovo qua?, non mi ero accorta di te. Mi stai sorridendo.
Lo sapevo: mi hai riconosciuta. E’ per via del neo sulla mano sinistra? Stai guardando i libri, inespressivo, intanto mi spieghi che le cozze (sono stata io a chiederti la ricetta) sono preparate con tantissimo sedano (c’ero arrivata, grazie), un accenno di cipolla e tanto, tanto vino bianco, di queste parti. Vino bianco e sedano sono il segreto, mi spieghi.
Non ti guardo, io guardo loro, i libri. Dai, chiedi, che aspetti? Non puoi. Il tuo giovane aiutante ci ha raggiunti, dice: Sono arrivati.
Sono arrivati con una Bmw, sono in tre. Due con pantaloni corti e maglietta, il terzo, giovane, grasso e sudato, ha il completo, stropicciato, di lino bianco. Che avete da discutere? Siete lontani.
A me un tavolo lo devi trovare, testa di cazzo: il piccolo e grasso ha la voce forte. Con la testa, lentamente, dici di no. Non vuoi farli accomodare, del resto hai ragione, è tutto pieno. Quindici anni fa dicesti di no a me: ciondolando allo stesso modo la tua testaccia dura.
Ti avevo scoperto io, io, ma cristo quelli ti stanno spintonando, e tu continui a dire di no, con quel tuo cranio grosso, non penso ci siano taglie adatte a te.
Sei bello sai? Se ne stanno andando e il tuo volto è affilato dalla rabbia. Non li dimostri i tuoi sessantacinque anni, sei bello come un dio greco.
Il ragazzo ti sta consolando. La gente che ai tavoli sta aspettando caffè e conto, tace.
C’è tensione, nonostante il sole e il rumore del mare.
Ci pensa il ragazzo a portare amari e caffè, tu vai alla cassa. Inforchi gli occhiali, hai gli occhi bassi. T’han visto tutti, un attimo fa, che sei barcollato per una spinta.
Erano belli i tuoi racconti contadini. Ricordo il prete guaritore, ricordo… quando ci si sporca l’anima una volta… basta una.

La moglie del sindaco cercò di sporcare l’anima del prete, forse per ripagarlo, lui aveva salvato suo figlio con un rito magico. Non ci riuscì, e si vendicò, infangando il prete…
Ma fu la sua anima a sporcarsi.
E avevi fatto solo la quinta elementare. L’idea fu di Carlo, il mio primo marito, ma io la trovai geniale: avevamo preparato una quarta di copertina che avrebbe funzionato. Questo libro, di un uomo privo di cultura ma ricco di ricordi e di istinti primordiali…. ti fece rabbuiare.

Parlo l’inglese e sto studiando il latino, ci dicesti. E sapevi cos’era un ossimoro, un anacoluto. Eri arrabbiato, e pensare che ti eri presentato raggiante, con dolci pugliesi per tutti noi, fatti in casa. E questa è merda, dicesti, indicando la cartella che conteneva le bozze della copertina, il manoscritto, il contratto da firmare.
Rivedo ancora lo sguardo di Carlo, tutto per me: Convincilo, questo caprone non saprà resisterti.
Restammo soli. Ti spiegai. Tacevi. Mi facevi compassione, sai? Ma quando ti accarezzai la mano, dicendoti: Pensa a quando accarezzerai un libro tuo, scattasti in piedi, sembravi morso da una tarantola.
Ricordo che pensai: ma non vede quanto sono desiderabile?
No, no… la psicologa dice che non devo prendermi in giro…
Pensai: come fa questo a non avere voglia di scoparmi?
A nessuno, mai, avevo sfiorato la mano, a nessuno, mai, l’ho sfiorata, dopo di te. Tutti ai miei piedi, sempre, quelli alle prime armi.
Tu, invece, eri lì, sprezzante. Così ti cacciai.
Agli altri dissi che non avevi accettato nessuna mediazione, che eri un presuntuoso. Mi ero vendicata di un Cinquantenne del cazzo; tu, tu non avevi detto sì come mi dicono tutti, non mi sorridevi, te l’avrei staccato quel testone che faceva no, no, no…

Sono davanti a te, alla cassa, hai altro per la testa oggi.
Vado via, parto, ti dico. Arrivederci signorina, dici.
Il tuo giovane dipendente ti sta guardando con ammirazione.

Da Altri appunti, Remo Bassini




giovedì 29 maggio 2008

Una stanza tutta per sé


Edward Hopper: Hotel Room, 1931


Una stanza tutta per sé

di Giulia



Per secoli il percorso esistenziale della donna era stabilito senza che le fosse data la possibilità di una scelta: da figlia a moglie, da moglie a madre, attraverso un itinerario istituzionalizzato, segnato da regole e mansioni prestabilite che la tenevano occupata per l'intero giorno.

Era isolata dal contesto sociale esterno alla casa, ma mai padrona della sua solitudine. La donna che viveva da sola era invece considerata un'esistenza mancata. Una zitella, cioè una donna che non era riuscita nel suo compito primario, quello di moglie e di madre.

La cultura dominante si chiedeva beffardamente quali altri desideri di autorealizzazione potesse coltivare segretamente una donna: non erano già più che sufficienti le responsabilità della conduzione domestica e l'amore per il marito e i figli? Così, scrittrici come George Eliot e George Sand , furono costrette a nascondere la loro identità sotto questi pseudonimi maschili, per ottenere l'attenzione e il consenso che era precluso alle donne.

Eugène Delacroix: Portrait of George Sand, 1838

La convinzione diffusa era che la donna non fosse capace di creare, se non il prodotto naturale del suo grembo, che anzi vi fosse qualcosa di sconveniente nel desiderio femminile di coltivare le passioni intellettuali.

Nella nostra civiltà ebraico-cristiana, dunque in una tradizione rigidamente patriarcale, l'immagine della donna non ha trovato una rappresentazione adeguata..

Virginia Woolf, nei due famosi saggi riuniti nell'opera Una stanza tutta per sé (1928), ci guida in un viaggio che attraversa i secoli dal Cinquecento al Novecento sulle tracce della storia della emancipazione della donna-scrittrice dagli ostacoli, interni ed esterni, che le impedivano di aderire pienamente alla sua vocazione. Emergono dei ritratti di donne di un'intensità dolorosa, storie di amarezze subite e di autolimitazioni imposte, che danno la misura della fatica che comporta l'affrancarsi dalla norma e dal giudizio collettivo.

Le sorelle Virginia (Woolf) e Vanessa (Bell) Stephen

È evidente che la repressione delle attività letterarie della donna è emblematica: scrivere è riflettere, è distogliersi da quelle occupazioni che la mantengono una creatura destinata (siamo nell'aristocrazia) ai giochi d'amore e al governo della casa.

Le poetesse del Cinquecento e Seicento, dunque, restavano rinchiuse nei loro parchi, fra i loro libri “che scrivevano senza pubblico e senza critica, per il proprio diletto soltanto”.

Una svolta notevole si ha agli inizi del Settecento, a opera di donne della classe media: un piccolo esercito di scrittrici che riuscirono a trasformare la loro opera disinteressata in un lavoro remunerato e che tradussero o scrissero mediocri romanzi di cui oggi non esiste più memoria. Va detto che molte di loro traducevano anche i grandi classici, Shakespeare per esempio e, attraverso la loro attività, dimostravano al mondo, alle altre donne e soprattutto all'altro sesso, che una donna era perfettamente in grado di guadagnarsi da vivere scrivendo.
“Un mutamento, scrive la Woolf, il quale, se io dovessi riscrivere la storia, mi sembrerebbe più importante che le Crociate o la Guerra delle due rose”.

Le scrittrici dell'Ottocento, dunque, poterono incamminarsi sul terreno già spianato dalle loro precedenti compagne di ventura, ma non era stato risolto un problema: il diritto alla solitudine.

Virginia Woolf ci accompagna nello spazio privato di alcune scrittrici, tra cui Jane Austen, George Eliot, Emily e Charlotte Brontë. Tutte e quattro appartenenti alla classe media, tutte senza figli e tutte, rileva acutamente la Woolf, senza “una stanza tutta per sé” “Se una donna scriveva, doveva scrivere nel soggiorno comune”. E in quella stanza esse vengono continuamente interrotte.

Emblematica la situazione di Jane Austen, l’autrice di Orgoglio e pregiudizio: ella per tutta la vita scrisse nel soggiorno, nascondendo i suoi manoscritti o coprendoli con un foglio di carta assorbente, ogni qualvolta sentiva arrivare qualcuno.

Jane Austen in uno schizzo della sorella Cassandra

La “stanza tutta per sé”, auspicata da Virginia Woolf, è dunque metafora del diritto a uno spazio in cui potersi immaginare come “donna tutta per sé”, liberandosi di quella “anonimità”, come la definisce la Woolf, dettata dall'autolimitazione.

Prendersi cura di se stessi, avere la possibilità di guardarsi dentro, significa anche guadagnarsi uno spazio pubblico, un riconoscimento, non tanto per entrare nell'ordine dell'uomo, quanto per dichiarare la propria identità, per rendere manifesta la propria parola, troppo a lungo rimasta segreta. La stanza dunque è anche lo spazio della sospensione e della trasformazione della donna, quel luogo di solitudine che rende possibile una riappropriazione e un riconoscimento del proprio potenziale creativo.

“Fino a quando, scrive ancora la Woolf, la donna sarà costretta a spendere le sue migliori energie per guadagnarsi uno spazio tutto per sé, finché dovrà investire tutte le proprie capacità espressive nella protesta, nella denuncia accorata, nel cahier de doléances a cui la società fa troppo spesso orecchie da mercante, non le sarà possibile attingere alle sue migliori potenzialità e dedicarsi al suo compito creativo, ad uno spazio creativo che non trovi identificazioni nell’uomo, ma sia proprio dell’emisfero femminile.”

Credo che su questo terreno forse ancora molte di noi debbano fare molta strada… Riusciamo ad avere questo spazio?

(lunedì, 10 marzo 2008)

da Pensare in un'altra luce


Virginia Woolf

P.S. L'immagine sulla destra del post è di un piccolo acquerello di James Stainer Clarke, datato 1815. E' probabile che la donna effigiata sia Jane Austen.

martedì 27 maggio 2008

Piccolo stupido lord




Piccolo stupido lord

di Roby




Da bambina avevo una zia che non era una zia (nel senso che era solo una carissima amica della mamma), passata a miglior vita circa trent'anni fa, di cui ricordo in particolare tre cose: le scarpe sempre perfettamente coordinate con la borsa, il sorriso largo e genuino e i regali che portava a me e a mia sorella, ogni volta che veniva a trovarci.
Tra questi doni, all'incirca nel 1964/65, ci fu un'edizione di lusso del Piccolo lord di Frances H. Burnett, autrice che per me rimase di genere maschile finchè non scoprii, almeno due lustri più tardi, che Frances non era l'abbreviazione inglese di Francesco.
Il libro -essendo io a quell'epoca una vera divoratrice di carta stampata- fu consumato in pochi giorni, e poi letto e riletto fino a saperlo quasi a memoria. Le magnifiche illustrazioni a colori (tavole fuori testo) mi portarono a costruirmi un'immagine ben precisa del piccolo Cedric, futuro Lord Fauntleroy.

Un'immagine, via via che il tempo passava, sempre più insopportabilmente antipatica.

Prima di tutto, quel che non riuscivo a capire era il vezzo che la sua mamma aveva di pettinarlo come una bimba, tutto onde e boccoli d'oro, vestendolo per di più con golette di pizzo, marinaretta e fiocchi dappertutto, scarpette col tacco comprese.
Se uno dei maschietti, miei compagni di giochi di allora, si fosse presentato così conciato ad una festa di compleanno o ad una partita di Strega-comanda-colori sarebbe stato accolto da un coro bipartisan di "Fem-mi-nuc-cia-fem-mi-nuc-cia!" da parte di amichetti e amichette: a meno che, si capisce, ci si fosse trovati a Carnevale, o nel bel mezzo della recita scolastica avente come tema Cenerentola e il Principe Azzurro.

E poi, la storia personale del piccolo Cedric: il padre sposa un'americana, trasferendosi a New York, e viene per questo diseredato dal nobile genitore britannico (oddiomio -pensavo- ma che cos'avranno mai di così terribile le ragazze statunitensi per essere tanto aborrite dagli aristocratici inglesi? Mooolto dopo ho visto Madonna e Britney Spears e ho capito...), poi muore in guerra (allegria!) ed il burbero nonno esprime il desiderio di conoscere il nipotino - legittimo unico erede- nato nel frattempo. Fin qui, tutto bene, più o meno: ma l'avo gottoso impone l'assurda condizione che il piccolo abiti con lui al castello patrizio, mentre l'odiata (e peraltro sconosciuta) nuora deve sistemarsi in una dependence ai margini dello sterminato parco circostante.
A questo punto, io, per quanto bambina non ancora novenne alquanto timida, avrei rifilato un bel calcio negli stinchi del nonnetto, dicendogli chiaro e tondo che col cavolo stavo tutto quel tempo senza la mia adorata mammina, e che si tenesse pure per compagnia quel grosso alano pulcioso disteso sul tappeto persiano davanti al caminetto, ecc. ecc.


A sinistra: Gertie Horman, che vestì i panni maschili del Piccolo Lord a Broadway nel 1890

A destra:illustrazione di un'edizione a puntate su un giornale dei primi del '900








E invece no: Cedric, facendo ondeggiare armoniosamente i riccioli angelici che gl'incorniciano il bel visetto e sgranando a dismisura gli occhioni blu, dichiara di aver intuito (diavolo di un fanciullo!) che suo nonno non è un emerito str***o, no, è soltanto troppo solo, e che lui può senz'altro fargli del bene, restando al suo fianco, malgrado sua madre sia relegata negli appartamenti dei domestici come una sguattera.
Da qui partono una serie di capitoli dedicati a dimostrare come il candore e la bontà pura e assoluta del bimbo inteneriscano a poco a poco il duro cuore del nonno, portandolo a comportarsi in modo così umano da meravigliare l'intera servitù.

La melassa versata a piene mani sulle pagine del romanzo viene appena un po' diluita dalle indimenticabili figure del signor Hobbs e di Dick, due amici newyorkesi di Cedric e di sua madre: l'uno, droghiere non particolarmente colto ma sveglio e arguto, l'altro lustrascarpe sventato ma simpatico e di gran cuore. Se non fosse per loro, con i quali è rimasto in contatto postale, l'insulso piccolo lord perderebbe d'un colpo tutto il patrimonio appena ereditato, il casato e la primogenitura, essendo spuntata all'orizzonte un'astuta truffatrice che si proclama a sorpresa legittima moglie del figlio maggiore -lui pure, guarda un po', deceduto- del terribile nonno. Costei presenta il proprio pargolo -bruttino e malaticcio- come il vero prossimo Lord Fauntleroy per diritto di nascita, gettando tutti nella disperazione... all'infuori, si capisce, del biondo serafico cherubinesco Cedric, che saltellando per i corridoi del palazzo nel suo completino di velluto blu e nei suoi calzettoni bianchi con le nappine, proclama tranquillo che va benissimo così, e chi se ne infischia dei soldi e del titolo nobiliare? Torniamo a casa e grazie lo stesso, mi dispiace un sacco solo per il mio caro dolce nonnino che ci è rimasto tanto ma tanto male...

Mary Pickford che nel 1921 interpretò la doppia parte di Cedric
e di sua madre

Grazie al cielo lo sciuscià e il droghiere, di gran lunga meno rileccati ma molto più furbi di lui, partono in suo soccorso, subodorando l'inganno, e dopo un'avventurosa traversata in nave giungono in terra d'Albione giusto in tempo per ristabilire la verità e dare a Cesare... anzi, a Cedric quel che è di Cedric. Lui, come al solito, non fa una piega: ok, va bene, si ritorna ad essere nobili, e a giocare con l'alano grande quanto un cavallo, mentre il nonno tanto buonino borbotta qualcosa fra i denti. Come dici, nonno? Che la mamma può (Deo gratias!) venire a vivere al castello con noi? Macchebellezza, nonnino adorato! Smack smack pciù pciù, l'avevo detto io -fin dal terzo capitolo- che non eri cattivo ma solamente tanto tanto solo, ecc. ecc.

Lo so, sono stata un po' dura con Mrs Burnett, autrice del libro e anche di altri due capolavori per l'infanzia, La piccola principessa e Il giardino segreto (oggetto, come Il Piccolo lord, di varie trasposizioni cinematografiche): ma il fatto è che l'esagerata, stratosferica, inverosimilmente ingenua bontà del protagonista rasenta qua e là -davvero- l'idiozia, evidente persino agli occhi di una bambina quale io all'epoca ero.

Il che non toglie nulla, comunque, al delizioso ricordo lasciatomi dalla zia Lilia, dalle sue borse sempre in tinta con le scarpe e dal sorriso smagliante con cui, in quel pomeriggio di tanti anni fa, mi porse -pregustando il piacere di vedermelo scartare con entusiasmo- il grande pacco rettangolare, infiocchettato almeno quanto le giacchette di velluto del Piccolo stupido lord.


La prima edizione del romanzo, pubblicato nel 1886


domenica 25 maggio 2008

Casa


Gustave Caillebotte: Paris, La Place de L'Europe (part) 1877
The Art Institut of Chicago


Casa

di Massimo Marnetto




All'inizio sembrava una battuta lasciata cadere tra un sorso di caffè e l'altro, in una pigra colazione domenicale in famiglia. "E' un affare - insisteva mia moglie - e poi se ci stufiamo, possiamo sempre rivenderla"

"Dai papà - incalzava una delle figlie - ma non capisci che è fichissimo avere una casa a Parigi... e poi in pieno centro."

"Ma come - rinforzava l'altra mentre io fissavo il muro da dietro la tazza sospesa tra le due mani davanti alla bocca - proprio tu, che hai sempre detto che da ragazzo appena avevi quattro soldi andavi a Parigi.. e adesso che ci capita un'occasione così, ti tiri indietro?"

Insomma, questa cavolo di casa da comprare a Parigi stava diventando di minuto in minuto, una bomba. Accidenti a mio suocero!... e al suo amico che gliela aveva proposta ad un prezzo da amico, appunto...

Sì perché io amo Parigi, ma non amo le case, tranne quella che mi serve per vivere. Infatti, ho una mia filosofia: nella vita ti puoi concedere solo un lusso: o avere le cose o avere il tempo. Perché se hai troppe cose a cui badare, non hai più tempo per fare quello che ti piace.

Io preferisco il tempo.

Claude Monet: Paris, Quai du Louvre (1867)

Già la mia casa di Roma - che adoro - ha sempre qualcosa che non funziona e mi porta via un sacco di tempo. Figuriamoci una casa a Parigi, con le "reunion de condomen" a cui l'italien non va mai (que vergogn...) e la telefonata dell'amministratour il sabato mattina: mesieur, l'infiltration d'eaux... e tu a cercare un idraulico parigino al telefono.

E poi, c'è la faccenda complicatissima dei prestiti.
Non appena si sparge la voce tra i conoscenti che hai una casa vuota a Parigi, tutti si sentono in dovere di riempirtela.
E te la chiedono con l'aria di farti un piacere; quello di non farti sentire un coglione che ha speso soldi per comprarsi una casa che non usa.
Per fortuna ci sono loro, che ti apriranno pure le finestre e faranno cambiare l'aria.

Ma qui c'è subito una complicazione: se la presti a uno, non la puoi negare a un altro. E il giro dei richiedenti si allarga a macchia d'olio. Pronti a prenderti in castagna se la tua contabilità vacilla: come?... a lui una settimana e a me solo un week end. Scoppierebbero le guerre delle maldicenze per eliminare la concorrenza. "Guarda tu sei stato un tesoro a darcela dopo che l'ha utilizzata il tuo collega, ma sapessi come l'aveva ridotta... vabbé, lasciamo stare".

"Allora, papà?"

"Ne riparliamo fra un paio di giorni".

Ho imparato che non bisogna essere frontali nei rifiuti: bisogna aver fiducia nella volatilità dei desideri. Di solito spariscono in poco tempo Senza nemmeno lasciare l'alone.


Raoul Dufy: Paris, La Tour Eiffel 1935


venerdì 23 maggio 2008

Lambrusco, castagne e pop corn




Lambrusco, castagne e pop corn

di Ilenia Ferrari




non mi ricordo se sono stata una bambina precoce.
se a 3 anni sapevo già leggere e scrivere, se a 5 facevo il cubo di rubik con una mano sola e se a 8 predicavo nel tempio. fatto sta che si è ritenuto necessario mandarmi a scuola.
la scuola era un posto fico, dove potevo farmi tanti amici, mangiare merendine, fare l'intervallo e soprattutto imparare a scrivere. il primo giorno che arrivai a scuola trepidavo di emozione: finalmente le stanghette che mia madre si ostinava a farmi copiare per farmi scrivere “ILENIA” avrebbero avuto un senso. e io avrei potuto farne buon uso da grande, quando sarei diventata una famosissima e stimatissima tabaccaia. anche se non avevo del tutto accantonato l'idea di fare la prestigiatrice.
ma il primo giorno di scuola ricevetti una mostruosa delusione dal sistema scolastico italiano: le maestre si presentarono tutte gioiose, ci convinsero che saremmo stati bene, che a scuola ci saremmo divertiti un sacco e che quelli che stavano per arrivare erano i migliori anni della nostra vita. ma di leggere e scrivere neanche l'ombra. io mi ero convinta che la scuola era bella, c'era quella faccenda delle merendine in ballo: non c'era bisogno di tirarla tanto per le lunghe. e invece niente. l'affaire “scrittura” rimaneva top secret, protetto meglio che dagli uomini di quantico.
le maestre continuavano a citare il loro curriculum vitae, mortae e miracolae e a spataffiare quanto fosse bella la scuola, che magnifica avventura fosse apprendere, che audace e rocambolesca esperienza fosse condividere la conoscenza. questo concetto l'avevo afferrato al primo giro, anche se alla parola “condividere” un brivido mi aveva percorso la schiena: credevo mi si chiedesse di spartire le mie merendine. per fortuna si trattava solo di condividere competenze varie, micca cibo cariatorio.
mentre le maestre tenevano la loro democratica conferenza sul mondo di oz e sul sentiero di mattoni gialli, la situazione tra i banchi degenerava. laura, la bambina puzzona che negli anni avrebbe imperterritamente continuato ad appestare, continuava a piangere perché voleva stare con sua mamma. probabilmente uscire dal miasma nucleare di casa sua le aveva provocato crisi di astinenza e le lacrime le scendevano a fiumi come cagionate da reazione allergica alla combinazione atmosferica di ossigeno e azoto. quella roba necessaria a respirare, insomma. lei, abituata ad inalare esalazioni di grasso fuso e soffritti all'aglio, non c'era avvezza: normale che si sentisse così spaesata.
il primo giorno di scuola, dunque, fu una vera fetecchia. meno male che mia madre, al ritorno, mi fece trovare un fiammante vestito di barbie sul divano. era il regalo per non aver pianto a dirotto come laura e soprattutto, credo, per non emanare il suo stesso nauseabondo tanfo.
e fu sera e fu mattina: secondo giorno di scuola. carica di aspettative e lontana anni luce dalle modifiche della legge moratti, tentai di capire se finalmente mi avrebbero insegnato a scrivere o se questa storia dei sussidiari fosse tutta una bufala messa in piedi dal mondo editoriale per incrementare i guadagni.
così mi sistemai al mio banco estote parati come baden powell, pronta ad apprendere qualsiasi nozione calligrafica. ero armata come rambo, con una staedler HB tra gli incisivi e una gomma lebez incastonata tra pollice e indice.
ecco che, nel furore generale, le maestre fanno l'annuncio.

-bimbi, oggi cominciamo a scrivere. ma quale frase ci accompagnerà per tutto l'anno? qualcuno ha qualcosa da suggerire?

allora, signor maestra: o ce lo dice prima che dobbiamo essere creativi o poi si deve aspettare delle crisi di panico. come faccio a inventarmi una frase da scrivere così, su due piedi? cosa posso dire?

-io signora maestra, io ho un'idea.

era lui: enrico fantini. e questa era la sua prima promulgazione. negli anni a seguire enrico fantini si sarebbe rivelato il maggior sex symbol delle elementari e avrebbe schiantato un sacco di tope-bambine. per il momento, però, era soltanto un tenero frugoletto che aveva avuto un'intuizione.

-dimmi enrico, cosa possiamo scrivere?

la maestra lo conosceva già troppo bene per i miei gusti: c'era un particolare che non quadrava, ma il secondo giorno delle elementari non era il caso di fare la sindacalista dei bambini. dovevo studiare la situazione capire come compitare. o computare.

-non so cosa possiamo scrivere, ma io avrei portato dei ricci di castagna che ho raccolto domenica a serramazzoni!

bambino borghese di merda. io per andare a serramazzoni dovevo aspettare la colonia estiva del prete, nel frattempo andare tutti i sabati in parrocchia, imbustare gli avvisi per la comunità e pulire l'appartamento di don gasparo. e lui, così, se ne esce bello bello e va di domenica sull'appennino a raccogliere ricci. magari non doveva nemmeno fare il turno dei piatti, quel piccolo burnettiano lord fauntleroy.

-vieni qua, enrico e fammi vedere i tuoi ricci. e falli vedere anche ai tuoi compagni, che non sono stati a serramazzoni come te!

piccola maestra di merda: è vero che io non sono stata in montagna, ma non è che la mia esistenza valga meno per questo. io non lo invidio enrico fantini, a me piace alessandro malpighi, peraltro. c'ha le lentiggini e gli occhi verdi e gli piacciono un casino gli scimpanzè.
nel frattempo enrico mostra orgoglioso alla classe i suoi ricci, che facevano veramente cagare. erano ricci di castagna, morti. fossero stati ricci di mare, vivi, ci si poteva fare la spaghettata. con 5 castagne in croce non ci potevamo nemmeno fare l'arrostita di san martino.

-ma che beli, enrico! bambini, non sono meravigliosi questi ricci? su, ripetiamo insieme: enrico ha portato i ricci di castagna, enrico ha portato i ricci di castagna…

morale della favola: per tutto il primo anno di elementari, per imparare l'alfabeto e migliorare le arti calligrafiche e incunaboliche, riempimmo quaderni pigna di scritte in stampatello, corsivo, corsivo maiuscolo, corsivo minuscolo e times new roman che recitavan così:

ENRICO HA PORTATO UN RICCIO DI CASTAGNA.
ENRICO HA PORTATO UN RICCIO DI CASTAGNA.
ENRICO HA PORTATO UN RICCIO DI CASTAGNA.
ENRICO HA PORTATO UN RICCIO DI CASTAGNA.
ENRICO HA PORTATO UN RICCIO DI CASTAGNA.
ENRICO HA PORTATO UN RICCIO DI CASTAGNA.
ENRICO HA PORTATO UN RICCIO DI CASTAGNA.
ENRICO HA PORTATO UN RICCIO DI CASTAGNA.

la noia imperava sovrana in quella scuola elementare ma la precisione ortografica vinceva suprema. così, alla 10.456esima volta che scrivevo daddio ENRICO HA PORTATO UN RICCIO DI CASTAGNA, mi sentii arrivata. quell'anno scolastico fu un inferno, anche perché scrivere di ricci di castagna in primavera era alquanto vintage. ma la maestra perseverava.
scoprii qualche tempo più tardi che enrico fantini ospitava tutti i giorni la maestra a pranzo e andava a casa sua in campagna alla domenica a vedere i cavalli e le mucche. inutile dire che, per non scatenare una rivoluzione orwelliana e finire come i maiali, non dissi nulla ai miei compagni.
quando la scuola finì, io non ero felice perché andavo in vacanza (mi aspettava la colonia del prete e i turni di pulizia in cucina) ma perché capivo che era finalmente terminata l'era dei ricci di castagna. in seconda elementare, ormai perita di bella scrittura, non avrei avuto bisogno delle esperienze bucoliche di enrico fantini per acculturarmi e sarei finalmente diventata una proto-tabaccaia. ma l'insidia si celava infingarda dietro i campi d'oro.
il primo giorno di scuola della seconda elementare ci ritrovammo nei nostri banchi di fòrmica: io ero la solita holly hobbie coi capelli lunghi e neri, alessandro era sempre splendido e lentigginoso e laura non piangeva più. ma puzzava ancora. ed enrico? enrico era lì, con lo sguardo timido e le mani dietro la schiena. la maestra non era cambiata e ci accolse come figliol prodighi. ma non ce ne eravamo andati di nostra volontà, era il ministero che imponeva che le lezioni finissero: tutte quelle feste non avevano molto senso.

-allora bambini, dove siete stati quest'estate?
-in colonia dal prete!
-bene, e tu?
-in colonia dal don!
-ah, e tu alessandro?
-in colonia.
-beh, vedo che siete stati tutti in colonia! ma tu enrico? dove sei stato tu?

dentro di me pregavo intensamente, come non avrei fatto mai in tutti gli anni che avrei frequentato la parrocchia: “non dire che sei stato a serramazzoni, no a serramazzoni, no a serramazzoni, ti prego no!”

-signora maestra, sono stato a…

a viterbo, a margherita di savoia, a buchenwald, dove vuoi…

-sono stato a…

a? parla sporco fauntleroy, dillo, dai!

-sono stato a parma dai miei nonni…

pfiu! pericolo scampato! niente ricci da descrivere o disegnare! evviva! il genio creativo vince sulla ripetitività ciclica!

-… e ho raccolto questa pannocchia di granoturco, che ora mostrerò ai miei compagni!

ENRICO HA PORTATO UNA PANNOCCHIA DI GRANTURCO.
ENRICO HA PORTATO UNA PANNOCCHIA DI GRANTURCO.
ENRICO HA PORTATO UNA PANNOCCHIA DI GRANTURCO.
ENRICO HA PORTATO UNA PANNOCCHIA DI GRANTURCO.
ENRICO HA PORTATO UNA PANNOCCHIA DI GRANTURCO.
ENRICO HA PORTATO UNA PANNOCCHIA DI GRANTURCO.
ENRICO HA PORTATO UNA PANNOCCHIA DI GRANTURCO.
ENRICO HA PORTATO UNA PANNOCCHIA DI GRANTURCO.


All'uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri
io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli




P.S. Questo post è stato pubblicato nel blog Lo scopriremo solo vivendo il 16 agosto 2004.
L'ultimo post nel blog è stato pubblicato il 3 gennaio 2006. Fortunatamente il blog è ancora accessibile in rete.
L'immagine delle castagne e dei ricci è di Matteo Marchi .
L'immagine sulla destra del post è di un quadro di Thomas Gainsborough: The Blue Boy (c.1770) Huntington Library, San Marino, California.

mercoledì 21 maggio 2008

Angolo per fumatori




Angolo per fumatori

di Bruno Munari
(postato da Giuliano)




Bruno Munari (1907-1998) era un architetto e un designer, e anche uno scrittore molto fine e divertente. Una volta gli chiesero di disegnare un piccolo oggetto, lui lo fece e poi scrisse questa presentazione.

Sulla produzione della cenere da tabacco e suoi contenitori.
La produzione della cenere da tabacco cominciò dopo il 1560, in seguito all'omaggio di semi di pianta del tabacco che l'ambasciatore francese Nicot fece alla sua graziosa regina Caterina de' Medici.
Da allora, e specialmente nella nostra epoca, moltissime persone si dedicano volontariamente alla produzione di cenere da tabacco.
Le industrie, e in certi casi anche lo Stato, forniscono corti tubetti di carta pieni di foglie secche triturate, oppure foglie di tabacco arrotolate o anche foglie secche triturate sciolte, aromatizzate e trattate in vari modi. Tutto per facilitare la produzione di questo tipo di cenere.
Non si sa ancora bene a che cosa serva tutta questa cenere, tanto è vero che la si conserva in appositi recipienti detti posacenere, ma solo per poco tempo, poi la si butta via, senza aver trovato cosa farne.



A scopo di studio, ma in un modo alquanto automatico, vengono fatti vari tentativi: c'è chi si lascia cadere la cenere addosso e poi se la strofina contro il vestito; chi la fa cadere apposta sui tappeti; chi la adagia delicatamente sopra piattini di porcellana, chi la sbatte nelle tazzine vuote del caffè. Alcuni ricercatori, ormai ridotti in miseria, se la mettono in tasca assieme al mozzicone della sigaretta.
La cenere da tabacco, da sola, su di un bel piattino di maiolica gialla, può anche essere bella da vedere, ma quello che rende sgradevole l'insieme è l'aggiunta inevitabile del mozzicone della sigaretta. Il tutto assume allora l'aspetto di una piccola pattumiera che non sta certo bene sopra una tavola da pranzo o su di un tavolo ordinato. Qualche persona sensibile cerca di migliorarne l'aspetto aggiungendo alcuni fiammiferi rossi bruciacchiati, ma anche cosí l'aspetto non migliora.
Occorrerebbe una specie di scatola, con una fessura nella quale introdurre la cenere e il resto, che occultasse il tutto. Una scatola cubica, per esempio, in resina melamminica con interno estraibile in alluminio anodizzato.
Un portacenere come questo, anzi questo stesso.
( Design, 1957) (da "Codice ovvio" , ed. Einaudi)




Attenzione, vi voglio descrivere un innocente svago che si prendono gli uomini: prendete un tubetto di carta pieno di foglie secche, tagliate in minutissimi pezzettini, e tenetelo provvisoriamente fermo, da uno dei due capi, con una leggera pressione delle labbra. Strofinate una asticciola di legno (colorato in rosso, magari) preventivamente intinta (in parte) in una miscela fosforica, contro una minuta carta vetrata. L'asticciola si infiamma e voi appoggiate la fiamma all’altra estremità del tubetto di carta pieno di foglie secche, che tenete ancora fermo con le labbra. Niente paura.

Ora, seguitemi bene, dovrete aspirare una certa quantità di aria in modo che passi attraverso il tubetto, e che comunichi il fuoco alle foglie secche. Appena queste si saranno accese, siate calmi, continuate a far passare l'aria attraverso il tubetto, e il fumo delle foglie secche vi entrerà in bocca! Un altro piccolo sforzo ed entrerà nei polmoni! Quale emozione! Quale inebriante trattenimento! (dico seriamente, credetemi). S'intende che il fumo di queste foglie dovrà essere almeno un po' nocivo.
Guardate in tasca a vostro zio, anche lui avrà una scatoletta di tubetti di carta pieni di foglie secche Tutti li hanno. Ci sono delle piantagioni apposta e ogni tanto un incaricato va a contare quante foglie ci sono in un campo. Forse battendosi ritmicamente in testa una sbarretta di piombo dipinta di bianco si hanno emozioni simili, ma ormai l'usanza vuole che si adoperi il fumo di certe foglie secche.
(Agitatori di coda per cani pigri, da “Le macchine”, 1942) (dal volume “Codice ovvio”, ed. Einaudi 1971, pag.16)


Le fotografie di Bruno Munari sono tratte da “Codice Ovvio”, ed. Einaudi.
Le illustrazioni di Valeria Petrone vengono da vecchi numeri del “Corriere della Sera” (anni ’90).
La spazzola di Roland Topor viene non so più nemmeno io da dove, molto probabilmente da un vecchio numero di Linus (quello vero, anni ’60-‘70).




lunedì 19 maggio 2008

Farfalla senza dimora


Dosso Dossi: Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù (1515-18)
Kunsthistorisches Museum, Vienna


Farfalla senza dimora
(Confessioni di un poeta finto -7)

di Solimano


Ed ecco la prima poesia del mio periodo “Eh… eh!”:

A testa alta
Con occhi commossi
È’ ammesso piangere
Lacrime gioiose:
Ma se ti avessi visto,
Avrei sentito il pianto
Come una colpa.

Il mare colore di viola,
Il tepore della pietra
Sulla palma nuda del piede,
Il sudore che sgorga
E che in un attimo
Si asciuga.

La vita conduce il suo gioco
Con noi,
Carte inconsapevoli
E felici.

Ragazza dalle labbra rosse,
Sono ridenti e furbi
Gli occhi della tua bellezza
Da portare svestita.

Farfalla senza dimora,
Fiore di fuoco senza fumo,
Bandiera prepotente e gentile.

Dosso Dossi: La maga Circe (part)

Si vede anzitutto che la festicciuola è molto democratica: possono partecipare tutti, tranne però gli endecasillabi, quei reazionari che condannai a una provvisoria ghigliottina. C’è un vantaggio per il poeta, in tali feste democratiche con versi di ogni misura e quindi a buttafuori assente: a organizzarle non occorre molto tempo, in questo caso bastarono poco più di dieci minuti.
Benché si parli di lacrime -etichettate però come colpa- la festicciuola è molto allegra, specie perché organizzata a favore non della Croce Rossa, ma di una ragazza dalle labbra rosse, di suo naturale e di un buon rossetto che era sì piacevole a toglierglielo, non dico come.
Piccole furberiole qua e là, tipo il colore viola del mare, che non so quanti daltonici poeti l’hanno visto così; ci vorrebbero pure le cartoline: il mare del poeta tale, del poeta talaltro e via andare. Tutti mari viola, tranne l’Adriatico, che verde è come i pascoli dei monti, come disse il distinto autore D’Annunzio (1863-1938), quello che scriveva poesie con accanto il dizionario dei sinonimi, furberia massima, io sono stato rovinato dal non possedere un siffatto utensile, chissà se ce l’avevo, il Nobel no, ma il Gabbiano Azzurro di Igea Marina l’avrei conseguito.
Coglioneria nessuna, permane qualche genericità, però si sente che anche alla parola più generica corrisponde una specifica persona, dessa ragazza dalle labbra rosse, difficilmente confondibile con altre. L’audacia della bellezza da portare svestita la scrissi non per turbare orecchie virginee, ma perché era così, le mancava solo la sponsorizzazione della Pro Loco.
Ho così chiarito perché codesto periodo si chiama “Eh… eh!”, per chi non ci fosse arrivato, dico che ci sono sentimenti di una incredibile verità sebbene di superficie. Che si fa, in tal caso? Se ne gode e basta, magari lo si dice anche con parole che ti arrivano da sole, come qui ho fatto.
Non credo che al mercato de’ poeti, gente non di rado occhialuta e forforosa, tal poesia meriterebbe uno dei primi posti, ma durante un intervallo, un break fra una conferenza e l’altra -fondamentali e noiosissime- questa poesia si potrebbe sorseggiare con un buon caffè. Non caffè amaro, ma zuccherato, perché così era la persona, soggetto - non oggetto - di sì allegra brama. Ancora una cosa: qui il gioco è minuscolo, non maiuscolo come altrove.
La minuscolaggine aiutò l’inconsapevolezza felice.

Dosso Dossi: La maga Circe (c.1520) Galleria Borghese, Roma

Dosso Dossi: Circe e i suoi amanti (1514-16)
National Gallery of Art, Washington

sabato 17 maggio 2008

FAVOLE ANIMATE




FAVOLE ANIMATE

di Barbara Cerquetti
(Woodstock74)




Lilli e Franti, da un paio di anni a quella parte, avevano dato il via ad una simpatica iniziativa: ogni domenica pomeriggio mettevano in scena una favola animata dentro la loro libreria.
Il loro negozio aveva una sezione molto grande dedicata ai libri per l’infanzia, un po’ perché era un settore che tirava, un po’ perché erano convinti che i lettori bisogna formarli fin da piccoli e un po’ perché Lilli non era stata più la stessa dopo che aveva visto il film “C’è posta per te” .
Certo non era ancora arrivata al punto di mettersi in testa un cappello da fata (anche se in cuor suo ogni tanto ci faceva un pensierino), ma ci era andata vicino quando ad Halloween si era travestita da strega pasticciona, oltretutto divertendosi un mondo. In ogni caso, dopo aver visto quel film aveva deciso di portare quella filosofia nel loro paesino per poter affezionare alla lettura tutti i piccoli che ne avessero avuto voglia.


E poi si può dire che Lilli era la persona più esperta di letteratura per l’infanzia di tutta la provincia di Macerata, quindi non c’era nessuno più adatto di lei per fare una cosa del genere.
Era una grande appassionata, ne conosceva tantissimi, ne leggeva in continuazione di nuovi, si divertiva da matti ed era sempre aggiornata sulle ultime uscite.
Spesso Franti se ne stava tranquillo a badare ai fatti suoi in cassa (questo vuol dire che stava su internet per reperire qualche libro fuori catalogo dal ’63 oppure stava su internet a rispondere a qualche e-mail di clienti che volevano un libro fuori catalogo dal ’62-che l’edizione del ’63 non era la stessa cosa- oppure stava su internet a giocare a Travian) e tutto ad un tratto dai meandri più reconditi del negozio si sentiva un clamoroso AHAHAH che lo faceva sobbalzare fino al soffitto.


Andava a controllare e puntualmente scopriva Lilli, acquattata su uno sgabellino del reparto bimbi, china sulla sua ultima scoperta.
-Ma lo hai visto questo?- gli chiedeva ogni volta, con le lacrime agli occhi e poi, senza aspettare la risposta, gli leggeva qualche brano di storie in cui i ceffi dai nomi più strampalati venivano sconfitti da orfanelle buone, giganti gentili e regine d’Inghilterra. Insomma storie così, su questo tono.

L’ultima volta aveva preso “Sei un mostro mister Gum” e nel leggerlo aveva riso così tanto che le era venuto un mezzo attacco d’asma.

La ragazza aveva poi coinvolto nel progetto la sua amica Delfina, detta Delfi, che essendo di Loreto potremmo definire come la persona più esperta di letteratura per l’infanzia di tutta la provincia di Ancona.
Il titolo regionale se lo contendevano.


Ora occorre aprire una parentesi.
Nella famiglia di Lilli tutte le donne avevano un nome di fiore: Liliana detta Lilli, Margherita detta Emma, la mamma Edelweiss, la nonna Rosa.
Nella famiglia di Delfi invece imperversavano i nomi di animali: Delfina, sua sorella Vanessa, la mamma Leona, la nonna Gazzella (doveva essere Graziella, ma l’impiegato dell’anagrafe quel dì scordò gli occhiali a casa) e addirittura nonno Lupo.

Visto i rispettivi alberi genealogici Franti aveva ribattezzato la loro società “Serra & Serraglio”.

Quindi ogni domenica la “Serra & Serraglio”, cioè Lilli e Delfi, mettevano in scena una favola animata: Delfi, che aveva studiato un po’ di dizione e improvvisazione teatrale, leggeva alcuni brani del libro di turno poi Lilli, più portata per le cose manuali, faceva fare un lavoretto con forbicine e colla. Alla fine, come ogni tradizione italiana che si rispetti, tutto finiva a tarallucci e vino anzi, vista l’età dei partecipanti, a pizza e succo di frutta.


Di solito il giorno prima tra Lilli e Franti avveniva il seguente siparietto.
- Amore, hai mandato la newsletter per avvisare che domani c’è la favola animata?
-Ma a che serve?- chiedeva Franti. –Tanto ormai lo sanno tutti.
-Lo so ma è sempre meglio che glielo ricordiamo- insisteva Lilli.
-Sono due anni che la facciamo tutte le sacrosante domeniche.
-Dai su – incitava lei.
-E va bene. Che ci scrivo?
Lilli ci pensava un attimo, poi diceva:
-Dunque, mettila così: “Avvisiamo la gentile clientela che domani, domenica 13 Aprile, come di consueto alle 17.30 ci sarà l’appuntamento con la FAVOLA ANIMATA. -“favola animata” scrivilo maiuscolo, mi raccomando, così spicca- Stavolta leggeremo “Clorofilla dal cielo blu” di Bianca Pitzorno, una dolcissima storia a sfondo ecologico e poi,come sempre, seguiranno attività, giochi e l’immancabile merenda. Accorrete numerosi, vi aspettiamo”. Hai capito bene, Franti?

-Sì, tutto chiaro.

Questa era l’email che i clienti ricevevano di solito:
“ Domani c’è la FAVOLA ANIMATA. Non mancate”.
"Favola animata" era rigorosamente in maiuscolo, così spiccava.

Da Lavoretti

giovedì 15 maggio 2008

Tempo




TEMPO

di Roby




Luca Barbareschi, fresco deputato PdL in Parlamento, in una recente intervista su La7 raccontava, con la scioltezza che lo contraddistingue -in palcoscenico come a Montecitorio- la sua giornata-tipo, dalle 6 di mattina alle 10 di sera. Lo schema era più o meno questo:


  • ore 6-7.30: il nostro, dopo le consuete abluzioni mattutine, si dedica ad occupazioni di genere salutistico, come jogging, footing, stretching ed altra roba che finisce con -ing

  • dalle 7.30 per circa 3 (tre) ore il nostro ha tempo a disposizione per leggere, telefonare, relazionarsi col suo prossimo, rilassarsi, passeggiare, fare shopping ecc.

  • 3 (tre) ore dopo le 7.30, ossia (presumo) intorno alle 10,30, il nostro inizia la sua giornata lavorativa (sic), all'interno (ritengo) del Parlamento o nei suoi dintorni

  • ore 18: memore di ciò che diceva (cito a memoria) Churchill, il nostro conclude improrogabilmente il suo orario lavorativo

  • ore 18-18.30: cena ("perchè mi piace mangiare presto")

  • ore 18.30-22: tempo a disposizione per distrazioni e piaceri di qualsiasi tipo, dall'attività sessuale (sic) allo stare con i figli, dal cinema al teatro al ritrovarsi con gli amici.

  • ore 22-6: 8 (otto) ore di buon sonno ristoratore



  • Barbareschi, esponendo quanto sopra, aveva quell'arietta fra l'ironico e il didattico che spesso gli è propria, ragion per cui non si capiva bene se intendeva prendere amabilmente in giro l'uditorio virtuale o ammaestrarlo su come impiegare al meglio il proprio tempo.

    Ora, io sono quasi sicura che molti, per non dire tutti, fra voi suddivideranno le 24 ore a disposizione in modo pressochè simile a quello di Luca, ricavandone indubbi vantaggi di carattere psico-fisico. Volete mettere, avere 3 (tre) ore a disposizione fra le 7.30 e le 10.30 per leggersi e rileggersi la pagina culturale di una mezza dozzina di quotidiani, o per scegliere e ordinare il tipo e la quantità di fiori da inviare alla propria moglie, o amante, o figlia, o mamma, o nonna o zia nel fausto giorno del loro compleanno, onomastico, festa nazionale o simili?
    Oppure consumare, poco dopo le 18, una cenetta leggera ma sostanziosa accuratamente preparata, con competenza e fantasia, dal domestico (filippino, cingalese, italiano o sanmarinese che sia) che ormai quasi tutti hanno a casa?

    Ebbene, il presente post è la confessione, lucida e consapevole, da parte della soprascritta, circa la sua assoluta incapacità -vuoi per personale inadeguatezza, vuoi per infelici circostanze di forza maggiore- di organizzare il tempo in modo così funzionale ed illuminato; ed è altresì la richiesta accorata di aiuto rivolta (a Barbareschi e a voi tutti) affinchè le venga offerto soccorso nella ricerca del giusto metodo per raggiungere migliori risultati in proposito.




    A tale scopo, ecco qui di seguito il riassunto di quella che è la giornata-tipo di Roby, redatto in modo da non risultare troppo impressionante per le persone particolarmente sensibili:


  • ore 6.20.00: suona la sveglia, circa 70 minuti prima dell'orario di partenza dell'ultimo autobus utile per non arrivare in ritardo in ufficio


  • ore 6.20.05: Roby spegne la sveglia, borbotta qualcosa d'incomprensibile e si gira dall'altra parte


  • ore 6.45: il consorte di Roby le dà un pizzicotto neppure troppo cortese e, avviandosi verso la stanza da bagno, le ricorda: "Se non ti alzi subito, fai tardi!"


  • ore 6.50: il consorte di Roby (più veloce di Speedy Gonzales) rientrando dalla stanza da bagno e reiterando il pizzicotto le ripete: "Se non ti alzi subito..."


  • ore 6.51: Roby emerge dalle lenzuola disfatte, lamentandosi come una martire del suo triste destino


  • ore 6.51.15: Roby entra nella stanza da bagno... anzi no, perchè essa è attualmente occupata dalla figlia, studentessa quasi maturanda, impegnata a lisciarsi i capelli con la piastra elettrica e contemporaneamente a depilarsi le sopracciglia, in un insieme plastico davvero ben riuscito


  • (omissis)


  • ore 7.35: Roby riesce ad agguantare al volo l'autobus che la scaricherà nel centro storico giusto quando le campane del Duomo suoneranno le 8 (ora in cui Roby stessa dovrebbe fare il suo ingresso in ufficio)


  • ore 8.07: Roby, senza fiato, scarmigliata, con la giacca abbottonata male ed un solo orecchino (oddio, dove sarà finito l'altro?) entra nel luogo di lavoro, sotto lo sguardo fulminante del suo capo





  • ore 8.08-13.58: normale orario lavorativo, serenamente trascorso fra le consuete inca**ature tra colleghi, le annose beghe con i superiori, le inenarrabili lamentele degli utenti, le proditorie sparizioni di documenti vitali e gli improvvisi ritrovamenti di altri -ritenuti irreparabilmente perduti- ormai inutili perchè già rifatti da tempo


  • ore 13.59: proprio mentre Roby sta per avviarsi all'uscita (nel frattempo -accidenti!- è scomparso anche l'orecchino superstite) dalla stanza del capo giunge il temuto richiamo: "Senti un po', ma com'è che non riesco a visualizzare il report dell'ultima ricerca che ti avevo detto di fare? L'hai cancellato per errore? L'hai spostato in un'altra cartella? VIENI UN ATTIMO QUI, PER FAVORE!!!"


  • ore 14.35 (quando va bene): Roby, il cui aspetto ha ormai ben poco di umano, guadagna a fatica la porta e si appresta al percorso di guerra che -nel traffico cittadino di punta- la ricondurrà a casa a pomeriggio ormai inoltrato


  • (omissis -che comprende fra l'altro un paio di attività secondarie come mangiare, bere e fare uso dei servizi igienici)


  • ore 16.45: Roby intenderebbe dedicarsi ad occupazioni domestiche, nelle quali per altro non eccelle, quali stiratura, lavatura, allestimento di pasti, ecc., ma ne viene dissuasa dalla figlia, che dichiara perentoria: "Fra 5 minuti vengono qui la Vale, la Yle, la Giusy e la Jenny: NON VORRAI METTERTI A FAR LE FACCENDE ORA, VERO? Ci serve il tavolo del tinello per studiare, e il computer in camera per le ricerche, e i fornelli per farci il thè..."




  • ore 16.50-19.30: Roby trascorre il tempo in parte confinata nella camera da letto matrimoniale che costituisce la quarta stanza (dopo bagno, cucina-tinello e cameretta) della sua vasta dimora, in parte nel centro commerciale più vicino per "fare un po' di spesa"... col risultato di tornare carica di cose inutili se non addirittura dannose, come ciambelle ripiene al cioccolato, wafer con doppia farcitura, patatine aromatizzate alla paprika e così via. Neppure l'ombra, ahimè, del sapone intimo che manca in bagno da almeno tre giorni, nè del pane a lievitazione naturale che tanto piace al suo consorte!


  • (omissis: inopportuno, infatti, descrivere la preparazione della cena, non sapendo esattamente quanto ciascuno di voi sia forte di stomaco; nè tantomeno riportare le operazioni di sparecchiatura e di inserimento dei piatti in lavastoviglie, fonti di ripetuto turpiloquio da parte della scrivente)


  • ore 21.40-23.55: visione dei programmi tv, o meglio di quelli concessi una volta accondisceso ai desideri televisivi di consorte e figlia (pur dotata di televisore in camera); in alternativa, lettura di un tranquillo libro giallo di Agatha Christie o di Georges Simenon - certo assai meno emozionante della giornata che sta volgendo al termine- o navigazione in internet, bordesan bordesando fra l'uno e l'altro dei porti preferiti


  • ore 23.55.05: Roby entra in bagno per le consuete operazioni di toilette serale, indispensabili ad evitare che il suo aspetto ricordi molto da vicino quello di Rita Levi Montalcini senza trucco


  • ore 00.38.15: Roby s'infila, finalmente, tra le coltri, a fianco del legittimo coniuge... e lì si addormenta beata, in attesa che -alle 6.20 del mattino dopo- la sveglia torni a suonare, invitandola ad iniziare una nuova, radiosa, proficua, rilassante giornata-tipo di impegno sul lavoro e di svago in famiglia.


  • L'antica meridiana di Calafuria


    martedì 13 maggio 2008

    Un anno dopo...

    Habanera

    Giuseppe Arcimboldo: Primavera, 1573
    Real Academia de San Fernando, Madrid


    Oggi, 13 maggio, il Nonblog compie un anno.
    Data storica, evento eccezionale! Occorre parlarne al Capo dello Stato, pretendere che il fausto giorno venga considerato Festa Nazionale, organizzare tre giorni di festeggiamenti, imbandierare i palazzi, illuminare tutti i monumenti...
    No, eh? Dite che forse è un po' eccessivo? Vabbe', mi sono lasciata prendere la mano.

    Quattro giorni dopo avere iniziato, scrivevo

    Pausa di riflessione (17 maggio 2007)

    H. Se qualcuno si avventurasse da queste parti...

    ?. Ma chi vuoi che si avventuri? lo sanno solo in tre gatti (tre di numero!) che esiste questo blog, più un baotzebao che misteriosamente lo ha scoperto per conto suo.

    H. Tre gatti e un baotzebao mica sono da buttar via; e poi io ho un sacco di amici in rete, cosa credi? Basterebbe andare un po' in giro a dire: c'è una novità, ho aperto un blog, anzi un Nonblog.

    ?. Ma quale novità, fammi il piacere. Tutti i tuoi amici a loro volta hanno un blog, un sito, un qualcosa, mica hanno tempo da perdere con la tua novità.

    H. Sì, però il contatore delle visite sale, di poco ma sale, ed anche la visualizzazione del profilo. Vorrà pure dire qualcosa, o no?

    ?. Come no. Vuole dire che tu, provando e riprovando per riparare gli errori, non fai che uscire e rientrare. Per forza il contatore sale.
    Ad esempio, quante volte hai postato e ripostato il brano preso da Golem, di Primo Casalini, prima di riuscire a capire perchè ti veniva fuori tutto sottolineato?

    Giuseppe Arcimboldo: Estate, 1573
    Museo del Louvre, Parigi

    H. Non farmici pensare. Ci ho messo un bel po' a capirlo ma la colpa non era mica mia. E' colpa dell' Autore che nel suo post originale, "Perle nel pagliaio", aveva sottolineato un riferimento alla Web Gallery of Art e per misteriose ragioni, ricopiandolo, mi veniva tutto sottolineato.

    ?. Sì, certo, è colpa dell' autore. Come si è permesso, nel suo brano, di sottolineare qualcosa? Speriamo che non ti legga altrimenti si rotolerebbe dalle risate.

    H.
    Non sei molto incoraggiante, sai? Quasi quasi, se sto a sentire te, mollo tutto e mi ritiro a vita privata.

    ?. Ma dai, non fare così! Come sei permalosa. E poi, non vorrei dirtelo, ma a vita privata ci sei già, anche adesso. Ricordi i tre gatti più il baotzebao? Più vita privata di così...

    H. Allora posso andare avanti tranquilla, prendermi tutto il tempo che voglio. Tanto non mi legge nessuno, quasi nessuno... e i tre gatti (più uno) ormai sono diventati amici di famiglia. Ci sono ancora molte cose che vorrei imparare prima di chiudere bottega.
    Gatti, abbiate pazienza...


    Giuseppe Arcimboldo: Autunno, 1573
    Museo del Louvre, Parigi


    Due settimane dopo

    Vita da blogger (30 maggio 2007)

    L' infallibile (?) contatore di ShinyStat mi comunica che i miei tre (+ uno) gatti iniziali stanno mettendo su famiglia.
    In due settimane di vita il piccolo Nonblog ha raggiunto la ragguardevole media di nove (dico nove!) visite al giorno.
    Un successo che va ben oltre le mie più rosee ed ottimistiche previsioni.
    Gonfia di orgoglio, e di intima soddisfazione, mi chiedo: ma davvero c'è qualcuno che ogni giorno passa di qui e mi legge? [...]


    Ne è passata di acqua sotto i ponti da quei primi divertentissimi giorni e molte cose sono cambiate.
    Intanto l'infallibile (?) contatore di ShinyStat mi segnala cifre molto molto diverse rispetto a quelle iniziali (vorrei anche vedere!) e poi questo blog, nato quasi per gioco, si è arricchito via via di splendidi collaboratori:
    Solimano (alias Primo Casalini) Roby (alias RobyBa), Nicola (alias Mazapegul), Giuliano (alias Emilio Gauna).
    Li ho elencati in ordine di adesione perchè è così che è andata la nostra storia.
    Ed oggi questa bella squadra, la stessa che avete modo di apprezzare su Abbracci e pop corn, festeggia con Habanera il primo compleanno del Nonblog.

    Grazie, amici carissimi. Ad maiora!


    Giuseppe Arcimboldo: Inverno, 1573
    Museo del Louvre, Parigi


    domenica 11 maggio 2008

    Tronco oscuro contorto


    Silvestro Lega: Il pergolato (1868) Pinacoteca di Brera, Milano


    Tronco oscuro contorto
    (Confessioni di un poeta finto - 6 )

    di Solimano


    Ed ecco la seconda poesia del mio periodo “Piccolo grande amore”:

    Quartetto

    Lievi passi sulla terra gelata,
    Sofferte onde serene.
    Alle oasi si giunge dal deserto,
    Poi, senza cercare, gli occhi e le voci,
    Sereni e turbati.
    E’ bello accorgersi di giorno in giorno
    Di come sei, se lo vuoi,
    Come sentieri che si allontanano

    Per accostarsi ancora.

    Amore, parola che mente sempre.
    Vorrei vederti con i lacrimoni
    Ascoltare una storia lontana.
    Fai passi piccoli
    Nella tua notte rosa-azzurra:
    Cammini sui miei sogni.
    Il Gioco sa scegliersi i giocatori.

    L’allodola corre dietro la coda,
    La civetta si ferma ad uno specchio,
    I passeri di fronte alle briciole;
    Le persone lontane vedono
    Forme meravigliose
    Contente come per un dono.

    Grande pianta di vite,
    Tronco oscuro contorto,
    Origine di un alto pergolato.
    Il tronco è nudo, fragile è la frasca.
    La strada per arrivare al vero
    Dal mio paese esule.
    Le radici sottili
    Che nutrono solo un po’.
    Le foglie torneranno
    Luce di primavera.

    Come si vede, la poesia ha un titolo: Quartetto. In quel periodo andavo di frequente a concerti di musica da camera, e prediligevo i quartetti d’archi, se poi sonavano gli ultimi tre quartetti di Schubert ne ero ammaliato. A ciò si aggiunga che leggevo le poesie di T.S.Eliot, e cercavo di capire qualcosa nei suoi criptici Quattro Quartetti, a tutt’oggi non ci sono ancora riuscito, mentre de La Terra Desolata, dello stesso autore, ho un notevole ricordo. E quindi nomai la poesia “Quartetto” e la feci di strofe quattro, com’è giusto.
    Il verso “sofferte onde serene” è letterale plagio di uno spettacolo musicale di cui vidi i manifesti per strada, mi piacque e me lo presi. Male non ci sta.
    Prevalgono nettamente endecasillabi e settenari, come mio solito attraverso tutti i periodi, ma qualche visita di altri versi c’è, persino qualche decasillabo, non martellante come quelli del Manzoni (1785-1873), altro distinto autore.


    La genericità di cui soffrono alcuni versi è il solito portato della “Dolcezza cogliona” di cui già trattai. Ogni tanto parlo con una persona, e dal mio tono e da come la vedo, intuite che non si tratta della Lucinda che ispirò il mio periodo “Trovatore, però”. E non viveva in una città “di pietre aspra e di torri”, credo che lo si noti. Il mio paese non era per niente esule, mi andava solo di foscoleggiare, però con levità.
    Scrivo inoltre Gioco maiuscolo, così costumava anche per il Tempo, la Storia etc. Trattatavasi di una pomposità ideologica di allora, ma di queste maiuscole non c’è da prender spavento, per fortuna. Niente di epico quindi, né di drammatico, lirico forse, con grazia e goffaggine abbinate, che scinderle è difficile. Un piccolo grande amore, lo dicono le parole stesse.
    Una critica piuttosto severa mi sento di fare, al mio poetare di quel periodo: potremmo, per giuoco (minuscolo), mischiare i versi l’uno con l’altro, ne uscirebbe sempre qualcosa di analogo, cioè un movimento non rivolto a un esito. Salvo in quattro versi di un’altra poesia, che non riporto. Eccoli, ‘sti magnifici quattro:

    La tua forma di donna mi rapina,
    sono fiori ed attimi
    di vita impolverata
    ieri sorpresa da gioia carnale.

    Giunse poi il periodo “Eh… eh!” proprio così, eh… eh! Che c’è di strano? Potrò denominare i periodi come mi aggrada, o debbo chiedere una qualche autorizzazione? Mi pare che no.