giovedì 28 febbraio 2008

Ditelo con un...?




Ditelo con un...?

di Roby


Qualche mese fa, su queste "pagine" virtuali, Solimano aveva pubblicato un incantevole pezzo sulle frasi contenute negli incarti dei Baci perugina: brano piacevolissimo, che consiglio vivamente a chiunque se lo fosse perso.
I bigliettini dei Baci, per me come -credo- per molti, sono ancor oggi una gradevole lettura, da compiersi mentre si assapora con estatica golosità il godurioso cioccolato alla nocciola.
Ebbene, pensavate forse che la stagnola dei cioccolatini fosse l'unico imballaggio atto a contenere massime auree ed alati messaggi?
Così era, probabilmente, fino a poco tempo addietro: ma ora la Lines, grande multinazionale all'avanguardia anche nel settore marketing, si è ufficialmente inserita in questa fetta di mercato.
Ho il piacere di annunciare a chi ne è ancora all'oscuro, per vari motivi (appartenenza al sesso maschile o -se donna- età anagrafica over 50, unita alla mancanza di figlie/amiche/conoscenti consumatrici del prodotto in oggetto), che sulla plastica in cui sono avvolti gli assorbenti igienici compaiono attualmente frasi di grande impatto e di notevole spessore, nonchè di indubbia utilità.
Qualche esempio? Eccovi serviti, con l'aggiunta del mio personale commento.
Meditate, gente, meditate...

In Francia i giorni del ciclo vengono chiamati "le moment de la lune".
Questa sì che è cultura! Ma... in Inghilterra? E in Germania? E in Croazia?

La frutta secca può regalarti un naturale effetto relax.
...oltre a tanti chiletti in più, ovviamente!

Il termine "lunatica" riferito alla donna deriva dalle credenze che ritengono la vita della donna influenzata dalla luna.
E questo chi l'ha detto? Uno sporco maschilista?

E' buona abitudine intensificare le normali pratiche igieniche durante il periodo mestruale.
Ma va'? Chi l'avrebbe mai immaginato?

Lo sai che durante il ciclo mestruale puoi fare tranqullamente il bagno in mare?
Vallo a dire alla mia povera mamma, che "in quei giorni" impediva a me e a mia sorella persino di lavarsi i capelli!!!!!

Lo sai che durante il ciclo mestruale è consigliabile indossare indumenti comodi e traspiranti?
Negli altri giorni, invece, puoi tranquillamente continuare a vestirti di nylon, poliammide, poliuretano espanso e vinile, il tutto -beninteso- di almeno una taglia inferiore alla tua.


Lo sai che esistono piante come l'agnocasto e il tanaceto partenio, con effetto benefico sui disturbi del ciclo e della sindrome premestruale?
No, non lo sapevo: certo, agno-cappero e tana-comesichiama sono di facilissimo reperimento, in qualsiasi supermercato o negozietto sotto casa. Chissà, forse crescono pure nel giardinetto di mia zia, senza che io l'abbia mai neppure sospettato...

Lo sai che è un bisogno molto comune desiderare un dolcetto nel periodo mestruale?
Ecco!!! E' questo l'anello mancante, il trait d'union fra Lines e Perugina!
Ti trovi nel "periodo critico"? Ti senti un po' giù? E allora che aspetti? Corri a divorarti una scatola di Baci! Così, tra biglietti dei cioccolatini e involucri degli assorbenti, sei sicura di avere da leggere almeno per mezza giornata.





mercoledì 27 febbraio 2008

Piccolo promemoria...





29 (Piccolo promemoria di una smemorata)

di Colfavoredellenebbie




Il 29 incombe con la sua malferma temporalità.

Ricordate l’appuntamento sul blog che non c’è?

Lasciate che le storie di quotidiana o eccezionale inesistenza vadano ad incontrarsi e a conoscersi.

E’ buona cosa scriverle, prima, e magari entro giovedì, … per poi mandarle colà dove si puote ciò che si vuole, a questo indirizzo ilblogchenonce@gmail.com

Il 29, solo per quel giorno, si potranno leggere, e poi basta.

Dunque….


Su Pesci di nebbia

martedì 26 febbraio 2008

Quinto potere nel medioevo




Quinto potere nel medioevo
(le opinioni prima dei fatti)

di Maria Teresa Fumagalli




Secoli prima della stampa (e naturalmente della radio, della televisione, di internet) il quinto potere , quello della comunicazione esisteva già (Briggs e Burke) e si presentava con alcune caratteristiche per noi moderni interessanti. Va detto subito che sulla informazione dei fatti prevaleva l’interesse a formare una opinione e a creare consenso. Esercitato dai predicatori domenicani e francescani prevalentemente sulla piazza davanti alla cattedrale, era un potere fatto di parole non scritte ma dette e recitate con arte sottile, solo apparentemente effimero, fortemente organizzato, sapiente e attento alle regole della persuasione.

Era la Chiesa di Roma a detenerlo in modo prevalente ed efficace: suoi erano gli esperti della cultura e della comunicazione, studiata anche sugli autori antichi di retorica. I signori delle città e i sovrani se ne avvalevano in forma mediata, quando gli scopi della politica laica e ecclesiastica coincidevano (accadeva più frequentemente di quanto non si creda). In caso contrario i politici laici cercavano di ostacolare il potere dei predicatori impedendo loro di parlare, ma molte volte erano loro a dover battere in ritirata.
La vittoria nella contesa non era in quel tempo decisa a priori perché entrambi i poteri erano il più delle volte sufficientemente bilanciati e l’alleanza fra autorità cittadine e ecclesiastiche si reggeva bene.

Non sto parlando di prediche edificanti di argomento religioso, di sermoni che indicavano ai fedeli la via della salvezza eterna o miravano a irrobustire la fede, ma di quei discorsi sempre tenuti dai religiosi ma mirati a disegnare un modello di comportamento collettivo per i cittadini e i sudditi, entrando direttamente nella vita politica della comunità, cercando di formare opinioni su temi civili o creare consensi su un programma economico (Muzzarelli).



Firenze 1493: i Medici, da sempre favorevoli e anche personalmente amici degli usurai ebrei, tentano di impedire la predicazione di Bernardino da Feltre che “haveva meravigliosa forza nel suo dire”. Il francescano in quegli anni girava con successo le piazze d’Italia per convincere i il popolo dei Comuni e delle Signorie della utilità di un istituto cittadino nuovo, il Monte di Pietà , destinato a far concorrenza all’attività degli ebrei con più favorevoli tassi di interesse. Di fronte al chiassoso malumore del popolo privato di uno spettacolo appassionante e tanto atteso, Piero de’ Medici capitola, preferisce correre il rischio di dispiacere agli amici ebrei e richiama il predicatore.

A Ferrara le autorità della città, per organizzare una strategia in sostegno alle leggi suntuarie, chiedono l’aiuto di Giovanni da Capestrano altra celebrità della comunicazione.
La politica della città e l’interesse spirituale della chiesa su quel tema andavano completamente d’accordo. Il predicatore condannava come peccato la vanità delle frivole donne ferraresi, mentre le autorità cittadine erano seriamente preoccupate da un altro aspetto del fenomeno, il dispendio e la erosione dei patrimoni familiari dilapidati in una gara rovinosa per segnalare con vesti lussuose e gioielli la posizione sociale delle singole famiglie. La vanità non solo sottraeva ricchezza ai patrimoni famigliari causando fallimenti, ma soprattutto disperdeva l’energia indispensabile agli investimenti collettivi per le imprese economiche: non solo i privati ma anche la città ne veniva seriamente danneggiata.

Da una parte e dall’altra dunque si condannavano e ridicolizzavano i “traini delle donne”, ossia gli strascichi lunghissimi dei mantelli che spazzavano le piazze cittadine durante lo “struscio”, i gioielli vistosi (ma non il classico filo di perle), l’uso di stoffe damascate e intessute d’oro , i velluti costosi, l’esibizione di stravaganti ornamenti di piume esotiche, le maniche troppo gonfie, lo spreco di porpora.



Una predica memorabile di Bernardino da Siena è dedicata a esaminare i caratteri della predicazione in se stessa e la sua utilità per il bonum commune della città: per esser efficace - dice Bernardino - deve tener presenti tre elementi, il dicitore, il tema e l’ uditore. Il discorso ( in lingua volgare ) deve essere “chiarozzo chiarozzo” per essere compreso da tutti, persino dalle donne “illitteratae” per eccellenza, attento ai gesti come alle parole; le dimostrazioni illuminanti e “gagliarde”, gli esempi coinvolgenti e capaci di risvegliare le menti intorpidite dalla fatica delle ore di attesa al sole o al freddo. Sì, perché d’estate e d’inverno predicatori così appassionanti richiamavano donne e uomini che uscivano anche alle cinque del mattino per occupare un posto (in piedi) sulla piazza, resistendo fino a quattro o cinque ore di predica, alla quale intervenivano talvolta con grida di entusiasmo. Il successo era enorme e fatte le proporzioni ad ascoltare correva un numero di persone paragonabile a quello delle grandi manifestazioni politiche di oggi . E alla fine non c’erano concerti.

“Insino alla predica niuno apra la buttiga
” invitava a volte il bando cittadino. A chi obbiettava che così si perdeva il guadagno il predicatore replicava usando il medesimo linguaggio “economico”: ascoltare la predica comporta un guadagno, la vita eterna si acquista come una merce, dare ai poveri è come “prestare a usura a Dio in quanto rende più di mille per uno” .

Il lessico è dunque quello del mondo degli affari (Todeschini), vengono lodati gli investimenti e condannato il capitale sterile chiuso nei forzieri come nella parabola del Vangelo, si paragona il Cristo a un buon mercante e il predicatore a un sensale, il patrimonio finanziario a quello spirituale, il bene comune della città ben governata alla ricchezza spirituale dei fedeli riuniti nella chiesa.

Parole così concrete e usuali nella vita quotidiana facilitavano la comprensione degli ascoltatori e facevano “ più ampia la mente”. Va detto che per attirare le donne i predicatori inserivano nel discorso altri esempi più casalinghi, come quando affermavano che la predica ben fatta era simile a un arrosto cotto al punto giusto.


Tre libri da leggere:

A.Briggs e p. Burke , Storia sociale dei media da Gutenberg a Internet, Mulino 2002

G. Muzzarelli, Pescatori di uomini . Piazze alla fine del Medioevo , Mulino 2005

G.Todeschini , Ricchezza francescana . Dalla povertà volontaria alla società di mercato , Mulino 2004



Su Golem l'Indispensabile

venerdì 22 febbraio 2008

Vorrei...




Vorrei...

di Giulia




[...] stava camminando per strada e dal vento le era caduta proprio sui capelli: l'incidenza delle linee di milioni di foglie trasformata in una che cadeva [...] arrivò a considerarsi modestamente la prescelta delle foglie [...] un giorno una foglia cadendo le aveva sfiorato le ciglia. Pensò allora che Dio era di una gran delicatezza»1.

Clarice Lispector




Oggi dentro di me si fa spazio un desiderio.

Vorrei tornare in un posto vuoto. Vorrei per un po’ di tempo non dovermi relazionare agli altri o fingere di essere quello che non sono. Vorrei trovarmi in un luogo dove ritirarmi, senza che nessuno bussi alla mia porta o entri senza chiedere il permesso.

Vorrei svuotarmi come si svuota un baule pieno di cose vecchie che ti sono care, ma così ammucchiate portano confusione.

Vorrei aprire quel baule, far uscire una cosa alla volta e guardarla per ritrovare il suo significato, per ridonarle memoria.


Vorrei chiudere quel baule, per guardare semplicemente avanti senza che niente mi detti l’agenda dei giorni che verranno.

Vorrei ritrovare il silenzio, quel silenzio che sempre mi ha aiutato a uscire da situazioni difficili o semplicemente a non perdermi.

Vorrei ritrovare il contatto con la natura, coi suoi tempi, col cielo, col sole, coi suoi colori che mutano, che vanno e che tornano.

Vorrei che il tempo passasse senza travolgermi.

Vorrei guardare, ascoltare, lasciare che tutto accada intorno a me.

Vorrei che quando la mia vita finirà non mi trovasse impreparata.


Solitudine
Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte - eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.
(Emily Dickinson)


(martedì, 04 dicembre 2007)




Da Pensare in un'altra luce

mercoledì 20 febbraio 2008

La Cappella Sansevero a Napoli


Antonio Corradini: La Pudicizia (part)


La Cappella Sansevero a Napoli

di Primo Casalini



L'anno da cui partire è il 1590. A Palazzo Sangro succedono due cose. La prima è che nel palazzo avviene un terribile delitto: Gesualdo, principe di Venosa uccide la moglie Maria d'Avalos con l'amante Fabrizio Carafa. Maria era famosa per la bellezza, ed aveva sposato Gesualdo dopo essere rimasta vedova due volte. Gesualdo era anche un geniale madrigalista, oggi paragonato a Claudio Monteverdi ed a Luca Marenzio. Stette lontano da Napoli per diverso tempo, ma non perché temesse la giustizia pubblica; temeva piuttosto la vendetta delle famiglie degli assassinati. La seconda cosa accadde poco dopo: Giovan Francesco di Sangro, ristabilitosi da una malattia quasi mortale, decide di erigere "una picciola cappella" dedicata alla Vergine come adempimento di un voto fatto durante la malattia, ma forse anche come espiazione del fatto di sangue avvenuto nel suo palazzo. Più di centocinquanta anni dopo, Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, inizia grandi lavori di restauro e di ampliamento della Cappella. Raimondo era al tempo stesso Gentiluomo di Camera di Carlo di Borbone, Membro dell'Ordine dei Cavalieri di San Gennaro, Accademico della Crusca e Gran Maestro della Loggia Massonica. Inoltre giravano voci di sue propensioni per l'alchimia e l'esoterismo. Ed entra in scena Antonio Corradini, scultore veneto ultraottantenne, molto apprezzato in Italia e fuori, amico di Raimondo e massone pure lui. Attorno al 1750, nel poco tempo che gli resta, Corradini realizza i modelli in terracotta delle statue e degli apparati, tutto il progetto insomma, d'accordo con Raimondo. E qui c'è una cosa singolare: Raimondo vuole dedicare le prime sculture ai suoi genitori, che per ragioni diverse praticamente non aveva conosciuto. La madre, perchè morta giovanissima, ed il padre perché era partito per lunghi viaggi affidando il bambino ai familiari, ne aveva combinato tante, e si era poi ritirato in un monastero negli ultimi anni.

Così sono nate la Pudicizia, eseguita dal Corradini, ed il Disinganno, eseguito dal genovese Queirolo, su idea del Corradini, come tutto il resto. Il programma iconografico di Raimondo contempla anche la Sincerità, il Decoro e... la Soavità del giogo maritale! La Pudicizia ed il Disinganno sono opere straordinarie; l'una per come è reso nel marmo il velo che svela, l'altra per la rete degli inganni che avvolge il personaggio e da cui un genio alato lo sta liberando. Le due statue sono affiancate da lapidi: una, quella della madre, è volutamente spezzata. Ma la statua in assoluto più esaltata è quella del Cristo disteso e velato, eseguito da uno scultore napoletano: Giuseppe Sanmartino. Raimondo preferiva rivolgersi a scultori estranei a Napoli, e ciò dava fastidio all'ambiente artistico locale, sempre molto geloso: già nel '600 Guido Reni ed il Domenichino dovettero scappare da Napoli per le minacce ricevute per la commissione degli affreschi nella cappella di San Gennaro. Ma in quegli anni, a Palazzo Sangro lavorava anche un medico palermitano: le due Macchine Anatomiche complete di vasi sanguigni e di dettagli di cui tacere è bello, sono conservate in una stanza non lontana: il popolo diceva che erano i corpi di due servitori trucidati da Raimondo. Viene in mente il delitto iniziale, quello del 1590. Dopo il 1766, in cui la Cappella fu aperta ai visitatori, qui capitò il Marchese de Sade, curioso di tutto ciò che avesse in sè qualcosa di diabolico.

Antonio Corradini: La Pudicizia

Torniamo alla Pudicizia ed al Disinganno, che è meglio. E' raro trovare un programma iconografico al tempo stesso così semplice e così acuto, e guardare solo le statue è limitativo: tutto l'apparato scenografico (che è una parola piccola), è da gran teatro del mondo, a partire dalle lapidi sino al commesso dei marmi nei pavimenti, negli altari e nei basamenti. Al di là del valore degli artisti, specie del Corradini, è Raimondo che fa un monumento a sè stesso, devoto di San Gennaro e massone, appassionato di scienza, ma anche di alchimia, illuminista ed oscurantista. Il contratto stipulato col Queirolo è una specie di plagio, in cui l'artista non ha nessun diritto: "a tutto piacimento, genio e gusto d'esso Signor Principe, di non poter lavorare per nessun'altra persona, e collo stretto ligame di non potersi licenziare...". Una schiavitù, praticamente. Va aggiunto, riguardo al Cristo velato, che fin da quando le opere furono esposte per la prima volta si diffuse la dicerìa che l'effetto velo che svela fosse stato ottenuto non con una finissima lavorazione del marmo, ma mediante procedimenti alchemici (in realtà chimici) che avevano marmorizzato della stoffa precedentemente disposta in modo appropriato sulla statua sottostante. Ed in alcuni siti sono riportate le intese fra Raimondo e lo scultore Sanmartino, comprese precise disposizioni tecniche, ritrovate da Clara Miccinelli in un documento dell'Archivio Notarile di Napoli, rogato in data 25 novembre 1752 dal notaro Liborio Scala, e confermate in altri documenti di collezioni private. Riporto qui la ricetta:
"Calcina viva nuova 10 libbre, acqua barilli 4, carbone di frassino. Covri la grata della fornace co' carboni accesi a fiamma di brace; con ausilio di mantici a basso vento. Cala il Modello da covrire in una vasca ammattonata; indi covrilo con velo sottilissimo di spezial tessuto bagnato con acqua e Calcina. Modella le forme e gitta lentamente l'acqua e la Calcina Misturate. Per l'esecuzione: soffia leve co' mantici i vapori esalati dalla brace nella vasca sotto il liquido composito. Per quattro dì ripeti l'Opera rinnovando l'acqua e la Calcina. Con Macchina preparata alla bisogna Leva il Modello e deponilo sul piano di lavoro, acciocché il rifinitore Lavori d'acconcia Arte. Sarà il velo come di marmo divenuto al Naturale e il Sembiante del modello Trasparire".
Il Sanmartino, inoltre, si impegnava a non rivelare il procedimento, e Raimondo, bontà sua, gli concedeva di attribuirsi l'esecuzione dell'intera opera. Se così fosse, presumibilmente il procedimento sarebbe stato usato anche per la Pudicizia ed il Disinganno. Che dire? Sembra impossibile, ma da Raimondo di Sangro ci si poteva aspettare anche questo. Forse una analisi chimica approfondita (ma non distruttiva...) dei materiali potrebbe dirci una parola quasi definitiva su ciò che è realmente accaduto. Ma anche senza appoggiarsi ad ipotesi e ad illazioni più o meno fondate, è certo che nella Napoli del '700 era possibile giungere ad una sintesi improbabile ma definitiva: quella della Pudicizia, del Disinganno e del Cristo velato.

Giuseppe Sanmartino: Il Cristo velato


P.S. Ho pubblicato per la prima volta questo testo nei Bei Momenti il 25 ottobre 2003. Qui l'ho rivisto in parte. Le immagini a fianco del testo sono un particolare della Pudicizia e la statua del Disinganno del Queirolo. Consiglio di cliccare tutte le immagini per apprezzarne meglio i particolari.

lunedì 18 febbraio 2008

Scopone scientifico


Renato Guttuso: Giocatori di Scopone


Scopone scientifico

di Remo Bassini




Quelli che giocavano erano dodici: tre tavoli per quattro giocatori di scopone scientifico, appunto, fan dodici persone.
Più un paio di spettatori, più i padroni del bar, una coppia.
Tutta gente anziana ma non troppo. Sui sessanta, sessantacinque.
Su un tavolo c’erano, stropicciati ma ripiegati con cura, alcuni giornali: Stadio, L’Unità, La Nazione.
Su un mobiletto c’era un televisore: spento.
Eppure mancavano pochi minuti, sette, forse sei o forse cinque, a mezzanotte.
Sento una bestemmia, qualcuno ha sbagliato giocata, ma c’è silenzio, troppo silenzio. E’ chiaro: siamo una coppia di intrusi, gente mai vista, gente che non è del posto.
Ordiniamo un caffè: sembra di chiedere un favore. Il padrone ci serve a occhi bassi, inespressivo, gli altri ci guardano senza guardarci.
Mancano un paio di minuti, ma loro se ne fregano.
Di tutto; del tempo, di noi che siamo lì, delle mogli a casa.
Di orologi, cipolle, pendoli.
Beviamo il caffè, mancano pochi secondi. Usciamo. E’ capodanno del 2001. Restiamo un attimo fuori. Lì attorno solo piccoli paesi, tra le colline.
Dal lago Trasimeno si vedono i bagliori dei fuochi d’artificio.
Guardo dentro al bar. Stanno ancora giocando, seri.
Che gli frega a loro: lo scopone scientifico richiede attenzione, memoria, studio. E fa bene alla mente.

(Racconti di un attimo)
(Venerdì 18 Maggio 2007)

Da Appunti


Paul Cézanne: Les joueurs de cartes


sabato 16 febbraio 2008

Sensi vietati


Jacques Linard: I cinque sensi
Musée des Beaux-Arts, Strasbourg


Sensi vietati

di Letizia Ricci


Fa senso (1): ovvero it make sense, pare ragionevole, e con questo si continua a percorrere un cammino proposto, a volte imposto, dalla logica, s'intende, che quando trova il plauso di un gran numero di soggetti si erge a regina incontrastata del buon agire. L'agire dei buoni, i giusti, l'Esercito del Bene.

Fa senso (2): fa schifo, anche. Oh benefico linguaggio che crei il lapsus dove non doveva esserci. Ora siamo costretti ad arrangiarci con qualcosa di più epidermico, pelo rizzato, pelle d'oca, ma anche più endogeno, sale dallo stomaco, gorgoglia nell'esofago, macera nel palato e sta a vedere che schizza fuori, più o meno rumorosamente, dipende solo dall'aplomb. Ma sull'Esercito del Bene l'aplomb è piombato, il mio a terra, sparpagliato in microbiglie come quelle che stavano nei portacenere d'antan, quelli che avevano la pancia molle piena di pallini per accomodarsi sui braccioli più disparati. Piombini. I miei sono rantolati, quelli dell'Esercito del Bene invece danno bella mostra di sé, si sono incicciottiti, hanno fagocitato ferro, nickel, uranio & C., piombo, e ora con la loro bella forma a supposta [ma sarà davvero casuale questa forma?] andranno a sbriciolarsi a 5000 km da qui. Lo chiamano ritorno alle origini. I pallini, sia chiaro. Più o meno come l'ordine delle cose.

Senso unico: anche one way, monorotaia, monocolo, mono versus stereo, disabilità. Già perché con un senso unico, oltre a non poter tornare indietro e spiaccicarsi inesorabilmente contro il primo muro, si sottintende di aver perso gli altri 4 (+1). Pericoloso fascio collimato di pensieri, automobili, via senza vai. Eppoi vai a sapere quale dei 5+1 ha resistito. D'istinto mi terrei la vista, esattamente come ci teniamo la TV. Poi non saprei: vivere in silenzio non fa per me, il diapason mette tutto in sintonia, dividendo per lunghezza d'onda quel che ci piace da ciò che gracchia. Ad assaporare il cioccolato non rinuncio. Questo contatto palatale con la conoscenza di forma, consistenza, esistenza è come un identikit: ci mette il profilo. Toccare: il gelo del marmo, la levigatezza dello specchio, la mollezza della mucillaggine, la fragranza delle foglie secche, le asperità del cuore, il calore del termosifone, l'acutezza dei fiori di cardo, la peluria dolce e subdola dell'ortica e quella appena ispida e animalesca del kiwi, l'allegazione ritrosa della gomma, la pastosità lieve di una goccia d'olio, la ruvidezza della pomice, il velluto di un petalo, la scarica elettrostatica che sfiori prima che ti pervada. Olfatto: siamo animali microsmatici, eppure i bastoncelli olfattori distinguono anche 2000 odori diversi, scandagliandoli come un gascromatografo di ultima generazione. Un mezzo di conoscenza così compiuto da costituire un invito ad un viaggio endogeno che riserverebbe scoperte sorprendenti.

Sesto senso: il più corteggiato, il più ambiguo, libertario per eccellenza. Lo vorrei sottrarre alla sfera dell'intelletto e dargli corpo nella parola, per farlo diventare artiglio, arma, fendente, e parimenti inganno, regno del mistero e dell'incertezza, dell'equivoco e della suggestione. Eppure strumento primordiale di comunicazione e contatto. Un (sesto) senso inesauribile, a disposizione di tutti, da coltivare, da non tradire, pena la sua perdita patologica.

Sensi: 5+1 , visitati poc'anzi. Curiosamente adottati anche dal Lotto.

Doppio senso: sempre pericoloso. Per limitarne i danni sulle strade si sono messi guardrails e siepi, strisce singole o doppie, altrimenti l'incidente è inevitabile. Giustapposizione possibilistica, con una sola via d'uscita: il permesso di conversione a U. Si può sempre ripercorrere in senso inverso, salvo accorgersi di trovarsi in un pericoloso loop, senza scampo.

Senso inverso: un senso da coltivare. Disturbante, richiede destrezza, coraggio, capacità di non allineamento. Da non praticare di preferenza sull'autostrada.

Controsenso: accade quando si perde la rotta, il sistema di riferimento, l'ago della bussola si è smagnetizzato e il transatlantico in balia delle correnti naviga a vista. L'equipaggio addestrato al senso unico di marcia, privo di cannocchiali a lunga focale, è incapace di vedersela con la stella polare, e poi è una notte buia e tempestosa, le lune in agguato tra i nembi flashano schizofreniche come lampi accecanti nel buio compatto, solo i pesci fosforescenti sfiorano le creste e impastano gli sguardi abbacinati tra acqua e cielo.

Senso vietato: da proscrivere. Negazione del 5+1, talvolta autarchica. Imposizione dogmatica per incanalare la circolazione secondo l'ordine prestabilito. L'unica che può sfuggire è quella umorale, la chiamano anche follia (dei perdenti), perdita di sensi da contrapporsi alla circolazione ordinata e composta (dei vincenti), detta anche buon senso.

Buon senso: non sono sicura che esista.


Lubin Baugin: I cinque sensi
Collezione privata

giovedì 14 febbraio 2008

Tempus fugit

Habanera



Sveglia, pigroni!
Mancano solo 15 giorni al nostro appuntamento.
Siete pronti?
Roby, Laura, Giuliano, Mazapegul, Solimano: naturalmente avete già spedito i vostri non-racconti qui, vero?
Sapevo di poter contare su di voi!
Tutti gli altri si affrettino.
Tempus fugit e il giorno che non c'è si sta avvicinando inesorabilmente.
Se io ho già scritto qualcosa?
Beh... ecco... non proprio... però ci sto non-pensando.
Dite che non basta?
H.




lunedì 11 febbraio 2008

Bretagne mon amour


Pont-Aven: Bretagne


Alan Stivell

di Giuliano


A metà anni '70, quando avevo 15-17 anni, avevo scoperto Alan Stivell: la sua arpa, la sua voce e le sue cornamuse.
Il suo disco più famoso (ma non quello che mi piaceva di più) era "Live in Dublin", ovvero "E Dulenn" (cioè la stessa cosa, ma in gaelico). Un disco trascinante, con melodie antiche bretoni e anglosassoni, in un mix di strumenti popolari e chitarre elettriche. Oggi la chiamano "musica celtica": e forse per Stivell è giusto, visto il suo ruolo di pioniere nel recupero della tradizione; ma sotto quest'etichetta ormai mettono di tutto, comprese le ballate medievali inglesi e il folk americano, ed è un peccato. Comunque sia, quel disco era la registrazione di un concerto tenuto a Dublino, che iniziava con una danza trascinante; sul cui ritmo si inseriva la voce tribunizia di Stivell, che declamava in francese queste parole (sono sulla copertina del disco, perciò è facile trascriverle): "Ecco venuto il tempo della Liberazione ("délivrance"), lontano da noi le idee di vendetta, manterremo l'amicizia col popolo francese, ma abbatteremo le vergognose mura (...) E' forse troppo pretendere d'essere uguali? E' forse troppo domandare di poter vivere? (...) "


The Celtic Harp - Alan Stivell


E continuava, con un effetto inebriante e un crescendo di cornamuse, con paragoni tra Bretagna, Spagna, Indocina, Palestina, Mali, Cile: il Cile di Pinochet, una tragedia appena successa e ancora in corso.
Ma da dove veniva questo Stivell, e cos'era mai successo di così grave dalle sue parti? Nella mia ignoranza, era più che legittimo che me lo chiedessi: tanto più davanti ad una voce così affascinante e trascinante. E dunque avevo scoperto che Stivell era bretone, quindi francese; che all'anagrafe si chiama Alain Cochevelou, che con tutta evidenza non è un nome abbastanza poetico ed evocativo. Per quanto possa essere stata grave la situazione dei bretoni in Francia, a quanto mi risulta, non è mai successo niente di nemmeno lontanamente paragonabile alle guerre d'Indocina, ma nemmeno alla situazione dei catalani e dei baschi sotto la dittatura franchista... Mah, ero rimasto perplesso e lo sono ancora. Continuo ad ascoltare Stivell, la sua arpa e le sue cornamuse; ma questa sua "Delivrance" mi ha lasciato seri dubbi sulla sua persona, che ormai durano da trent'anni. Vedo però che per altri non è andata così, la voce trascinante di Monsieur Cochevelou ha fatto proseliti importanti, dal Mel Gibson di Braveheart fino ai fasti del prato di Pontida. Stivell papà dei leghisti? può darsi, ma io sono comasco e forse è per questo che diffido. Ai tempi di Pontida (quella vera) i comaschi stavano col Barbarossa...
(14 giugno 2005)


Federico I Barbarossa


domenica 10 febbraio 2008

Giulia Farnese

Solimano

Guglielmo Della Porta: La Giustizia (part)


Di Giulia Farnese si parla poco, al massimo un po' di gossip storico-erotico, eppure senza di lei la famiglia Farnese sarebbe rimasta quella che era dall'anno 1000 in poi: tipacci un po' da Brancaleone ripulito, anche se il Brancaleone da Norcia di Mario Monicelli è moralmente superiore a tanti Farnese: è meno sessualmente aggressivo, ad esempio.
Ne combinavano di tutti i colori sempre in bilico fra la galera ed un titolo nobiliare, con guerricciole, astuzie, tradimenti e pentimenti (in punto di morte) attorno ad Orvieto e giù a scendere verso Roma, proprio i posti dove Monicelli ha girato il suo Brancaleone.
Ma con Giulia Farnese cambiò tutto.
Soprannominata da quando era nata (1474) Giulia “la bella”, a quindici anni diventò l'amante di un cardinale che di anni ne aveva quasi sessanta, Rodrigo Borgia. Pronube furono sua madre, Giovannella Caetani, e la futura suocera, Adriana Orsini. Infatti fu escogitato nel giro di un anno un matrimonio di copertura di Giulia col figlio di Adriana, Orsino Orsini, detto Monoculus Orsinus perché guercio.
Lo sposo aveva il solo pregio di essere coetaneo della sposa e viveva nel feudo di Bassanello (oggi Vasanello), dalle parti del lago di Bolsena.
La relazione continuò anche dopo che Rodrigo Borgia divenne papa (1492), col nome di Alessandro VI, e Giulia, un bel giorno, si permise una scampagnata col marito, guercio ma giovane. Il papa lo seppe e le scrisse una lettera adirata, in cui fra l'altro le diceva:

"Julia ingrata et perfida, benché fin qui assai comprendessimo l'animo tuo cattivo et de chi te consiglia, sub pena excomunicationis late sententie et maledictionis eterne te comandamo che non debi partir, ni manco andar a Bassanello per cose concernente lo stato nostro".

In un latino un po' maccheronico minaccia Giulia di scomunica se si permette di tradire lui, il papa, col marito. Notevole anche il cenno de chi te consiglia, evidentemente rivolto a Giovannella ed Adriana, le due nobildonne che gestivano la faccenda, che aveva un altro risvolto: la nomina a cardinale del fratello maggiore di Giulia, Alessandro, che diversi anni dopo divenne papa pure lui: Paolo III, quello che iniziò il Concilio di Trento e che diede uno stato alla famiglia (aveva quattro figli); nel suo caso, almeno, il termine nepotismo è improprio. Il bellissimo ritratto di Tiziano che è a Napoli lo rappresenta con i due nipoti Alessandro ed Ottavio, ma lui è il nonno, non lo zio.

Giulia, mancato il papa, rimase vedova del marito e si risposò, conducendo una vita tranquilla nel suo feudo di provincia. Probabilmente, oltre che onorata, era anche afflitta dalla sua bellezza.
Non sono rimasti ritratti sicuri di Giulia, molte le attribuzioni ma niente di certo. Il che è strano, a pensarci, ed è probabilmente legato ad una damnatio memoriae che la famiglia, ingrata di tanta fortuna, le riservò. Tutta l'Italia, anzi, tutta l'Europa, chiacchierava sull' origine della potenza dei Farnese, così strettamente legata a due papi. Forse per reagire a questo i Farnese cercarono la gloria attraverso il mecenatismo: basti ricordare palazzo Farnese a Roma ed i monumenti equestri di Piazza Cavalli a Piacenza.

Guglielmo Della Porta: La Giustizia San Pietro, Vaticano
Monumento funebre a Paolo III 1549-1575

Fra le attribuzioni, ce ne sono due affascinanti: la donna in primo piano nella Trasfigurazione di Raffaello (dipinta attorno al 1518, quando Giulia era ancora in vita) e la statua della Giustizia nel monumento funebre a Paolo III, il fratello. Due opere ancora conservate in Vaticano, la prima nella Pinacoteca, la seconda in San Pietro, ed è il capolavoro dello scultore lombardo Guglielmo Della Porta, che ci lavorò per ventisei anni, dal 1549 al 1575, subendo l'ostilità di Michelangelo.
Si era deciso infatti che il grandioso monumento a Paolo III occupasse nella Basilica il posto che Michelangelo voleva per il suo monumento a Giulio II, quello di cui fa parte il Mosè e che sta in San Pietro in Vincoli. Una lotta di potere fra le varie fazioni pontificie, ma anche l'ostilità un po' gelosa di Michelangelo. E' finita che al centro della Basilica, come è giusto, c'è il baldacchino bronzeo di Gian Lorenzo Bernini.
Sono passati i secoli, e Giulia continua ad aggirarsi nelle stanze pontificie… fra l'altro la statua in San Pietro era originariamente nuda, ma pochi anni dopo, proprio in conseguenza del Concilio di Trento, i braghettoni ebbero il loro daffare, a cominciare dal Giudizio di Michelangelo.
Ed anche Giulia si rivestì.
Riconoscere il volto di Giulia Farnese in questi due capolavori - la Trasfigurazione di Raffaello e la Giustizia di Guglielmo Della Porta- non è certamente scontato, le date sono un ostacolo, perché Giulia morì a cinquant'anni il 23 marzo del 1524. Si era ritirata dalla scena del mondo non molto dopo il crollo della potenza dei Borgia (1503) e viveva nei feudi o nei palazzi della famiglia ormai potente principalmente per merito suo.
Ma fra l'immagine di Raffaello e quella del Della Porta si nota una corrispondenza singolare anche se non c'è la sicurezza dell'identificazione. Quindi, dobbiamo rassegnarci al fatto di non avere immagini veritiere di "Giulia la bella"?
Non è detto, probabilmente il suo ritratto c'è, ancora in Vaticano, negli appartamenti Borgia. Gli affreschi del Pinturicchio sono del 1501, al culmine della potenza di Alessandro VI, il committente. Negli affreschi si è fatto ritrarre, ed è stata sicuramente identificata Lucrezia Borgia, la figlia (immagine a lato), che era bionda come attesta la lunga ciocca conservata in una teca alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano (immagine in fondo) e che negli affreschi del Pinturicchio fa la parte di Santa Caterina d'Alessandria, figurarsi! Oltre tutto Lucrezia divenne buona amica di Giulia, in fondo aveva solo quattro anni più di lei, ed erano certo una bella coppia, la bionda Lucrezia e la bruna Giulia. Non credo sia possibile che Alessandro VI non facesse effigiare Giulia Farnese, quella che tutta Roma chiamava con scherno teologico Sponsa Christi. In rete non sono riuscito a trovare una immagine plausibile, ma fra le tante figure del Pinturicchio Giulia non può mancare, ma non credo che l'attuale Pontefice ordinerà una indagine, ha altre priorità. Che peccato! La presenza di Giulia Farnese all'interno del Vaticano nei tre posti più importanti: Palazzo del Vaticano, Pinacoteca Vaticana, Chiesa di San Pietro sarebbe un magnifico antidoto verso discorsi che oggi si sentono e che sono ben lontani dalla vita reale di Alessandro VI e di Paolo III: prima di fare la morale in casa altrui sarebbe meglio che la facessero in casa propria.


Tiziano: Paolo III con i nipoti Alessandro ed Ottavio 1546
Gallerie Nazionali di Capodimonte, Napoli


Ciocca dei capelli di Lucrezia Borgia
Pinacoteca Ambrosiana, Milano


venerdì 8 febbraio 2008

S-viste

Roby

Trompe-l'oeil pompeiano


Trompe-l'oeil è un termine francese, accattivante già nel suono, che indica la particolare tecnica pittorica capace di ingannare l'occhio, facendogli credere reale qualcosa che invece è tutta opera del pennello dell'artista. Se non sbaglio, uno dei primi trompe-l'oeil fu realizzato da Apelle, pittore greco-classico noto ai più per un famoso scioglilingua, il quale vinse una gara proprio grazie ad un quadro (apparentemente) ricoperto da un drappo bianco... in realtà inesistente, ma riprodotto sulla tela con tanta perizia da sembrare vero!
Per questi divertissements grafici io ho una vera passione, a cominciare dai più semplici e artigianali (avete presente quelle false finestre, magari con le imposte semiaperte, che ornano le facciate laterali di certi palazzi ottocenteschi?) fino ai più raffinati e famosi. Tra essi, impossibile non ricordare l' oblò che il Mantegna apre sul soffitto del mantovano Palazzo ducale, dal quale si affacciano superbi pavoni e paffuti cherubini. Un oculus proiettato sull'immaginario che potrei avvicinare a quello della falsa cupola di Sant'Ignazio, a Roma: la foto è ingannevole quanto l'originale, e fermandosi a naso all'insù poco dopo l'entrata della chiesa l'illusione è perfetta.


Sinistra: Andrea Mantegna, soffitto della camera degli sposi, Palazzo ducale di Mantova
Destra
: falsa cupola della chiesa di Sant'Ignazio, Roma



La falsa porta del certosino, alle Terme di Diocleziano, è stata invece per me una sorpresa, arrivata fresca fresca attraverso Google-Immagini: non c'è dubbio che, al mio prossimo passaggio dalla capitale, questa sarà una meta obbligata, vista l'eccellente qualità dell'affresco, così ricco di particolari da risultare, per gli appassionati miei pari, quasi inebriante! Ma li vedete, i tomi riposti nello scaffale, a sinistra in basso? E il teschio occhieggiante? E il cordone, appeso con nonchalance? Una chicca, una goduria per le pupille e un delizioso inganno per il cervello...

Terme di Diocleziano, Roma: falsa porta del certosino


Sempre da Google ho appreso che in Francia, a Lione, è viva ed attiva una scuola di trompe-l'oeil oversize, che si sbizzarrisce sulle facciate di condomini altrimenti piuttosto anonimi. Ve ne offro due esempi, entrambi singolari per abilità e tecnica: quello di sinistra è quasi impressionante (ma come possono NON essere vive, le persone su quei balconi???), mentre quello di destra, decisamente surreale, ha tuttavia un suo fascino, specie per gli appassionati bibliofili.




Sinistra e destra:
trompe-l'oeil formato gigante su alcuni palazzi di Lione








Chiudo con un quadro molto suggestivo dello spagnolo Borrel del Caso, in cui il ragazzino ritratto "scappa" fuori dalla cornice, per sfuggire (come recita il titolo) agli strali spesso velenosi di certi critici d'arte. Il gioco delle ombre e delle luci, la plasticità di quelle mani e del piede che punta sul bordo dorato, le pieghe della casacca di tela rendono l'illusione ottica quasi perfetta. E se, una volta fuggito il bambino, provassimo noi ad affacciarci all'interno di quella cornice? Cosa troveremmo, al di là del suo riquadro? Di chi -o di che cosa- diverremmo i trompe-l'oeil?


Pere Borrel del Caso, Escapando de la critica, 1874


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P.I. (post imagines): gentilmente offerti da Mazapegul, direttamente dalla Casa del Triclinio di Ravenna, due mosaici della serie "pavimento non spazzato" (sic!).





martedì 5 febbraio 2008

La ragazza con l'orecchino di perla

Habanera

J. Vermeer: La ragazza con l'orecchino di perla
Mauritshuis Museum, The Hague

Questo non è un bel film, lo dico subito. Almeno, non lo è dal punto di vista cinematografico.
Troppo caricato, ed allo stesso tempo quasi statico, inerte.
Gli attori, poi, sono una vera iattura. Il tanto amato Colin Firth in questo ruolo dà una pessima prova di sè e mi chiedo perchè lo abbiano scelto per interpretare Vermeer del quale è assolutamente incapace di cogliere lo spirito e l'anima.
Perchè un'anima, per quanto olandese e seicentesca, schiva e poco dannata, l'avrà pure avuta il nostro Johannes, meglio conosciuto come Jan. E che anima, a giudicare dai suoi quadri!

Jan Vermeer: The Art of Painting
Kunsthistorisches Museum, Vienna

Se la cava meglio Scarlett Johansson, nel ruolo di Griet, se non altro per l'impressionante somiglianza con la Ragazza con turbante, vero nome del celebre dipinto. Ma anche lei eccede in sospiri e tremori, pur mantenendo per tutta la durata del film quasi sempre la stessa espressione, leggermente attonita.
In questo dissento dalla critica ufficiale che ha generalmente stroncato il film (vi risparmio il solito Tullio Kezich, più tagliente che mai) salvando però, almeno in parte, solo la giovane attrice.
In verità nulla sappiamo, realmente, della vita privata di Jan Vermeer nè dei suoi amori segreti, sempre ammesso che ne abbia avuti. Tutto nasce dalla fantasia di Tracy Chevalier, autrice dell'omonimo romanzo da cui è stato tratto il film.
Il libro, che non ho letto e che non leggerò, ha avuto molta fortuna, il film, critica negativa a parte, non so. So però che quest'opera prima di Peter Webber ha avuto diverse nomination all'Oscar per fotografia, scenografia, costumi e penso che siano tutte meritatissime. Infatti, dal punto di vista puramente estetico non c'è niente da dire, sfiora la perfezione. Quella mitica rifrazione di luce che in Olanda non c'è più, causa trasformazione dei canali in campi coltivati, è magicamente ricostruita con filtri e specchi. Tutto è curato nei minimi dettagli, con maniacale puntigliosità, eppure manca qualcosa, manca il pathos, anche nelle scene che vorrebbero, e dovrebbero, essere drammatiche.
Non un bel film, dunque, a meno che...

Jan Vermeer: La Lattaia
Rijksmuseum, Amsterdam

A meno di non essere, come io stessa sono stata in passato, una pittrice dilettante. E' lì che nasce la magia di questo film, nella sua luce e nei suoi colori; una magia irresistibile per chiunque abbia avuto tra le mani una tavolozza e un pennello. Ecco, il solo vedere l'impasto e la preparazione dei colori, il blu ottenuto dai lapislazzuli, la particolare sfumatura del vermiglione, il giallo ambrato, il nero addolcito da una mano leggera di colore diverso, la luce catturata nell'orecchino di perla... luce e colore, colore e luce... un'emozione profonda, un ottimo motivo, almeno da parte mia, per amare anche questo film.
E la trama? Si immagina che ci sia stata una intensa ma non dichiarata attrazione tra il Maestro e Griet, la sedicenne servetta di casa che avrebbe posato per lui come modella. E' solo un gioco di sguardi e di cose non dette... le loro mani, anche se vicinissime, non si sfiorano mai. Lei intuiva i misteriosi processi della creatività, amava la sua arte e forse, timorosamente, amava anche lui; lui si sentiva finalmente compreso, fin nelle pieghe più segrete della sua sensibilità artistica e forse anche lui l'amava.
Ma la moglie di Jan, nell'intervallo tra una gravidanza e l'altra (hanno avuto ben undici figli), riesce a trovare il tempo per fare una scenataccia di gelosia e scacciare di casa l'innocente Griet.
Pura fantasia o forse c'è qualcosa di vero in questa romantica storia d'amore senza lieto fine? Sinceramente non credo sia così importante saperlo.
I pochi, affascinanti quadri di Vermeer per nostra fortuna sono ancora qui, vivi e veri.
Lasciamo che siano loro a parlare, a raccontarci...

Pubblicato anche su Abbracci e Pop Corn

J.Vermeer: La Merlettaia
Musée du Louvre, Paris


P.S.
Colgo al volo il suggerimento del nostro espertissimo d'Arte, Solimano, e aggiungo la spettacolare "Veduta di Delft", per la gioia dei miei e dei vostri occhi (consiglio di cliccare le immagini per ingrandirle).
H.


Johannes Vermeer: Veduta di Delft
Private collection

domenica 3 febbraio 2008

Se amando troppo



Dacia Maraini


Se amando troppo

se amando troppo
si finisce per non amare affatto
io dico che
l'amore è una amara finzione
quegli occhi a vela
che vanno e vanno su onde di latte
cosa si nasconde mio dio
dietro quelle palpebre azzurre
un pensiero di fuga
un progetto di sfida
una decisione di possesso?
la nave dalle vele nere
gira ora verso occidente
corre su onde di inchiostro
fra ricci di vento
e gabbiani affamati
so già che su quel ponte
lascerò una scarpa, un dente
e buona parte di me


Una poltroncina di vimini

una poltroncina di vimini
il mare arruffato davanti
eri lì quieto e assorto
gli occhi a mollo nel tempo
che si disfa, che va, che vola
e tu con le tue brusche dolcezze
ricordi i gelati alla menta?
ti aspettavo, dicevi
la mattina alle sette
seduto sulla poltroncina di vimini
nella quiete della soglia
nell'ombra della casa
nel silenzio del sonno
eri già in lite col futuro
e filavi quel filo di attesa
fra le dita di vecchio baobàb
mentre i cieli corrono
sopra il tuo collo di tartaruga
quel futuro da niente
quel futuro spensierato
con le sue arie da gran signore
e i suoi piedi di carta
ti ha portato via
come se niente fosse
con fare di amico fedele
tradendo la mia
la tua fiducia
e il tuo buonumore
le tue impazienze garibaldine
il tuo istinto di vincitore,
hai lasciato un bastone
lo vedo ogni volta che
entro ed esco da casa
il suo pomo di osso
il suo lucido corpo
di legno rossiccio
mi rammentano il tuo
zoppicare festoso
fra bagagli e cuscini
mentre le ciglia ridono
e il mento se ne va
e i piedi battono
sul tamburo delle meraviglie
nella luce azzurrina
di un agosto a Sabaudia
come farò senza i tuoi occhi?
come farò senza la tua voce?
su quella poltroncina di vimini
caro figlio che
mi sei stato padre
nelle tue distanze astrali
ricordi i discorsi in cucina
la mattina alle sette
mentre aspettavamo che l'acqua bollisse?
e quel ridere di noi
e quel fantasticare di montagne
di carta e vapore
con quelle mani e quei piedi
quel baobab e quel tamburo
aspetterò di sentirti suonare

(Da "Se amando troppo")


*****


Disse no al marito

Disse no al marito
si infilò le scarpe da ginnastica
e andò viaggiando per il mondo
una donna di settant'anni
dai grandi occhi viola


Se qualcosa

se qualcosa, se qualcosa passa
di questa indigenza amorosa
sono ombre di dubbi frangiati
e una lunghissima notte gelata
figurati che non c'era neppure la stufa
e mi scaldavo con la memoria
della sua tenerezza scabrosa


Al mandarino

le floride madri
e quegli occhi gelati
la mia vita per un bacio
ma che sia al mandarino

(Da "Dimenticato di dimenticare")


*****


Villa Valguarnera

Tu credevi che la violenza fosse forza
saltellavi a piedi nudi sul pavimento di mattonelle
gialle, tu credevi che, ma è fragile, labile il tuo,
inventavi giochi verbali per nascondere la paura
la tua anima di feltro, mussolina, seta cruda
nell'assolato cortile della coscienza ci siamo guardati
noi due, il caffè amaro indigesto del bar di via
Ruggero Settimo sul palato, tu verrai da Napoli domattina
i bianchi corpi disfatti dei libri sotto il braccio
seduto su uno scalino, le mani in tasca, non ti accorgevi
che era finita la benzina, l'inesperienza covava, ero
già pronta alla scissione, ti porterò via di qui, a Roma
ti chinavi a guardare le melanzane tagliate come fiori
e cucinate come uccelli, abbiamo abitato sul mare
a Santa Flavia e a Bagheria, culla materna, erna
don't be silly, mangia, ti mostravo le gambe tonde
muscolose, la nonna entrava molle fulgente, il cane
bianco in braccio e gli smeraldi al collo, ti prometto
che andremo tu ed io a Roma, le vene sclerotiche della
memoria indurite ostruite, lunghe mucche di sangue
ho imparato su una macchina da scrivere, te lo giuro
le spampinate rose, i gelsomini di villa Valguarnera
mi pare che forse un giorno andremo a Roma, dove la vita
è forma ed è calore, avevi la faccia avara allora e pudica
e docile, ti divertivi con giochi venefici sofistici
adulterati, la nonna spiritualista tu la odiavi, per
la sua dieta al latte, il cagnolino bianco sul lenzuolo
gli smeraldi nelle pieghe della carne, tu spiavi la presenza
ossuta, rossastra della villa fra i carrubi di cuoio e
i limoni d'argento, c'erano dei disegni metafisici in un
cassetto, are you coming tomorrow, orrow?
il trionfante contorto albero genealogico da cui tu sparuto
cavallo mongolo eri escluso, l'avvocato Carnevale, candidato liberale, la nonna in millecento, l'ermellino digestivo sulle
spalle, la grottesca disperazione aristocratica di chi
non saprà mai di sé né dell'unguento che tinge
di nero la punta delle dita, l'avvocato è entrato
ha salutato, con la mano e col petto, cara duchessa
dice, si allunga, smuore, il prezzo è stato stabilito
tu verrai da Napoli domattina, Bagheria è sfiatata
non sai, con i mobili dentro e l'argenteria? chiede
gli smeraldi incappucciati, la villa ora è venduta, pezzo
a pezzo, i marmi, le sedie arricciolate, i quadri antichi
e noi vittime una volta dopo avere tanto, l'avvocato
Carnevale procurava voti alla DC, tu lo sapevi e
fingevi, la Sicilia ti era estranea e i suoi intrighi
ce ne andremo a Roma, dove la vita è libertà di vita
l'orgoglio furibondo e la vile passività spagnola
forestieri per te, li ignoravi, la nonna ha ottenuto
un vitalizio, tu guardavi il mare d'onice pulito
la schiena rivolta contro i morti giardini dissacrati
domattina tu verrai da Napoli e partiremo insieme

Non

Credevi di essere te e non badavi
che il tuo essere te era già fatto
un tondo destino sprigionatosi
dai riti e dalle giostre dei tuoi avi
credevi di inventare la tua storia
ma le ampie piazze e i vicoli affollati
del tuo chiuso carattere di uomo
le goffe costruzioni razionali
che coprono edifici medioevali
le macchine, i giardini, le terrazze
i vasti uffici, le calde vetrine,
prefabbricato mondo del tuo ceto,
tu credevi di agire ed eri agito
credevi di parlare e la tua bocca
di marmo cipollino ripeteva
nozioni e fatti e idee ricevute
le ciglia nere e il naso arricciolato
non ti appartengono perché, di te
non sai di non essere mai stato che
una falsa imitazione di te stesso.

(Da "Crudeltà all'aria aperta")


Poesie tratte dal sito di Dacia Maraini


Bagheria, Villa Valguarnera


venerdì 1 febbraio 2008

Proposta


René Magritte: The Blank Cheque
(National Gallery of Art, Washington)




Proposta

di Zena Roncada
(Colfavoredellenebbie)




Ordunque

“Come ci si deve regolare (…) nei confronti del 29 febbraio?
Trattasi con tutta chiarezza di un giorno impossibile, inesistente. E’ un’illusione, un abbaglio, il gioco di Maja.”


Questo, e altro ancora, scriveva il signor Effe/Herzog sul suo blog, qualche giorno fa.

E allora si sa come van le cose: un ghiribizzo chiama suo fratello, figuriamoci una parola o un’idea, che han parenti dappertutto.

Il risultato è una piccolissima tentazione: “Si potrebbe pensare di consegnare al 29 febbraio le storie di ogni inesistenza”.

Siccome per il signor Effe/Herzog fra il dire e il fare sta di mezzo giusto una velina (nel senso di ‘carta’), ecco che la tentazione è raccolta e tradotta in proposta. Questa qui:

“Supponiamo allora che venga creato immantinente un blog apposito, un blog che non c’è, destinato ad accogliere le vostre storie in un giorno che non esiste.

Supponiamo che detto blog sia ora oscuro, e che torni ad esserlo dal 1 marzo e in eterno, e messo in chiaro solo e soltanto durante l'illusione per 24 ore durevole del 29 febbraio.

Supponiamo che questo strano blog, una volta scoperchiato, mostri le storie che voi avrete nel frattempo scritto ad hoc, (“le storie di ogni inesistenza”).

Supponiamo che esista financo una mail apposita ( ilblogchenonce@gmail.com ), cui inviare le storie che verranno spaginate nel blog che non c’è.

Ebbene, e infine: sareste disposti voi ad accettare la sfida di affidare le vostre parole a una vita densissima e breve, a un’esistenza effimera e all’oblio poi per sempre?”


Piace tanto questa idea.

Scegliere il 29 febbraio per raccontare ciò che non risponde ad un unico requisito trasversale: l’esistenza.

Un blog – morgana per far vivere i calviniani cavalieri d’ogni specie che si aggirano nei nostri dintorni, e che noi pensiamo in forma di luogo o di figura, di mondo o di animale, di verbo o di passione, di colore o di quant’altro ancora…

‘Nominare’ come ‘animare’, insomma.

Nel tempo breve di una visione a scadenza.

Cosa possiam chiedere di più alle parole?

Ci state?

Io sì.

(domenica, 20 gennaio 2008)

Da Pesci di nebbia


Charles Filiger: Paesaggio di Le Pouldu