venerdì 30 novembre 2007

W CANAPONE!!!




W CANAPONE!!!

di Roby



Il 30 novembre del 1786 la Toscana, con un provvedimento senza precedenti, abolì la pena di morte: dal 2000 proprio in questa data si commemora l'avvenimento, celebrando la cosiddetta "Festa della Toscana".

Ed ecco l’Editto del Granduca Pietro Leopoldo, affettuosamente detto CANAPONE dai fiorentini per la sua chioma stopposa come la canapa:

"Pietro Leopoldo, per grazia di Dio, principe reale d'Ungheria e di Boemia, arciduca d'Austria, granduca di Toscana.
Fino dal Nostro avvenimento al Trono di Toscana riguardammo come uno dei Nostri principali doveri l'esame e riforma della Legislazione Criminale, ed avendola ben presto riconosciuta troppo severa e derivata da massime stabilite nei tempi meno felici dell'Impero Romano, o nelle turbolenze dell'Anarchia dei bassi tempi, e specialmente non adattata al dolce, e mansueto carattere della Nazione, procurammo provvisionalmente temperarne il rigore con Istruzioni ed Ordini ai Nostri Tribunali, e con particolari Editti, con i quali vennero abolite le pene di Morte, la Tortura, e le pene immoderate, e non proporzionate alle trasgressioni, ed alle contravvenzioni alle Leggi Fiscali, finché non ci fossimo posti in grado mediante un serio, e maturo esame, e col soccorso dell'esperimento di tali nuove disposizioni di riformare intieramente la detta Legislazione. Con la più grande soddisfazione del Nostro paterno cuore Abbiamo finalmente riconosciuto che la mitigazione delle pene congiunta con la più esatta vigilanza per prevenire le reazioni, e mediante la celere spedizione dei Processi, e la prontezza e sicurezza della pena dei veri Delinquenti, invece di accrescere il numero dei Delitti ha considerabilmente diminuiti i più comuni, e resi quasi inauditi gli atroci, e quindi Siamo venuti nella determinazione di non più lungamente differire la riforma della Legislazione Criminale, con la quale abolita per massima costante la pena di Morte, come non necessaria per il fine propostosi dalla Società nella punizione dei Rei, eliminato affatto l'uso della Tortura, la Confiscazione dei beni dei Delinquenti, come tendente per la massima parte al danno delle loro innocenti famiglie che non hanno complicità nel delitto, e sbandita dalla Legislazione la moltiplicazione dei delitti impropriamente detti di Lesa Maestà con raffinamento di crudeltà inventati in tempi perversi, e fissando le pene proporzionate ai Delitti, ma inevitabili nei respettivi casi, ci Siamo determinati a ordinare con la pienezza della Nostra Suprema Autorità quanto appresso.(...)
LI. Abbiamo veduto con orrore con quanta facilità nella passata Legislazione era decretata la pena di Morte per Delitti anco non gravi, ed avendo considerato che l'oggetto della Pena deve essere la soddisfazione al privato ed al pubblico danno, la correzione del Reo figlio anche esso della Società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi, la sicurezza nei Rei dei più gravi ed atroci Delitti che non restino in libertà di commetterne altri, e finalmente il Pubblico esempio, che il Governo nella punizione dei Delitti, e nel servire agli oggetti, ai quali questa unicamente diretta, è tenuto sempre a valersi dei mezzi più efficaci col minor male possibile al Reo; che tale efficacia e moderazione insieme si ottiene più che con la Pena di Morte, con la Pena dei Lavori Pubblici, i quali servono di un esempio continuato, e non di un momentaneo terrore, che spesso degenera in compassione, e tolgono la possibilità di commettere nuovi Delitti, e non la possibile speranza di veder tornare alla Società un Cittadino utile e corretto; avendo altresì considerato che una ben diversa Legislazione potesse più convenire alla maggior dolcezza e docilità di costumi del presente secolo, e specialmente nel popolo Toscano, Siamo venuti nella determinazione di abolire come Abbiamo abolito con la presente Legge per sempre la Pena di Morte contro qualunque Reo, sia presente, sia contumace, ed ancorché confesso, e convinto di qualsivoglia Delitto dichiarato Capitale dalle Leggi fin qui promulgate, le quali tutte Vogliamo in questa parte cessate ed abolite. (...) Tale è la Nostra volontà, alla quale Comandiamo che sia data piena Esecuzione in tutto il nostro Gran-Ducato, non ostante qualunque Legge, Statuto, Ordine, o Consuetudine in contrario."
Dato in Pisa li 30 Novembre 1786.


(Trascrizione del Proemio e dell' articolo LI (Abolizione della pena di morte) della Legge di riforma criminale del 30 novembre 1786, n. LIX conosciuta anche come Codice Leopoldino o Leopoldina)




giovedì 29 novembre 2007

Non andartene, amore...


René Magritte: Gli amanti


Non andartene, amore...

Rabindranath Tagore


Non andartene, amore, senza avvertirmi.
Ho vegliato tutta la notte e ora i miei occhi sono pesanti di sonno.
Ho paura di perderti mentre dormo.
Non andartene, amore, senza avvertirmi.

Mi sveglio e stendo le mani per toccarti.
Ti sento e mi domando: "È un sogno?"
Oh, potessi stringere i tuoi piedi col mio cuore e tenerli stretti al mio petto!
Non andartene, amore, senza avvertirmi.



Dimmi se tutto questo è vero

Dimmi se tutto questo è vero,
amore mio,
dimmi se questo è vero.

Quando i miei occhi lampeggiano,
le oscure nuvole,
nel tuo petto,
danno risposte tempestose.

È vero che le mie labbra
sono dolci
come l'inizio del primo amore?

Che i ricordi di svaniti
mesi di maggio
indugiano nelle mie membra?

Che la terra, come un'arpa,
vibra di canzoni
al tocco dei miei piedi?

È poi vero che al mio apparire
la rugiada
cade dagli occhi della notte
e la luce del giorno
è felice quando avvolge con gioia
il mio corpo?

È vero, proprio vero
che il tuo amore vagò solitario
attraverso epoche e mondi
in cerca di me?

E che quando finalmente
mi hai trovato
il tuo vecchio desiderio
trovò una pace perfetta
nel mio parlare gentile,
nei miei occhi, nelle mie labbra
e nei miei capelli fluenti?

È vero, dunque, che il mistero
dell'infinito
è scritto sulla mia piccola fronte?

Dimmi, amore mio,
se tutto questo è vero.



Qualcuno mi ha segretamente

Qualcuno mi ha segretamente
lasciato in mano un fiore d'amore.
Qualcuno mi ha rubato il cuore
e l'ha sfogliato in cielo.
Io non so se l'ho trovato o se vado
a cercarlo ovunque e se c'è un tremore
di gioia o di pena.



Chiederei ancora qualcosa

Chiederei ancora qualcosa
se possedessi il cielo,
le sue stelle
e il mondo
con le sue infinite ricchezze.

Sarei però contento anche d'ogni
piccola cosa
se lei fosse mia.



Parlami, amore mio!

Parlami, amore mio!
Dimmi a parole quello che hai cantato.
La notte è buia.
Le stelle si nascondono tra le nuvole.
Il vento soffia tra le foglie.
Scioglierò i miei capelli.
Il mio mantello azzurro mi avvolgerà
come la notte. Stringerò la tua testa
al mio petto; nella dolce solitudine
sospirerò sul tuo cuore.
Socchiuderò i miei occhi e ascolterò.
Non ti guarderò il viso.
Quando le tue parole cesseranno,
staremo fermi e in silenzio.
Solo gli alberi bisbiglieranno nell'oscurità.
La notte impallidirà.
Spunterà l'aurora.
Ci guarderemo negli occhi
per l'ultima volta e andremo ognuno
per la sua strada.
Parlami, amore mio!
Dimmi a parole quello che hai cantato.



Se vuoi così, smetterò di cantare.

Se vuoi così, smetterò di cantare.
Se fa sussultare il tuo cuore,
distoglierò i miei occhi dal tuo volto.
Se ti fa trasalire all'improvviso
mentre passeggi, mi trarrò in disparte
e prenderò un'altra strada.
Se ti confonde mentre intrecci i fiori,
eviterò il tuo giardino solitario.
se troppo agita l'acqua,
non vogherò vicino alla tua spiaggia.


(da "Il Giardiniere")

Gustav Klimt: Il bacio


martedì 27 novembre 2007

Quando ShinyStat dà i numeri


Leslie Caron in "An American in Paris" (1951)


Quando ShinyStat dà i numeri

di Solimano



Venerdì scorso (il 23 novembre) qui è successa una cosa curiosa. Nel tardo pomeriggio stavo mettendo a posto alcune cosette in Abbracci e pop corn, in cui sono admin, ed ho pensato di andare sul Nonblog di Habanera in cui sono guest. Volevo leggermi alcuni post ascoltando il Trio di Schubert, che è nel juke box in fondo alla home page.
Però, come prima cosa, sono andato a guardare il contatore ShinyStat, per vedere le Visite e le Pagine Viste.
Lo faccio sempre, quando arrivo in un blog che ha il contatore in chiaro, quindi nell'assoluta minoranza dei blog, perché ci sono tanti tipi di contatori in giro che saranno molto sofisticati, ma non si capisce quante Visite e quante Pagine Viste ha quel blog in quel preciso giorno. Non ci sto sopra, ogni scelta va rispettata, la mia è stata quella di mettere il contatore in chiaro su Abbracci e pop corn, ed una scelta analoga ha fatto il Nonblog, solo che è più ricco di funzioni ed a saperlo guardare di cose ne dice tante, anche ai visitatori.
Venerdì mi aspettavo i buoni numeri consueti (fra le cinquanta e le cento visite al giorno), ma sono rimasto con gli occhi sbarrati: le visite erano già centinaia e continuavano a crescere a vista d'occhio, con numeri da blog di comici, di giornalisti o di politici.
Per prima cosa ho pensato che il contatore fosse impazzito, come seconda cosa - più logica - ho pensato che in un post ci fosse qualcosa che attirava visite in modo particolare. Lo confesso, ho pensato alle Bischerate, il titolo che Roby ha dato ad una serie di suoi brani sulla vita a Firenze. "Bischerate" è un nome che attira, ho guardato il Google e prima di arrivare alle "Bischerate" nel Noblog bisognava arrivare alla terza pagina. Intanto avevo scritto una mail ad Habanera: che succede?


E Habanera mi ha risposto, perché aveva già capito cosa stava succedendo: Gerry Scotti ne "Il milionario" su Canale 5 ad una concorrente aveva fatto questa domanda: "Di chi è la frase 'I miei venticinque lettori'?" La concorrente non lo sapeva e mentre lei ci ragionava su una marea di persone si è fiondata su Google per conoscere la risposta. Caso vuole che io avessi scritto tempo fa alcuni post proprio con questo titolo e gli assatanati consultatori sono stati prontamente dirottati sul Nonblog, con grande giubilo del contatore ShinyStat. La controprova è nel fatto che la richiesta per quei post, rilevabile nel contatore, è cresciuta a dismisura nel giro di quei pochi minuti. Basta cliccare sul contatore e poi su "visualizza report" scorrendo fino in fondo.
Il dato a fine giornata è stato di 658 Visite e di 1.708 Pagine Viste. I miei "venticinque lettori" primeggiano incontrastati ed ora sarò costretto a cambiare il titolo in
"I miei seicentocinquantotto lettori".
Forse un po' meno dei reali lettori del Manzoni ma comunque un bel numero ...
Casi della vita, e pensare che mi ero abituato a vivere fra speranza e timore: la speranza era che i lettori divenissero ventisei (26), il timore era che uno si stancasse, e che quindi dovessi scendere a ventiquattro (24). Credo che tutti o quasi si siano fermati alle prime righe, e che quando hanno visto che la frase era del Manzoni se ne siano andati per i fatti loro, però... però... mai dire mai, magari qualcuno ha letto il mio brano e qualcun'altro ha fatto lo zompo diretto ad Alessandro Manzoni, e si sta leggendo - forse per la prima volta nella vita - "I promessi sposi". Io mi contenterei di un lettore in più, anzi di una lettrice... magari somigliante a quella che metto nelle tre immagini di corredo a questo post.



lunedì 26 novembre 2007

Lo cunto de li cunti




Lo cunto de li cunti

di Stefania Mola
(BibliotecadeBabel)




In certi luoghi gli scrittori non servono, perché le storie – da sempre – si raccontano in cerchio, attorno al fuoco e di fronte alla propria memoria. Si chiamano cunti i racconti di cui siamo fatti, un numero infinito di storie appiccicate addosso che ci scorrono dentro «come il sangue e l’acqua, i ricordi e le insidie», e si dicono in cerchio per ascoltarli meglio, passando «da un orecchio all’altro, da un cuore all’altro». Di tanti cunti impastati nei sogni, nelle visioni e nei fantasmi è fatto questo libro dedicato a tutti quelli che gli somigliano e somigliano ad un’antica canzone salentina, citata in esergo:

Na sira passai de le padule e
‘ntisi le ranoncule cantare.
A una a una ieu le sentia cantare
ca me pariane lu rusciu de lu mare.

Nunzia e Palmira a orchestrare il racconto, due donne intense come solo certi paesaggi, estreme nelle passioni e nelle emozioni, non in cerca di risposte ma di qualcosa buono a proteggere dal dolore delle parole, in certi giorni storte e «malate di terra rossa e cielo sbilenco», capaci di infilarsi nelle emozioni di coloro che amano come indossare un abito, e di scandire piano le parole perché restino addosso, per sempre.

Nunzia e Palmira figlie di un Sud di maleficio che condanna le donne ad essere materne e ferine insieme e ad avere lo sguardo e l’odore del lupo. Un Sud nelle cui stanze il dolore è corpo e ci si sbatte contro facendosi male fino a sanguinare. E stanze che ondeggiano al ritmo della risacca della colpa, che il sole inonda devastando tutto ciò che incontra, che sono mondi abitati da tutte le vite che ci hanno preceduto e da tutti i legami impossibili da recidere, in cui non si entra bensì ci si immerge, con pavimenti su cui stendersi per sfuggire all’afa e far tornare il corpo alla terra mentre passano i morti. Un Sud di andamenti circolari, impregnato di sensi che sopravvivono alla modernità in cui si scopre di non essere fatti della stessa pasta dei sogni ma di vino infitisciutu, d’aceto e disincanto, dell’odore pungente dell’olio, di quello sfatto dei pomodori seccati al sole. Un Sud che è terra di colori «che tramortiscono i sensi» e che il vento risparmia mentre spazza il resto e sbiadiscono smettendo di respirare quando i fantasmi sorprendono la felicità degli uomini fermando il tempo. Un Sud che è bianco e nero di fronte ai dèmoni quando i colori non vogliono svegliarsi.

E poi le mani. Mani con cui si nasce, si vive e si muore. Motore di ogni fremito, agli antipodi degli occhi – porte della bellezza e dell’inferno. Mani di sciamana che insieme alle visioni curano affondando nelle viscere, mani sentite prima di essere strette e di mettere in moto il tempo, mani di un amore anomalo e violento e di una madre matrigna, o di quella piccola felicità che è un padre nei ricordi sfilacciati di un’infanzia rimasta lutto mai elaborato. A mani nude provando a scacciare la morte e ricacciare nel corpo la vita. Con una mano a seguire anni di cicatrici sul corpo e dentro l’anima, nelle mani l’amore che fa fare le cose con il cuore. Perché le mani, alla fine, cercano di raccogliere tutto il sangue colato di stanza in stanza, anno dopo anno, storia dopo storia. Non si stringono impunemente le mani, qui. Mai.

Un libro scritto al ritmo ossessivo di una indefinibile pizzica, primordiale nelle emozioni, arcaico nel suono delle parole, impregnato degli umori di una terra di cui restituisce il passo ipnotico e cadenzato. Una terra magica, di cunti, masserie e tamburelli, nella quale si parla a ritroso quando non si ha niente per riempire il presente, riappropriandosi della memoria con le unghie e con i denti, consapevoli che insieme al sangue – dentro – scorrono passioni e follia, amore e morte, terra e radici inestirpabili. Dove non sono solo i legami di sangue ma le corde recise a legare; corde vocali e corde del cuore. Corde strappate.

Quando eri piccola non sognavi mai. Le tue compagne dell’asilo si raccontavano i sogni in giardino, con le suore che le spiavano dal refettorio. Le suore spiavano i sogni delle bambine, misurandone parole e profondità. Tu guardavi le altre bambine a bocca aperta. Stupita, ti chiedevi perché non ti era concesso di condividere questa gioia segreta. Allora, per non essere esclusa da quel cerchio tutto rosa, t’inventavi delle storie incredibili. Storie assurde, che non sembravano per niente sogni, ma incubi, di quelli che fanno bagnare il letto di notte.
I sogni sono arrivati quando hai smesso di fare la bambina, quando hai smesso di sbarrare gli occhi nel buio in cerca di un movimento fugace nella stanza. E nei sogni c’erano sempre i boschi di betulle. Per un anno e mezzo hai fatto sempre lo stesso sogno: cerchi di fuoco, boschi di betulle e aghi di ghiaccio danzanti. Come i lupi, non sogni mai troppo.
[...]
Come i lupi abbiamo perso il gusto di cacciare. Siamo diventate donne per necessità.


Clara Nubile: Lupo
(Fazi, Roma 2007)

martedì, 23 ottobre 2007
Da Squilibri

Luc-Olivier Merson: Il lupo di Gubbio, 1877


venerdì 23 novembre 2007

Bischerate (2)



Bischerate (2)

di Roby



I turisti, a Firenze, sono -o dovrebbero essere- un male necessario. Portano -o dovrebbero portare- introiti nelle casse comunali, incassi per albergatori e ristoratori, guadagni vari a tutto il mondo di servizi connesso al grande museo all'aperto che questa città è. Da parte mia, non nascondo che nei periodi turistici di punta, tipo marzo-aprile, luglio-agosto e dicembre-gennaio, mi astengo volutamente dal percorrere le vie del centro in orari che non siano le 7,30-8 del mattino o le 22,30-23 della sera. Unica eccezione, quella mezz'oretta, poco dopo le 14, in cui sono costretta a fare il percorso inverso ufficio-casa: ed in quei pochi minuti, credetemi, può succedermi di tutto! Nello spazio di duecento metri vengo fermata almeno tre volte, nell'ordine, da: la classica giapponese minuscola con macchina digitale microscopica che mi chiede a gesti di fare una foto a lei e all'altrettanto lillipuziana sua amica; la coppia di sposini romani modello Verdone-Gerini ("Famolo strano"), che s'informa su quale sia il posto più vicino dove "se magna bbene"; la famiglia di lingua spagnola ansiosa di sapere "donde esta el David de Miguelanjelo". Ecco: le richieste di informazioni sul David sono fra le più gettonate in ogni stagione. Tutti ardono dalla voglia di raggiungere nel più breve tempo possibile la Galleria dell'Accademia in via Ricasoli, quasi all'angolo con piazza S.Marco, ignorando che -prima di poter ammirare l'originale della celebre scultura- dovranno sciropparsi almeno due ore di coda, allietata tuttavia dalla presenza di ambulanti cinesi, mediorientali e centroafricani pronti a vender loro di tutto, dalla sciarpa viola della Fiorentina alla stampa raffigurante il Canal Grande o il Colosseo (giuro: le ho viste io!)... tanto, l'importante è che siano monumenti italiani!!! Chi non ha la pazienza di far la fila può sempre contemplare la copia sistemata in Piazza Signoria, nella collocazione voluta in origine dall'autore e dal governo cittadino; oppure la versione in bronzo, che osserva con il tipico fiero cipiglio il panorama fiorentino, dall'alto dello scenografico Piazzale Michelangelo. Gli amanti del kitsch, poi, possono sbizzarrirsi nella scelta di souvenirs ispirati alla statua, fra cui spicca per lo squisito (!) buon gusto il grembiule da cucina (!!) che riproduce la porzione collo-ginocchia (!!!) dell'atletico eroe biblico, dando così all'aspirante cuoco che lo indossa l'illusione di un fisico scultoreo. E che dire della pubblicità? Il "giovane" David è stato più volte sfruttato in manifesti e spot, tanto che ultimamente le Belle Arti sono un po' più sollecite nel tutelare la sua immagine. Però, che ne dite delle sue doti di fotomodello? Bisogna ammetterlo: i jeans, su di lui, sembrano proprio modellati addosso!


giovedì 22 novembre 2007

Il sonetto


Marie Spartali Stillman: Beatrice


Il sonetto
... dal classico al fantastico

di Emilio Gauna (Giuliano)



Io pensavo che scrivere sonetti fosse una cosa difficile, roba da grandi poeti: Dante o Petrarca, per intenderci.

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand'ella altrui saluta
ch'ogne lingua deven tremando muta
e li occhi no l'ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova:

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira.

(Dante Alighieri, La vita nuova)


Poi, qualche anno fa, ho incontrato sul giornale, per puro caso, questo sonetto di Roberto Piumini (nostro contemporaneo):

Sonetto nuovo, fa' come un gatto:
saltale in grembo molto dolcemente,
così garbato che non senta niente,
tanto leggero che non senta affatto.

Non la svegliare con male di graffi
o il caldo e vellutoso strofinio,
o qualche piagnistoso miagolio:
neppure col solletico dei baffi.

Sfiora soltanto con la tua presenza
la calma del suo corpo sognatore:
levale solo il sogno dell'assenza.

Appoggiati, poesia, quieta bestiola,
alla sua mente avvolta nel sopore:
levale il sogno di essere sola.
(Roberto Piumini, “L'amore in forma chiusa “)


E' un sonetto molto bello, e Piumini è quasi bravo come Dante. Ma è anche scritto in un linguaggio semplice e comprensibile, e fa venire voglia di leggerne altri, e magari di scriverne. Io ho cominciato con questo:

Là sulla pieve barocca di Socco
cupo suonava un lamento, un rintocco;
cento cavalli correvano al trotto
poi si fermavan frementi di botto.

Dei cavalieri scendevano armati:
già tutti quanti s'eran celati,
non minacciavano niente di buono...
( sordo e lontano rombava il tuono ).

Socco è frazione di Fino Mornasco;
e non v'è pieve barocca, lo ammetto.
Non vi correvano cavalli al trotto,

e tutto è quiete quassù nel comasco.
Era un mio sogno, uno scherzo, una fola:
provaci tu, se sai far da sola.


Socco non fa comune: è una frazione di Fino Mornasco (Como), e la potete incontrare, venendo da Milano sulla Statale dei Giovi, poco dopo Cermenate. E' una frazione piuttosto piccola, e se non fate attenzione rischiate di non vederla; ma lì abitano delle persone a cui voglio molto bene, ed è per questo che ci sono affezionato.
6 dicembre 2003

Pubblicato anche su Arengario

Barocci: La Madonna del gatto (1574-75)
Londra, National Gallery


martedì 20 novembre 2007

La sala XXVIII di Brera, a Milano


La sala XXVIII di Brera negli anni '50


La sala XXVIII di Brera, a Milano

di Oyrad


Come se fosse una casella disegnata sul tabellone di un gioco dell’ oca, dove si continua a ritornare, per premio o penitenza, nel bel mezzo di una partita, la sala XXVIII della Pinacoteca di Brera è là, a Milano, ad aspettare paziente il mio ritorno. Il visitatore che arriva sulla soglia della sala ha dovuto lasciare dietro di sè, forse a malincuore, sulle pareti dove giacciono immobili, come ali di farfalle inchiodate ai muri, molti capolavori del Quattrocento e del Cinquecento: e attraversando la sala a grandi passi, quasi di corsa, per raggiungere il prima possibile “La cena in Emmaus” di Caravaggio, se non si guarda indietro, può facilmente non accorgersi del “Martirio di San Vitale” di Federico Barocci, che splende, pallido e lunare, alle sue spalle.

Il Barocci è un pittore manierista che amo, e che pur amando, conosco poco: non ho mai neppure sfogliato un buon libro a lui dedicato, non ho mai incontrato un programma d’ esame che mi abbia costretto a conoscerlo meglio, come ho invece fatto per Foppa o per Mantegna. Di lui mi resta in mente solo qualche ricucitura di trafiletti da manuale, sui quali ripassavo più volte per ripristinare, come nell’ hard-disk bacato di un PC obsoleto, il ricordo della sua biografia, vita, morte e opere, poco prima degli esami di storia dell’arte.

Al di là di queste poce cose, nient’ altro. Invano potrei provare a domare quelle brutte bestie di cataloghi e libri d’ arte che tengo in feroce cattività, uno addosso all’ altro, sugli scaffali del corridoio, fra la letteratura e la polvere, per cercare qualcosa da dirvi su Federico Barocci.
Qui in casa c’ è solo la buona Garzantina Arte, che docile pascola libera nella mia stanza, a venirmi in aiuto. Da lei prendo un po’ di cose che possono essere utili per mettere al suo posto, nel tempo e nello spazio, questo delizioso pittore. Ecco qua:

“Barocci Federico o F. Fiori detto il Baroccio (Urbino 1535-1612) pittore italiano. A Roma dal 1561 al 1563 partecipò al rinnovamento della tradizione raffaellesca che faceva capo ai marchigiani attivi nella capitale, in particolare a T. Zuccari, come dimostra la brillante decorazione del casino di Pio IV. A Urbino, dove si ritirò nel 1563, lasciò varie opere che (probabilmente in seguito a un viaggio a Parma tra il 1555 e il 1557) risentono della pittura del Correggio."

"Fra il 1568 e il 1569, a Perugia, avviò un manierismo fatto di effetti evanescenti, di colori sfumati e di composizioni affollate e movimentate, che per molti versi prelude al barocco e presenta analogie con la pittura riformata dei toscani. […] Di lì a poco eseguì la fondamentale «Madonna del Popolo»(1575-1579), già ad Arezzo e ora agli Uffizi…”

E la “Madonna del Popolo” quanto mi piace, mentre, allargando le braccia, si rivolge a Gesù per dirgli “Figlio mio, cosa faccio con tutta questa gente che vuol salire ?”.
“Massì, Madre mia, lasciali venir su… tanto c’è posto…” bonariamente bofonchia Gesù nel bel mezzo di tutto quel giallo canarino che cinguetta nel cielo.

Federico Barocci "La Madonna del Popolo"Firenze Uffizi

Al centro della sala XXVIII giacciono aperte, come vecchie sedie pieghevoli da star del cinema, alcune savonarole, dove spesso corro a sedermi, appena entrato, per ritrovarmi davanti al “Martirio di San Vitale”: e ogni volta, lì seduto, mi par di assistere, nel dipinto, a un’ eclissi lattea che screma sui tizzoni, ancora ardenti di rosso, di giallo e d'azzurro, dei colori. Improvvisamente non c’è più luce, non c’è più ombra, e nel dipinto restano, ormai sole, solo trasparenze e opacità. E come se fosse l’ ultimo orlo d’ acqua di un mare calmo che si spinge, fino a me, a inumidirmi i piedi, ogni volta che sono seduto lì, il mondo, chiuso fuori dalla sala, arriva appena a sfiorarmi.

La grande sala diventa un bozzolo ovattato di seta, e il dipinto di Barocci è una immobile crisalide, con le pallide ali ancora ripiegate, l’ una sull’ altra. Forse un giorno potrei entrare nella sala, e nel voltarmi, non trovarlo più : al suo posto ci potrebbe essere un cartellino spiegazzato, infilzato al muro con uno spillo, sul quale poter leggere “Il Martirio di San Vitale è in mostra”. E allora, sulla parete, al suo posto, resterà un rettangolo di parete chiara, dai bordi orlati di un alone nero, a ricordare la sua presenza, con al centro il piccolo cartellino bianco, spiegazzato, e forse scritto a penna : e io, in quel momento, saprò che di certo ritornerà, ma nonostante questo mi piacerà sedermi ancora sulla solita savonarola, chiudere gli occhi, e poter immaginare che una volta altrove, fuori dalle pareti di quella sala ovattata, il dipinto di Barocci avrà finalmente spalancato le sue ali, irrorandole di colore nella luce, per volare via, per non tornare mai più. Per non tornare e per non morire, nel pallore di quella sala, sulle crude pareti di Brera, come è accaduto a tanti altri capolavori.
(giovedì, 15 febbraio 2007)

Federico Barocci "Il Martirio di San Vitale",
Milano, Pinacoteca di Brera

Da Il blog di Oyrad

sabato 17 novembre 2007

Bischerate (1)


Il Duomo di Firenze: la strada in ombra sulla destra è via dell'Oriuolo


Bischerate (1)

di Roby



Malgrado mi ritrovi spesso a rimpiangere scelte non fatte, errori commessi e sogni abbandonati, non sono pochi - a conti fatti - i motivi per cui devo ritenermi fortunata: uno di questi, e non certo l'ultimo, è quello di essere nata e di abitare a Firenze.
In realtà, non sono assolutamente una fiorentina D.O.C., anzi: i miei nonni erano metà romani, metà sardi, mio padre ha messo piede in questa città solo a vent'anni e mia madre ci è nata "per caso".
Lo spirito arguto e quasi cattivo dei toscani, quindi, non è connaturato al mio carattere, anche se, vivendoci in mezzo, l'ho in parte assorbito... specialmente da quando ho smesso di comprare l'acqua minerale in bottiglie e bevo direttamente dalla cannella...
Vivere a Firenze ha i suoi pro e i suoi contro, così come probabilmente avviene in milioni di altri luoghi al mondo.
Io, però, dei pro e dei contro altrui so molto poco, per cui posso parlare solo dei miei: confidando, naturalmente, nel trovare qualcuno tanto paziente da ascoltarmi.
Un vantaggio indiscusso, abitando non lontano da porta S. Frediano e lavorando invece presso la cupola del Brunelleschi, è quello di vedere trasformato il percorso in autobus casa-ufficio e ufficio-casa in un tour monumentale della città, che si snoda ogni giorno attraverso la pittoresca strettoia delle stradine d'oltrarno per poi sbucare sui lungarni, attraversare il ponte a S. Trìnita (non Trinità!), sfiorare le vetrine di lusso di via Tornabuoni, salutare il campanile di Giotto ed imboccare infine via dell'Oriuolo. Dove, quasi ogni mattina, non posso fare a meno di alzare lo sguardo verso la targa apposta all'angolo con piazza del Duomo, anche se già so quel che c'è scritto: "Canto dei Bischeri". Ora, il termine bìschero, "ingenuo", "scemo" - prima confinato entro le mura fiorentine - grazie a Benigni, Pieraccioni e Panariello è divenuto ormai familiare anche a lombardi, romagnoli, romani e siculi: ma l'origine di tale accezione bonariamente negativa sta proprio qui, alla cantonata di questa strada.
Qui sorgevano, nel '300, gli stabili di proprietà della ricca famiglia omonima, interessati dalle espropriazioni dell'Opera del Duomo che proprio in quegli anni era in costruzione. L'Opera offrì ai Bischeri una bella somma per la vendita degli immobili, ma loro rifiutarono, tirandola per le lunghe nella speranza di alzare il prezzo. Il tira e molla andò avanti per un po', finchè un incendio pose fine alla questione: adesso il terreno per il Duomo era libero, e la famiglia che voleva troppo si ritrovava a non stringer nulla, come dice il proverbio. Se non quell'appellativo, modellato sul suo cognome, che ne fa ancor oggi un casato ironicamente noto in tutt'Italia.

Via dell'Oriuolo: il Canto dei Bischeri è sulla sinistra


giovedì 15 novembre 2007

Una vecchia foto




Una vecchia foto

di Clelia Mazzini



Facendo un giro nella parte inabitata della casa, in un vecchio cassettone (ricoperto come tutto l'altro mobilio da un telo protettivo), ritrovo una vecchia foto di una parente ignota (forse una zia di mia madre, ma potrebbe essere anche una cugina di mio padre). E' vestita fuori moda (se sono riuscita a identificare bene l'epoca dai pochi indizi nella fotografia). Ha un berretto sformato, la sigaretta nella mano sinistra e un po' di fumo che le svolazza sopra l'occhio destro. Ha una bella faccia moresca mentre il gelso selvatico fiorito alle sue spalle mi indica senza dubbi l'epoca dello scatto: la tarda primavera.
I suoi occhi penetrano nel niente che sovrasta la campagna: non guardano lontano, non guardano vicino; guardano e basta, mentre la mente pare sgombra da inquietudini. Ha un giaccone che sembra militare, mi pare di intravedere ancora la stoffa più scura dove un tempo potevano esserci gli alamari. E' bella, e senz'altro sa di esserlo, anche se nella sua posa non c'è civetteria. Sembra lanciarmi una sfida dal tempo in cui si manifesta, sembra che voglia che io vada oltre la sua bellezza, che io entri nel "luogo reale della memoria" per colloquiare con lei, per (ri)conoscerla.
Nessuna traccia scritta dietro, nessuna data. Solo indizi, vaghi e frammentati. I canoni del tempo sono degradabili, esiziali, spesso velenosi. Ci catapultano in leggende, non ci restituiscono che enigmi.
Lei mi guarda, io esito. Il tenue filo di contatto si rompe irrimediabilmente.
Torniamo nei nostri mondi rispettivi, nelle nostre consumate passioni.
La "materialità" della sua bellezza si richiude nello scatto illusorio di un momento, la mia "ricerca" ha il lampo sottile dell'immagine catturata.
Un respiro profondo, il cassetto richiuso, il tempo farà il suo corso e riseppellirà di sabbia fine la nostra superficiale conoscenza.

°

- Non avete una vecchia foto? -
L'altra indicò una fotografia su un tavolino al centro della stanza, senza dire una parola.
Hamida si piegò un poco per prenderla e la esaminò attentamente.
Risaliva ad anni prima e la signora vi appariva in carne e piena di vita. Guardando ora la foto ora l'originale, la donna disse decisa:
- E' esattamente come siete, sembra fatta ieri. -
Con un tremito della voce l'altra la benedisse...

Naghib Mahfuz
da Vicolo del mortaio

°

Lo ferma nello scatto
contro il mare, su questa spiaggia
ignota, i giochi sono
rosso-accesi di plastica,
gommosi, il tempo questo presente alieno
che solo la memoria
soccorre e incrina...

anche per te
il tempo farà così distanti
i giochi accesi,
sbiancheranno i colori
nella carta,
dopo,
in una persa spiaggia,
fotografano la vita
tua, remota

Umberto Piersanti
da Nel tempo che precede

22 ottobre 2007

Da Akatalepsia




mercoledì 14 novembre 2007

In cuore alle terribili città


Bernini: Apollo e Dafne (part) 1622-25
Roma, Galleria Borghese



In cuore alle terribili città
(Livre mon ami 12)

di Solimano



La differenza a mio favore fu che i miei amici conoscevano solo La pioggia nel pineto e I pastori, io conoscevo anche La sera fiesolana. A scuola, si doveva pur fare l'imbarazzante D'Annunzio, con le due prime poesie ci si toglieva l'incombenza e si passava ad altro. Ma nell'antologia c'erano anche altre poesie, e lessi La sera fiesolana, incuriosito dal titolo.
Oggi posso dire che nell'Alcyone c'è di meglio, la stessa Pioggia nel pineto sta sopra (ahimè, le classifiche!), ma La sera fiesolana aveva in quel momento tre vantaggi: permetteva di uscire dal cliché, era di facile comprensione senza la noia delle note, ed aveva dentro una musica troppo facile al mio orecchio di oggi, ma dolcissima, per come ero allora.
Fu così che comprai l'Alcyone, nella edizione BMM Biblioteca Moderna Mondadori, con la copertina giallina e i caratteri dorati dell'autore e del titolo. Tuttora la posseggo, è una specie di cimelio che stento ad aprire, perché quasi ogni pagina ha divorziato dalla precedente e dalla successiva, potrei fare del volantinaggio (che non sarebbe poi una cattiva idea...). Posseggo edizioni più recenti che dicono tutto e di più, anche troppo.
Così cominciai una lotta con Gabriele D'Annunzio che durò circa due mesi, con una serie di sconfitte e di colpi di scena.
Sconfitte iniziali, perché il nominalismo e la pomposità esistono nell'Alcyone quasi in ogni pagina, e già allora questo tipo di retorica mi infastidiva, retorica di versi e di uomo-poeta-personaggio.
Colpi di scena, perché, proprio quando pensavo di smettere, inciampavo felicemente in La Tenzone, Bocca d'Arno, Stabat nuda Aestas. Va detto che smettere un libro era allora difficile (per certuni lo è anche adesso, lo vivono come una sconfitta personale). I libri costavano, in casa ce n'erano pochi, non pareva bello da nessun punto di vista.
La strategia con l'Alcyone fu quindi di capitalizzare sul già letto, rileggendo ad alta voce ciò che avevo apprezzato, e di annusare il resto, evitando le poesie troppo lunghe e con tante maiuscole.
Il più credetti di averlo fatto: quando uno scopre Versilia, Undulna, Meriggio, Il novilunio può fregarsi le mani, e le imparai quasi tutte a memoria senza volerlo, perché leggevo e rileggevo, ma D'Annunzio con me non aveva ancora smesso.
Sfogliavo le lungaggini, mi cadeva l'occhio su qualche bel verso e finì con l'acquisizione de La morte del cervo, L'oleandro, L'otre.
Il più era fatto, non restava che leggerlo dall'inizio alla fine, l'Alcyone, perché è la storia di una estate, da giugno a settembre. Tutto, compreso il Ditirambo IV, la storia di Icaro in 650 versi. Non mi facevo piacere tutto quello che leggevo, sapevo però di far bene a leggerlo perché aumentava la mia comprensione di un poeta nativamente grande. Poi, sull'uomo D'Annunzio si possono fare tanti discorsi (condivido i più cattivi, specie dopo la visita al Vittoriale), ma non è certo un motivo per rimuovere un tale poeta dalla nostra storia, non solo italiana, ma europea.
Cosa leggo oggi come prima cosa nell'Alcyone? L'oleandro, 482 versi per cui D'Annunzio spuntò 500 lire di allora dall'editore (voleva almeno una lira a verso, aveva di queste fisime, lo spendaccione). L'oleandro è "un'ecloga marina" con una musica che non è di un solo strumento, ma di tanti: archi, fiati, anche percussioni. Più una rapsodia che una sinfonia, una rapsodia cantata dalle tre donne Erigone, Aretusa, Berenice, ognuna con la sua voce individua. Lo so che si critica la parte del mito di Apollo e Dafne, ma D'Annunzio, da moderno Ovidio, con i miti è a suo agio, per questo metto come immagini Bernini e Tiepolo alle prese con lo stesso mito. Non è la sua poesia più perfetta, ma la più vasta e trascinante. Gabriele D'Annunzio, che compose gran parte de L'oleandro nella notte del 2 agosto 1900, scrisse in una lettera che la sua ecloga sarebbe piaciuta, perché "varia, ricca, fresca". Non poteva dire meglio.

...
Caldi soffiano i vènti al bianco mare,
calde passano e lente le riviere
in cuore alle terribili città,
passano e vanno per ignoti piani,
cingono ignoti boschi: i cervi a bere
scendono ansanti nella gran caldura;
lunghi bràmiti ascoltano lontani;
bevono: in qualche tacita radura
poi fino a morte si combatterà.
O Notte, o Notte, invano tu nascondi
ne' tuoi capelli il dolce tuo nemico!
Non sono i tuoi capelli sì profondi
che non veggasi dai nostri occhi umani
fiammeggiarvi per entro il tuo piacere.
...

Tiepolo: Apollo e Dafne 1744-45 Parigi, Louvre


lunedì 12 novembre 2007

Picasso

Giuliano

Pablo Picasso, forme e colori

Pablo Ruiz y Picasso a vent'anni dipingeva come Raffaello. Un bel problema.
E' una cosa che riesce a pochi, e lui era uno di quelli;
avrebbe potuto camparci bene, ma qualcosa non lo convinceva.
E poi, più vicino a lui, c'era Seurat: e il giovane Picasso assomigliava molto a Seurat. Davvero molto, anche un po' troppo. Che fare?
Guarda Seurat, guarda i suoi dipinti, e decide che non è quella la sua strada. Quella strada lì non era più percorribile: l'aveva già scoperta qualcun altro.
E poi, come i bambini, Picasso si annoia; si mette a fare schizzi e pasticci, mostra a se stesso e al mondo tutte le sue facce, quelle visibili e quelle nascoste; e le mette tutte insieme in un dipinto solo.
E poi passa a squadernare tutto il resto del mondo, quello visibile e quello che non lo è.
Prende dunque tutto quello che aveva dentro la sua testa e lo mette giù sulla tela: ma proprio tutto, visto da tutte le parti e tutte le parti insieme.
Una specie di inventario, di planimetria della sua mente; però funzionava, gli piaceva, e presto cominciò ad interessare anche ad altri. Aveva trovato la sua strada, e divenne ricco e famoso.

Picasso: Il Pasto del Cieco, 1903 (periodo blu)

Ma c'è poco da scherzare: quello dell'originalità, della propria personalità, della propria cifra espressiva, insomma dello stile, è un problema vero per tutti gli artisti, quelli veri.
E' il problema che si trovò davanti, negli stessi anni, anche Arnold Schoenberg: Schoenberg a vent'anni componeva i Gurrelieder, la Notte trasfigurata: ma c'era già stato Mahler, e i "Canti del Castello di Gurre" sono musica meravigliosa ma a Mahler somigliano moltissimo.
Anche qui, per il pittore come per il musicista, bisognava trovare nuove strade, nuovi sentieri: una scelta scomoda ma inevitabile, se si vuole rimanere se stessi.

Pablo Picasso: La Soupe, 1902 (periodo blu)

A Picasso andò benissimo, a Schoenberg un po' meno (dal punto di vista economico, intendo), ma tutti e due hanno lasciato un segno importante nella storia del Novecento, che di loro non può proprio fare a meno.
Ma non so quanto siano stati digeriti dal pubblico, dalla gente.
La strada di Schoenberg, la dodecafonia, è affascinante ma assomiglia davvero a un sentiero di montagna di quelli ripidi, da esperti e da camminatori allenati.
Picasso è dappertutto, ma non ce ne accorgiamo quasi più: nei vestiti, nei giornali, nei cartelloni pubblicitari...
E poi la fase "astrusa" di Picasso, quella che l'ha reso famoso, tutto sommato dura poco. Picasso ha una vita lunga, e una bella mostra milanese, un paio d'anni fa, ha mostrato bene il suo percorso artistico.

Picasso: Mère et enfant (periodo blu)

Nell'ultima fase della sua vita, Picasso diventa essenziale, fa disegni e schizzi memorabili, gli basta una matita per fare meraviglie. I suoi Tori, per esempio: che sembrano quelli di Lascaux, di Altamira... E il cerchio si chiude: il grande innovatore, e i maestri nostri antenati.
Che cosa fare, dopo Picasso? Il Novecento una risposta non ce l'ha data, gli ultimi 50 anni sono stati un girare su se stessi, riproponendo le stesse cose pensando di provocare, ma senza avere il coraggio che ebbero, cent'anni fa, artisti veri come Picasso e come Schoenberg.
(31 gennaio 2005)


Pablo Picasso, Guernica, 1937
Madrid Museo Reina Sofia


domenica 11 novembre 2007

Le pareti color di crema





Le pareti color di crema

di Zena Roncada
(Colfavore delle nebbie)



Erano i peperoni, i pomodori e le cipolle, insieme all'aceto e allo zucchero, a sprigionare un'armonia così intensa che avresti volentieri intinto pane tenero nell'aria. La salsa accompagnava i pasti e si alternava alla fragranza dolce del finocchio tagliato sottile e ben assortito al rosa del tonno.

"Quando mi sposo, a nozze io voglio solo finocchio e tonno".
Buono, lasciava nel piatto una memoria generosa d'olio, insaporito di fresco fresco, da assorbire con certe rosette di crosta gentile, senza fatica.

A tavola si rideva. "Gli agnolini mangerai"- si scherzava e intanto la Dina mianonna, con geometrica precisione, divideva la carne del pollo, secondo regole gerarchiche, prima gli uomini, poi i bambini e le donne.

Era importante il cibo a casa mia.

Mentre si mangiava, si favoleggiava dei tempi in cui la Dina teneva la trattoria nel paese piccolo.

Venivano i viaggiatori che apposta allungavano la strada pur di godere della sua pasta ben condita e della sua cacciatora, e quelli senza un soldo, che mangiavano e facevano allungare il conto, e qualche volta si portavano un amico. Ma una volta era venuta, per intera, anche l'orchestra del maestro Angelini, che una canzone aveva dedicato alla grazia di tanta cucina.

I ricordi scorrevano sulla tavola e il cibo prendeva altri sapori: diventava il selvatico del fagiano abbattuto con la fionda e si faceva morbido come il burro del vecchio caseificio di casa , che , rovesciato dal secchio, restava madido di piccole gocce di umore. Il burro che la nonna aveva imparato a far da sola, durante il confino in Francia del suo uomo.

Il cibo diventava il cibo di un'altra casa, di altri bambini, di altri racconti, che solo così tornavano in circolo piano piano.

Come per un moto indolente, le storie chiamavano altre storie, che non chiedevano il tepore del camino, ma sbucavano così, un po’ sudate, sulla tavola, col piacere di un uditorio senza fretta.

Quando il giro della memoria aveva già colmato la testa dei piccoli di uno sciame di nomi senza volto, allora miononno e mianonna finivano col parlare l'uno per l'altra, stretti nel loro cerchio di companatico. "Era brava la Dina. Sempre vista a lavorare, da subito. Però quel giorno, con la veste a quadrettini, è pur venuta nella camera buia sul dietro……”

Infuocava mianonna e zittiva il marito con burbere, agrodolci occhiate.

I cibi, in casa mia, erano flauti di ricordi. Invadevano persino i colori, che ne prendevano le sfumature.


Mentre le donne di casa assaporavano la morbidezza di certe stoffe che le clienti di miazia portavano in rotoli o pezze, la Dina sentenziava col suo vocabolario strano.

"Bello questo color crème e questo nocciola, più bello del burro della camicetta della Silvana. No, no, ‘sto giallo è troppo zabaione. Ma che sfacciato ‘sto sangue di bue, va bene solo per le bistecche"…….

I colori si portavano dietro l'ombra, il fantasma dei cibi e il mondo, stoffa o muro, capello o fiore si caricava di una pastosità di fiaba, di pareti di marzapane e di tetti di biscotto.

Così le cose finivano per non essere cose: rivestite di panna, burro o nocciola, di zabaione o di carta da zucchero, si facevano dolci e belle, quinte per giochi di fantasia, in un mondo che si poteva annusare e gustare.

Quando vennero i pittori per la cucina e le donne decisero il color di crema , misi un dito dentro il secchio dove il colore schiumava di latte e, mosso da un bastone, diceva consistenze impensate. Assaggiai, ma non c'era sapore di vaniglia, solo un salato freddo. E un odore di pulito di calce, che non compensava la bocca amara.
[lunedì, 18 giugno 2007
]

Da Pesci di nebbia



sabato 10 novembre 2007

Lettere d'amore


Fragonard: La lettera d'amore


Lettere d’amore

di Primo Casalini



Las cinco de la tarde.
Nella caserma di Roma, alle cinque del pomeriggio, il sergente maggiore distribuiva la posta. Eravamo in venti, quasi tutti ingegneri. Cinque di noi erano romani, quindi niente posta per loro, salvo eccezioni.
Le lettere erano delle morose lontane: Milano, Torino, Padova, Mantova, Bologna, Firenze, Palermo. Ogni ragazza aveva una sua scelta di formato e di colore, e qualcuno già riconosceva la busta, qualcuno no, e gestiva l’ansia meglio che poteva.
Il mio personale metodo era semplice, molto da ingegnere: scrivevo io, la lettera arrivava a lei, mi scriveva, arrivava la lettera sua, riscrivevo io. Logico, ma non tutti facevano così, Donato, ad esempio, scriveva tutti i giorni, e ogni giorno riceveva, altri seguivano l’onda degli alti e bassi del rapporto, potevano arrivare due lettere di fila, potevano passare dieci giorni fra l’una e l’altra. Nei casi di puntiglio orgoglioso, dopo una licenza di quarantotto ore andata male, le lettere si incontravano a metà strada, sei, sette giorni dopo la litigata, credo si somigliassero anche nel contenuto, metà amore eterno metà risentimento indomito.
A Guido, che non aveva la morosa, cominciarono ad arrivare lettere, una, due, tre, fra la meraviglia di tutti. Al quarto giorno aprì la busta e mostrò la lettera, un foglio bianco. Se le era spedite da solo per sfotterci, ed aveva ragione lui: competition is competition, anche nella quantità di lettere.
Le calligrafie delle ragazze erano quasi tutte tondeggianti, gli accenti volavano. Dopo la distribuzione restavamo in cortile e ognuno, in una sua area di rispetto, apriva la lettera e se la leggeva.
Le ragazze usavano la stilografica, le lettere di molte erano lievemente profumate, un di più sull’odore d’inchiostro, già gradevole di suo.
Era l’estremo opposto rispetto alla grevità odorosa degli scostumati calendarietti da barbiere, che oggi parrebbero casti. Dimenticavamo il prevalente odoraccio delle uniformi, generatrici indefesse di pruriti di ogni tipo, e il berretto, appiccicoso di sudore e di forfora.
La lettura della lettera era come lo struscio nel corso, mano nella mano, ognuno nella sua città.
La sera, alcuni di noi rinunciavano alla libera uscita e si appartavano su un tavolinuccio poco illuminato, per rispondere all’amata, l’unico rumore era quello del pennino della stilografica sulla carta, a odore d’inchiostro freschissimo.
Quelle lettere le ho conservate. Anni fa, in un raptus tecnologico, le ho inserite nelle cartelline trasparenti di un raccoglitore, mischiate nella giusta sequenza di date.
Non le leggo mai, so dove stanno.

P.S. E' la Novelletta degli Odori numero 9 delle 54 che ho scritto.

Federico Andreotti: La lettera d'amore

giovedì 8 novembre 2007

Le lettere smarrite


Jan Vermeer, Fantesca che porge una lettera


Le lettere smarrite

Alexis Diaz Pimienta



Per favore, non recuperate le lettere smarrite.
Lasciate la busta accanto al tronco dell’albero,
sotto un’anonima pietra, o a rotolare nei giardini.
Ci sono lettere che si scrivono perché non arrivino
perché dall’altro lato della voce diffidino di tutto,
perché esista una seconda lettera, esplicita e inutile.
Ciò accade con l’assenso di tutti,
con soprassalti premeditati e complicità.
Sono mesi, anni, di matematica innocenza.
In quelle lettere si confessava tutto,
si annunciavano pericoli che poi la pioggia ha ammorbidito;
in quelle lettere c’erano poscritti che premonivano
sul fatto che sarebbero andate smarrite.
La loro vera destinazione era il silenzio,
le erbacce al bordo dei letti,
le ragnatele sui davanzali,
le nuvole sul volto.
Definitivamente,
dall’altro lato della voce non l’aspettavano.
Lasciatela accanto all’albero,
sotto un’anonima pietra,
a rotolare nella memoria del felice mittente.

da Viali di cristallo

Jan Vermeer: Donna vestita di azzurro che legge una lettera

mercoledì 7 novembre 2007

L'innamoramento scrittorio


Metsu: La scrittura della lettera (part) 1662-65, Dublino


L'innamoramento scrittorio

di mazapegul


Anch' io ebbi un innamoramento scrittorio, tanti anni fa.
Alla ragazza spedivo lettere quasi ogni giorno.
A volte d'istinto, più spesso meditando con machiavellica disperazione l'effetto che avrebbero avuto, e che non ebbero mai.
Lei le leggeva con piacere, era lusingata, ne aspettava sempre di nuove; mentre io consumavo me stesso e svariate risme di carta.
Un giorno scrissi una lettera ultimativa, me ne pentii immediatamente quanto vilmente (non essendo in grado di sostenere i miei stessi ultimatum, e avendo il terrore di riceverne uno da lei), ma avevo l'urgenza di spedirla comunque.
Escogitai allora questo astutissimo stratagemma.
Avrei bruciato la lettera e spedito le ceneri, raggiungendo così tutta una serie di obiettivi:
1) avrei spedito la lettera ultimativa; ma
2) solo io avrei saputo che era tale e
3) lei sarebbe stata assai impressionata dalla disperazione del gesto, commuovendosi e
4) forse addirittura temendo per la mia salute.
La mia posizione sul campo non poteva che riuscirne rafforzata.
Il giorno dopo la incontrai tutta allegra e mi disse:
"Ieri ho ricevuto la tua busta, l'ho messa in tasca e per tutto il giorno ho atteso il momento di leggerla, come con le altre, in quiete e solitudine. Finita la cena sono andata in camera mia, mi son seduta sul letto, ho aperto la busta e una nuvoletta di cenere ha ricoperto il cuscino BIANCO, il letto BIANCO e il pavimento della stanza, di LUCIDO PARQUET. Ho passato tutta la notte a pulire, sperando che mia mamma non entrasse, perché non avrei proprio saputo cosa dirle.
La prossima volta, avvisami.
Comunque, mi sono molto divertita. Mi hai sorpreso, come sempre."


Rubens: Venus Frigida (part) 1614 Anversa

lunedì 5 novembre 2007

L'amore nei Baci Perugina


Baldung Grien: Aristotele e Fillide (1513)


L'amore nei Baci Perugina

di Primo Casalini


Una mia amica asseriva che le lettere d'amore si scrivono alla sera e si imbucano subito, perché se si aspetta la mattina e le si rilegge, ci si vergogna di quello che si è scritto e non le si spedisce più. Facendo male, fra l'altro, perché l'amata lontana non è interessata ad una analisi psico-linguistica, ma proprio a quelle frasette zoppicanti e scoppiettanti, come un legno verde in un camino di buon tiraggio.
Ma oggi, la disponibilità della rete permette delle indagini approfondite. Una delle fonti più importanti è la collazione dei messaggi dei Baci Perugina. Esistono diversi siti che contengono abstracts o addirittura l'opera omnia, con varianti, lectio facilior, nuove proposte ed il doveroso armamentario critico.Per i miei scopi, è bastato estrarre alcune decine di questi messaggi, perché la ripetitività e la ridondanza sono notevoli, ma anche perché ho grigliato del tutto (o quasi) gli anonimi. Mi viene infatti il sospetto che molti dei messaggi cosiddetti anonimi siano stati lì per lì inventati dal grafico o dall'imballatore in funzione della particolare situazione di quel loro giorno d'amore. Io, almeno, avrei fatto così: una specie di messaggio nella bottiglia che da qualche parte comunque arriva, ed arriva a segno: è più probabile che venga letto il messaggio che mangiato il cioccolatino. Difatti, tutti li leggiamo.


Una prima categoria è quella del sublime generico:

Nulla è difficile per chi ama. (Cicerone)
Il tuo amore è per me come le stelle del mattino e della sera, tramonta dopo il sole e prima del sole risorge. (Goethe)
Un mondo senz'amore, che sarebbe per il nostro cuore? La stessa cosa che una lanterna magica senza luce. (Goethe)
Amore! Ecco un volume in una parola, un oceano in una lacrima, un turbine in un sospiro, un millennio in un secondo. (Tupper)
Ma vederla fu amarla, amare solo lei, e amare per sempre. (R.Burns)
Non esiste rimedio all'amore se non amare di più. (Henry D.Thoreau)
Coloro che vivono d'amore vivono d'eterno. (Emile Verhaeren)

Chi sia Tupper, non lo so, forse un finanziere della Nuova Scozia; certamente, dal tono, era uno che coi soldi aveva a che fare. Il sublime generico trova però la sua migliore espressione in Victor Hugo, che, esule a Guernesey, scriveva tre lettere al giorno all'amata Juliette, che abitava al piano di sopra o, più probabilmente, al piano di sotto. Forse Juliette lo chiamava ogni tanto nella tromba delle scale, e Victor rispondeva: “Non posso! Ti sto scrivendo”. Ma le frasi di Hugo hanno un'ampiezza che si presta meglio alla scatola intera che al singolo cioccolatino. Nei “Demoni” di Dostoevskij, c'è lo strano rapporto fra Varvara Petrovna e Stepàn Trofimovic in cui succede qualcosa di analogo, raccontato per molte pagine da Dostoevskij con la finezza umoristica (sì, proprio umoristica) di cui ci si è finalmente accorti, e che non manca neppure in “Delitto e Castigo” e nei “Fratelli Karamazow”. Solo che Stepàn scrive per timore: non osa affrontare Varvara, che “era una donna classica, una donna-mecenate, che agiva unicamente in vista di considerazioni superiori”. Succede anche negli affari, questo nascondersi dietro lo scritto per evitare l'orale. Il sublime generico è la scorciatoia verso l'assoluto, che sta dalle parti dell'eterno, del più e dell'alto, senza pagare dazio alla persona concreta ed alla quotidianità dei fatterelli. Non esistono giorni comuni: sono tutti anniversari. Questa categoria è largamente presente nella collazione dei baci: piace genericamente a tutti e non crea grattacapi.


Poi c'è la categoria che si potrebbe chiamare l'amour, mode d'emploi:

Amore è credula creatura. (Ovidio)
Amore e tosse non si possono nascondere. (Ovidio)
Che diano o che rifiutino, godono tuttavia d'esser richieste. (Ovidio)
Giove, dall'alto, ride dei falsi giuramenti degli amanti. (Ovidio)
Sii amabile, se vuoi essere amato. (Ovidio)
Amare è scegliere, baciare è la sigla della scelta. (Anonimo)
L'amore è un potere troppo forte perché lo si possa vincere altrimenti che con la fuga. (Cervantes)
Il colpo di fulmine è la cosa che fa guadagnare più tempo. (Arnoul)
La felicità in amore è come una palla che noi rincorriamo quando rotola, e che spingiamo via col piede quando si ferma. (Madame de Puissieux)
Bisogna scegliere tra amare le donne e conoscerle: non c'è via di mezzo. (Chamfort)
La luna e l'amore, quando non crescono calano. (Proverbio cinese)
Un bacio è come bere acqua salata: bevi e la tua sete aumenterà. (Proverbio cinese)
Noi mettiamo l'infinito nell'amore: le donne non fanno questo sbaglio. (Anatole France)
Un bacio legittimo non vale mai un bacio rubato. (Maupassant)

Ovidio, il suo mode d'emploi, l'ha pagato caro, ed anche Cervantes e Maupassant. Di Madame de Puissieux so che compare abbastanza in Google, sempre al seguito della sua geniale metafora calcistica. I cinesi confermano la praticità confuciana: sembra che parlino dell'andamento dei titoli in borsa. Anatole France dà voce aforistica ad un millenario luogo comune.

Durer: Il sogno del dottore (1498)


Seguono i permissivi:

Ama e fai quel che vuoi. (Sant' Agostino)
Amate, amate, tutto il resto è nulla. (La Fontaine)
I ragazzi che si amano si baciano in piedi...nell'abbagliante chiarezza del loro primo amore. (Prevert)
Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l'ho scordato. (Walt Whitman)


Sono pochissimi, i permissivi, nei messaggi dei baci. E sia su Agostino che su Whitman si può osservare che è un permissivisimo che tende al sublime generico. Ma se riusciamo a stare coi piedi per terra senza involarci verso il di più, l'alto e l'eterno, il fai quello che vuoi ci soddisfa. Però devi amare, se no nisba. Perché così poca permissività, nei baci? Forse è l'occasione in cui vengono regalati che li rende così poco propensi ad una sia pur vaga istigazione a delinquere. Sono baci generalmente non adulterini, dati davanti a Dio ed alle donne.


Gli statistici:

Tutti gli amori dell'uomo, ancorchè diversi, hanno lo stesso motore. (Vittorio Alfieri)
Vorrei sapere quanti baci fur dati dal dì che i baci furono inventati. (Iginio Ugo Tarchetti)
"Che cosa sarebbe l'umanità, signore, senza la donna?" "Sarebbe scarsa, signore, terribilmente scarsa". (Mark Twain)
Non c'è amore sprecato. (Cervantes)

Vittorio Alfieri era piemontese, per chi l'avesse scordato. Mentre Tarchetti soffre di curiosità impropria. Me lo vedo, proprio sul più bello, uscirsene con una frase del genere. Cervantes, nella frase precedente tentava la fuga, ma evidentemente si faceva riacchiappare. Il catalogo di Don Giovanni che Leporello mostra alla affranta Donna Elvira è il risvolto contabile di questo approccio: 640 in Italia, 231 in Lamagna, 100 in Francia, 91 in Turchia, 1003 in Ispagna. Ma perché così poche in Francia? Rispetto anche alla Lamagna, ma persino rispetto alle 91 in Turchia, considerato il viaggio ed il rischio. Che si tratti del vasto harem di un pascià compiacente?


I narcisisti, anzi, il narcisista:

Amare se stessi è l'inizio di un idillio che dura una vita. (Oscar Wilde)
Oh... Tutti abbiamo bisogno di amici, alle volte. (Oscar Wilde)

Ma le frasi più stuzzicose di Wilde non ci sono, per il solito motivo. Occorrerebbe mutare brand: profumi al posto di cioccolatini, ad esempio.

Schongauer: Vergine folle (circa 1480)


Quelli delle gloriose cicatrici:

Amare è gioire, mentre crediamo di gioire solo se siamo amati. (Aristotele)
Il cuore non ha rughe. (Madame de Sevignè)
L'amore è lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore. (M.Proust)
Lasciarsi, è tutto quanto sappiamo del paradiso, e quanto ci basta dell'inferno. (Emily Dickinson)
Amore, amore, che schiavitù l'amore. (La Fontaine)
Amore non è guardarsi a vicenda; è guardare insieme nella stessa direzione. (Antoine de Saint-Exupery)

A differenza di quelli del sublime generico, in questi si avverte che non dimenticano la persona, che la ritengono più importante dei loro pensamenti, che hanno accettato il rischio di essere feriti perché ne valeva la pena, comunque andasse. La Fontaine si tiene bene strette le catene della sua schiavitù, perché tutto il resto è nulla. Posso dirlo? Questi mi piacciono, e tanto. Anche Aristotele che si porta a spasso sulla schiena la trionfante e nuda Phyllis con briglia e pungolo, come in una xilografia di Hans Baldung Grien del 1513.


I golosi:

Che faccenda maledettamente pazza è l'amore. (Schikaneder)
Vogliamo godere l'amore: senza di lui non possiamo vivere. (Schikaneder)
Con te conversando, dimentico ogni tempo e le stagioni e i loro mutamenti: tutte mi piacciono allo stesso modo. (Milton)

Schikaneder è l'impresario teatrale, autore del libretto del Flauto magico. Parla attraverso Papageno, che ha di fronte Papagena. Milton, anglosassone, è di una golosità più in punta di forchetta, ma che dura nel tempo. Pochini anche i golosi, come si vede. Qualche Cerbero li ha tenuti lontano. E continuerà a mancare, malgrado il diffondersi della conoscenza dell'inglese, la bandiera della golosità in amore , quella alzata all'inizio del '600 dal Reverendo John Donne:

Licence my roavings hands, and let them go,
Behind, before, above, between, below.


Quelli della tranquilla passione:

Perché l'amavo? Perché era lei; perché ero io (Montaigne)
Molti uomini vivono felici senza saperlo. (Luc de Clapiers de Vauvenargues)
Il vero amore è come l'apparizione degli spiriti: tutti ne parlano, quasi nessuno li ha visti. (Rochefoucauld)
Si perdona finchè si ama. (Rochefoucauld)
Un uomo onesto può essere innamorato come un pazzo, ma non come uno sciocco. (Rochefoucauld)
Nulla rende così amabili come il credersi amati. (Pierre Marivaux)
L'amore è la saggezza dello sciocco e la follia del saggio. (Samuel Johnson)
Le persone felici in amore hanno l'aria profondamente intenta. (Stendhal)

Sono disattaccati, non distaccati. Hanno preso le loro contromisure. Sanno sorridere, perché conoscono la follia e la sciocchezza. Ci sono passati attraverso, e forse rimpiangono l'inconsapevolezza originaria, ma non al punto da ricadere negli stessi errori. Poi c'è uno, uno solo, che ammette di non capirci niente, con uno strano tono trionfante:

Amore, impossibile a definirsi!

E' Giacomo Casanova, veneziano.


Conclusione. Una persona che conosco aveva un innamorato facondo che abitava in un'altra città. Quasi ogni giorno, quindi, perveniva una letterona. La persona aveva il suo daffare sul lavoro, e leggere quelle quattro facciate al giorno non aveva più il gusto della sorpresa e della novità. Però, l'amore era ricambiato, anche se con minore facondia. Ed allora, si metteva la lettera appena giunta e non ancora aperta in una tasca (esistono ancora, le tasche?). Ogni tanto, muovendosi durante il suo lavoro, avvertiva fisicamente il lieve ingombro della letterona, e le veniva da sorridere dalla contentezza. Poi, la sera, adempiva al giusto dovere di un'attenta lettura. Ma per lei il mezzo era divenuto il vero messaggio, ed in quella petite perception trovava ogni giorno la conferma di essere amata. Come il Monsieur Jourdain di Molière scriveva in prosa senza saperlo, così quella persona condivideva i "Frammenti di un discorso amoroso" di Roland Barthes prima che fossero scritti. L'episodio che racconto è del 1966.

P.S. Di siti con la collazione dei Baci Perugina ce ne sono millanta, proprio come i baci di Catullo. Le immagini è bene vederle grandi, serve un click sopra.

Pubblicato su Arengario il 30 maggio 2003, rivisto per l'occasione

Durer: La passeggiata d'amore (1498)

sabato 3 novembre 2007

Tutte le lettere d’amore


Emile Munier: La lettre


Tutte le lettere d’amore

di Fernando Pessoa



Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.
Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre,
ridicole.
Le lettere d’amore, se c’è l’amore,
devono essere
ridicole.
Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono
ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d’amore
ridicole.
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere
a essere ridicoli.
(Tutte le parole sdrucciole,
come tutti i sentimenti sdruccioli,
sono naturalmente ridicole).


Stanchezza

Quello che c'è in me è soprattutto stanchezza
non di questo o di quello
e neppure di tutto o di niente:
stanchezza semplicemente, in sé,
stanchezza.

La sottigliezza delle sensazioni inutili,
le violente passioni per nulla,
gli amori intensi per ciò che si suppone in qualcuno, tutte queste cose -
queste e cio' che manca in esse eternamente -
tutto ciò produce stanchezza,
questa stanchezza,
stanchezza.

C'è senza dubbio chi ama l'infinito,
c'è senza dubbio chi desidera l'impossibile,
c'è senza dubbio chi non vuole niente -
tre tipi di idealisti, e io nessuno di questi:
perchè io amo infinitamente il finito,
perchè io desidero impossibilmente il possibile,
perchè voglio tutto, o ancora di più, se può essere,
o anche se non può essere...

E il risultato?

Per loro la vita vissuta o sognata,
per loro il sogno sognato o vissuto,
per loro la media fra tutto e niente, cioè la vita...
Per me solo una grande, una profonda,
e, ah, con quale felicità, infeconda stanchezza,
una supremissima stanchezza,
issima, issima, issima,
stanchezza...


Contemplo il lago silenzioso

Contemplo il lago silenzioso
che la brezza fa rabbrividire.
Non so se penso a tutto
o se tutto mi dimentica.
Nulla il lago mi dice
né la brezza cullandolo.
Non so se sono felice
né se desidero esserlo.
Tremuli solchi sorridono
sull'acqua addormentata.
Perché ho fatto dei sogni
la mia unica vita?


Il violinista pazzo

Non fluì dalla strada del nord
né dalla via del sud
la sua musica selvaggia per la prima volta
nel villaggio quel giorno.

Egli apparve all' improvviso nel sentiero,
tutti uscirono ad ascoltarlo,
all' improvviso se ne andò, e invano
sperarono di rivederlo.

La sua strana musica infuse
in ogni cuore un desiderio di libertà.
Non era una melodia,
e neppure una non melodia.

In un luogo molto lontano,
in un luogo assai remoto,
costretti a vivere, essi
sentirono una risposta a questo suono.

Risposta a quel desiderio
che ognuno ha nel proprio seno,
il senso perduto che appartiene
alla ricerca dimenticata.

La sposa felice capì
d' essere malmaritata,
L' appassionato e contento amante
si stancò di amare ancora,

la fanciulla e il ragazzo furono felici
d' aver solo sognato,
i cuori solitari che erano tristi
si sentirono meno soli in qualche luogo.

In ogni anima sbocciava il fiore
che al tatto lascia polvere senza terra,
la prima ora dell' anima gemella,
quella parte che ci completa,

l' ombra che viene a benedire
dalle inespresse profondità lambite
la luminosa inquietudine
migliore del riposo.

Così come venne andò via.
Lo sentirono come un mezzo-essere.
Poi, dolcemente, si confuse
con il silenzio e il ricordo.

Il sonno lasciò di nuovo il loro riso,
morì la loro estatica speranza,
e poco dopo dimenticarono
che era passato.

Tuttavia, quando la tristezza di vivere,
poiché la vita non è voluta,
ritorna nell' ora dei sogni,
col senso della sua freddezza,

improvvisamente ciascuno ricorda -
risplendente come la luna nuova
dove il sogno-vita diventa cenere -
la melodia del violinista pazzo


(Da Il guardiano di greggi - Poesie di Alberto Caeiro)

Rientro e chiudo la finestra.
Mi portano il lume e mi danno la buona notte.
E la mia voce allegra dà la buona notte.
Magari la mia vita fosse sempre questo:
il giorno pieno di sole, o addolcito dalla pioggia,
o tempestoso come se finisse il Mondo,
la sera mite e la gente che passa
guarda con interesse dalla finestra,
l'ultimo sguardo amico alla quiete delle piante,
e poi, chiusa la finestra, il lume acceso,
senza leggere niente, senza pensare a niente, senza neanche dormire,
sentire la vita scorrere in me come un fiume nel suo letto.
E fuori un grande silenzio, come un dio che dorme.


Fernando António Nogueira Pessoa