Il Gattopardo (1963) di Luchino ViscontiIncipit siciliani a cura di Solimano E' un esercizio che avevo già fatto alcuni anni fa ma l'idea di rifarlo in modo diverso mi è venuta il 13 gennaio, mentre scrivevo il post sul film
"Salvatore Giuliano" su
Abbracci e pop corn. Un post che mi è venuto troppo lungo e che prima o poi asciugherò, riducendolo di un terzo, perché ricordo ogni tanto quello che disse a noi a Bologna il vescovo Bettazzi, quello dello scambio di lettere con Enrico Berlinguer: "
Quando le idee sono poche le parole saranno tante". Non sempre è così, uno ha dentro di sé l'urgenza di esprimersi e si
effonde, che ci può stare, ma purtroppo si
diffonde, e va meno bene.
L'argomento era la Sicilia, e così ho scritto:
"
Non è vero, come dicono molti siciliani, che noi parliamo della Sicilia senza conoscerla. La Sicilia la conosciamo benissimo, perché, fra diversi guai, ha avuto una grande e meritata fortuna (certe cose non succedono per caso): ha avuto, nell'Ottocento e nel Novecento, una serie di notevoli scrittori, alcuni strepitosi. Siciliani che la Sicilia ce l'hanno raccontata con profondità e partecipazione. Fra breve pubblicherò sul Nonblog di Habanera una serie di incipit di scrittori siciliani, vedrete quanti sono e come scrivono".
Eccoli qua, dieci scrittori siciliani messi in ordine cronologico secondo la data di prima pubblicazione del libro di cui riporto l'incipit.
Sulla Sicilia non mi va di scrivere stando sulle generali, ometterei l'essenziale dilungandomi sui particolari, preferisco raccontare tre fatterelli realmente accaduti.
1. Stavamo viaggiando in aereo per Palermo, in una comitiva in cui ci conoscevamo tutti. Appare il monte Pellegrino e subito si sente la voce del pilota: "
Fra pochi minuti atterreremo all'aereoporto di Palermo Punta Raisi. Speriamo bene..."
Pochi mesi prima un aereo si era schiantato contro il monte, non solo, era frequente il caso di persone che prendevano l'aereo per la prima volta, con tutti i timori che oggi non ci si crederebbe perché oggi si prende come prendere un taxi (solo che il taxi costa di più); in ogni caso era la cosa meno opportuna rinfocolare le apprensioni, anche scherzandoci su. Ma soprattutto colpiva il tono con cui proferì quello
speriamo bene, di una serietà vera, quasi da tragedia greca senza nessun dramma satiresco a seguito. Solo il Walter Matthau dei tempi migliori avrebbe potuto essergli alla pari. Scoppiammo tutti a ridere di una risata non liberatoria, ma nervosa e grottesca, ecco la parola:
grottesca.
2. Da militare, faceva parte del nostro gruppo di ingegneri allievi ufficiali un siciliano, con un cognome molto noto allora ma che si ricorda anche adesso. Tutte le mattine si indignava per l'assenza del bidè,
facility non prevista nelle caserme (probabilmente l'ingegnere siciliano non sarà mai andato in Francia). Tutti gli altri abbozzavano, anche perchè generalmente non sapevano manco che fosse 'sto bidè: l'igiene aveva un lungo cammino davanti.
Però facemmo amicizia, anche se in seguito non ci siamo più visti, e qualche mese dopo la fine del servizio militare arrivò a casa mia un piccolo plico proveniente da Palermo. Conteneva un nastro registrato, adatto ai registratori in uso allora che erano grandi come comodini. Il siciliano voleva scrivermi (difatti dentro il plico c'erano tre o quattro righe sue autografe), ma gli seccava tutto l'
ambaradam, allora aveva preso il registratore e aveva dettato una lettera vocale. L'Emilia è una regione fantasiosa, ma non credo che un emiliano avrebbe mai fatto una cosa del genere.
3. Soggiorno-premio al villaggio di Brucoli, pluristellato su tutte le guide. Pagava la ditta, ed eravamo quasi cento, mariti e mogli (le coppie irregolari non erano gradite, gli americani sono disinvolti ma puritani). Dopo qualche giorno di ozio creativo ci venne voglia di guardare attorno e prendemmo una barca. A pochi chilometri dal villagio di Brucoli, che meritava tutte le stelle del firmamento, ci apparì un inferno in terra da fare impallidire Porto Marghera: una enorme raffineria con tutto il contorno di fiamme, fumo, odori. Chiedemmo ai barcaioli il come ed il perché ma a loro sembrava naturalissimo il non casto connubio: andava bene tutto mischiato, villaggio e raffineria. Non è che facessero i furbi, non vedevano dove fosse il problema.
Sugli scrittori, dirò la mia in un commento. Qui dico solo una differenza grande che noto fra Emilia e Sicilia.
A noi emiliani piace dir bene dell'Emilia, ma se qualcuno ne dice male -e succede- non ce la prendiamo: ascoltiamo magari consentendo, o sorridiamo. O ridiamo, della famosa battuta del cardinal Biffi sull'Emilia
sazia e disperata ridono ancora tutti, dalla bassa pianura alle cime degli Appennini.
Ai siciliani piace anche troppo dir male della Sicilia, ma se ne dice male qualcuno che non è siciliano non va bene, gli secca, la sentono o come una intrusione indebita o come una ferita.
Sugli incipit una cosa è certa: altro che quarta di copertina promozionale! Basterebbe mettere nella quarta di copertina l'incipit di ognuno di questi libri e il gioco sarebbe fatto: tutti alla cassa per comprare quel libro che ha una quarta di copertina così bella!
Giovanni Verga
Cavalleria rusticana (1880)
Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll'uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quella della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini. Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata.
Ma con tutto ciò Lola di massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio, ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla.
La terra trema (1948) di Luchino ViscontiFederico De RobertoI viceré (1884)
Giuseppe, dinanzi al portone, trastullava il suo bambino, cullandolo sulle braccia, mostrandogli lo scudo marmoreo infisso al sommo dell'arco, la rastrelliera inchiodata sul muro del vestibolo dove, ai tempi antichi, i lanzi del principe appendevano le alabarde, quando s'udì e crebbe rapidamente il rumore d'una carrozza arrivante a tutta carriera; e prima ancora che egli avesse il tempo di voltarsi, un legnetto sul quale pareva avesse nevicato, dalla tanta polvere, e il cui cavallo era tutto spumante di sudore, entrò nella corte con assordante fracasso. Dall'arco del secondo cortile affacciaronsi servi e famigli: Baldassarre, il maestro di casa, schiuse la vetrata della loggia del secondo piano, intanto che Salvatore Cerra precipitavasi dalla carrozzella con una lettera in mano.
"Don Salvatore?... Che c'è?... Che novità?..."
Ma quegli fece col braccio un gesto disperato e salì le scale a quattro a quattro.
Giuseppe, col bambino ancora in collo, era rimasto intontito, non comprendendo; ma sua moglie, la moglie di Baldassarre, la lavandaia, una quantità d'altri servi già circondavano la carrozzella, si segnavano udendo il cocchiere narrare, interrottamente:
"La principessa... Morta d'un colpo... Stamattina, mentre lavavo la carrozza..."
"Gesù!... Gesù!..."
I Vicerè (2007) di Roberto FaenzaLuigi CapuanaIl marchese di Roccaverdina (1901)
"C'è l'avvocato," annunziò mamma Grazia affacciandosi all'uscio.
E siccome il marchese non si voltò né rispose, la vecchia nutrice, fatti pochi passi nella stanza, esclamò:
"Marchese, figlio mio, sei contento? Avremo finalmente la pioggia!"
Infatti lampeggiava e tuonava da far credere che tra poco sarebbe piovuto a dirotto, e già rari goccioloni schizzavano dentro dall'aperta vetrata del terrazzino. Il marchese di Roccaverdina, con le mani dietro la schiena, sembrava assorto nel contemplare lo spettacolo dei fitti lampi che si accendevano nell'oscurità della serata, seguiti dal quasi non interrotto reoboare dei tuoni.
"C'è l'avvocato," replicò la vecchia accostandosi.
Luigi PirandelloL'esclusa (1901)
Antonio Pentàgora s'era già seduto a tavola tranquillamente per cenare, come se non fosse accaduto nulla.
Illuminato dalla lampada che pendeva dal soffitto basso, il suo volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante sulla nuca. Senza giacca, con la camicia floscia celeste, un po' stinta, aperta sul petto irsuto, e le maniche rimboccate sulle braccia pelose, aspettava che lo servissero.
Gli sedeva a destra la sorella Sidora, pallida e aggrottata, con gli occhi acuti adirati e sfuggenti sotto il fazzoletto di seta nera che teneva sempre in capo. A sinistra il figlio Niccolino, spiritato, con la testa orecchiuta da pipistrello, sul collo stralungo, gli occhi tondi tondi e il naso ritto. Dirimpetto era apparecchiato il posto per l'altro figlio, Rocco, che rientrava in casa qualla sera, dopo la disgrazia.
Lo avevano aspettato finora, per la cena. Poiché tardava, s'erano messi a tavola. Stavano in silenzio tutt'e tre, nel tetro stanzone, dalle pareti basse, ingiallite, lungo le quali correvano due interminabili file di seggiole quasi tutte scompagne. Dal pavimento un po' avvallato, di mattoni rossi, spirava un tanfo indefinibile, d'appassito.
Kaos (1984) di Paolo e Vittorio TavianiVitaliano Brancati
Don Giovanni in Sicilia (1941)
Giovanni Percolla aveva quarant'anni, e viveva da dieci anni in compagnia di tre sorelle, la più giovane delle quali diceva di essere "vedova di guerra". Non si sa come, nel momento in cui pronunciava questa frase, ella si trovava con una matita e un foglio in mano, e subito si poneva a scrivere dei numeri, accompagnandosi con queste parole:
"Quando io ero in età da marito, scoppiò la grande guerra. Ci furono seicentomila morti e trecentomila invalidi. Alle ragazze di quel tempo, venne a mancare un milione di probabilità per sposarsi. Eh, un milione è un milione! Non credo di ragionare da folle se penso che uno di quei morti avrebbe potuto essere mio marito!"
Il Bell'Antonio (1960) di Mauro BologniniElio VittoriniConversazione in Sicilia (1941)
Io ero, quell'inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch'erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un'ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l'acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.
Giuseppe Tomasi di LampedusaIl gattopardo (1958)
"Nunc et in hora mortis nostrae. Amen"
La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Dolorosi; durante mezz'ora altre voci, frammiste avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d'oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e mentre durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.
Il Gattopardo (1963) di Luchino ViscontiLeonardo SciasciaA ciascuno il suo (1966)
La lettera arrivò con la distribuzione del pomeriggio. Il postino posò prima sul banco, come al solito, il fascio versicolore delle stampe pubblicitarie; poi con precauzione, quasi ci fosse il pericolo di vederla esplodere, la lettera: busta gialla, indirizzo a stampa su un rettangolino bianco incollato alla busta.
"Questa lettera non mi piace" disse il postino.
Il farmacista levò gli occhi dal giornale, si tolse gli occhiali; domandò "Che c'è?" seccato e incuriosito.
"Dico che questa lettera non mi piace." Sul marmo del banco la spinse con l'indice, lentamente, verso il farmacista.
Senza toccarla il farmacista si chinò a guardarla; poi si sollevò, si rimise gli occhiali, tornò a guardarla.
"Perché non ti piace?"
A ciascuno il suo (1967) di Elio PetriGesualdo BufalinoDiceria dell'untore (1981)
O quando tutte le notti - per pigrizia, per avarizia - ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l'estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi... Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l'impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità sempre più rattratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient'altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell'imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).
Andrea Camilleri
Il birraio di Preston (1995)
Era una notte che faceva spavento, veramente scantusa. Il non ancora decino Gerd Hoffer, ad una truniata più scatasciante delle altre, che fece trimoliare i vetri delle finestre, si arrisbigliò con un salto, accorgendosi, nello stesso momento, che irresistibilmente gli scappava. Era una storia vecchia, questa della scappatina di pipì: i medici avevano diagnosticato che il picciliddro era lento d'incascio, cioè di reni, fin dalla nascita, e che quindi era naturale che si liberasse a letto. Ma il padre, l'ingegnere minerario Fridolin Hoffer, da quell'orecchio mai aveva voluto sentirci, non si dava pace d'avere messo al mondo un figlio tedesco di scarto, e quindi sosteneva che non si trattava di cure ma di kantiana educazione della volontà, per cui ogni mattina che Dio mandava in terra si metteva a ispezionare, sollevando coperta e lenzuolo a secondo di stascione, il letto del figlio e, infilata la mano inquisitoria, al subito immancabile vagnaticcio reagiva con una potenta timbulata al bambino la cui guancia colpita a vista d'occhio pigliava a gonfiarsi come un muffoletto di pane ad opera di lievito di birra.
P.S. Le didascalie spiegano le immagini, ho preferito scegliere solo film certamente notevoli, prendendomi due piccole licenze: "La terra trema" di Luchino Visconti riguarda "I Malavoglia", non "Cavalleria rusticana" e per Vitaliano Brancati, ho preferito mettere una immagine da "Il bell'Antonio" di Bolognini.
Ma sono molti i film pregevoli o comunque non trascurabili sulla Sicilia, certamente più di cento. Qui ne dico solo tre a cui non pensavo proprio: "Palombella rossa" di Moretti, "Un bellissimo novembre" di Bolognini e "Sole nero" di Zanussi.
Vaste programme, per noi del blog del cinema.
Per i testi, ho utilizzato l'ottimo sito
Incipitario
La Terra trema (1948) di Luchino Visconti