mercoledì 30 gennaio 2008

Radio Amen




Radio Amen

di Roby




Fra i miei parenti e conoscenti più anziani ne conto più d'uno che, oltre ad un'intelligenza vivace e ad uno spirito molto più giovane dell'età già avanzata, possiede una fede cristiana solida ed incrollabile, capace di passar sopra a qualsiasi malefatta (pur realisticamente riconosciuta tale) di parroci pedofili, vescovi intrallazzoni e papi razzisti. D'altra parte, in alcuni di loro tale fede molto ortodossa convive pacificamente, senza sostanziali contraddizioni, con un sottofondo magico-superstizioso nel quale, se il rosario diventa un egregio calmante per i nervi -tipo mantra buddista- ed il santino serve a garantire buoni voti a scuola, è di contro foriero di possibili disgrazie il dichiarare ai quattro venti di essere felice, perchè "i cattivi che ti ascoltano potrebbero portarti male": ugualmente letale, raccontando della malattia occorsa ad un conoscente, il toccarsi là dove tale malanno si è manifestato, "perchè potrebbe venire anche a te".
Tra loro non manca chi, ormai da qualche anno, ascolta regolarmente i programmi radio di varie emittenti cattoliche, ricavandone un conforto ed un gradimento notevoli. Parlandone, un sorriso beato si disegna sulle loro labbra ed un'invidiabile luce gioiosa si accende nei loro occhi. "Sapessi come sono bravi!" mi sono sentita più volte confidare "Sentissi che bello, specialmente quando rispondono alle telefonate del pubblico!". Un giorno, incuriosita, ho deciso di sintonizzarmi anch'io su quelle frequenze, immaginando -se non altro- discussioni teologiche appassionate o infiammati commenti biblici. Purtroppo sono invece incappata nella programmazione in cui gli speakers delle radio suddette -fra una celebrazione della messa ed una recita del rosario- dialogano per ore con gente prostrata dalle più feroci disgrazie, dalla morte del marito alla malattia incurabile del figlio neonato, dalla perdita del lavoro a cinquant'anni alla disperazione di dover assistere i genitori disabili novantenni. Sono encomiabili, certo, per lo sforzo profuso nell'offrire a tutti una parola di sostegno ed un richiamo alle sacre scritture, senza dubbio utili ad alleviare la sofferenza dei credenti in esse. Ma -mi chiedo leggermente interdetta- perchè mai tali conversazioni non restano riservate al privato? Che c'è di così rasserenante in tutto questo, per gli ascoltatori non colpiti -per loro fortuna o per grazia divina- dalle succitate tragedie? Si rallegrano forse per sè stessi, essendone stati risparmiati? O si felicitano per i disgraziati stessi, perchè di essi sarà il regno dei cieli? Su cosa fanno leva -per quanto in buona fede- i componenti lo staff di queste emittenti per assicurarsi l'audience? Non è un po' come succede in TV ad Affari tuoi o alla Vita in diretta, quando viene fatta parlare e piangere per mezz'ora la vedova dell'ultima vittima di morte sul lavoro, registrando così notevoli impennate d'ascolto?
Che siano bravi, quelli delle varie radio ecclesiastiche, lo penso sul serio. Solo che non so ancora in che cosa: in dottrina cattolica? in eloquenza? in altruismo? in radio-del-dolore? Quel che resta della mia fede infantile, evidentemente, non è abbastanza per trovare una risposta. Dopo più di cinquant'anni di vita su questa terra, la metà della quale spesa in studi umanistici, non posso non ricordare che religione viene dal latino religio, e che religio significava nè più nè meno superstizione. Solo così, forse, riesco a chiudere il cerchio, rispondendo implicitamente ai miei perchè: ma non ne sono assolutamente soddisfatta.




domenica 27 gennaio 2008

Incipit siciliani


Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti


Incipit siciliani

a cura di Solimano




E' un esercizio che avevo già fatto alcuni anni fa ma l'idea di rifarlo in modo diverso mi è venuta il 13 gennaio, mentre scrivevo il post sul film "Salvatore Giuliano" su Abbracci e pop corn. Un post che mi è venuto troppo lungo e che prima o poi asciugherò, riducendolo di un terzo, perché ricordo ogni tanto quello che disse a noi a Bologna il vescovo Bettazzi, quello dello scambio di lettere con Enrico Berlinguer: "Quando le idee sono poche le parole saranno tante". Non sempre è così, uno ha dentro di sé l'urgenza di esprimersi e si effonde, che ci può stare, ma purtroppo si diffonde, e va meno bene.

L'argomento era la Sicilia, e così ho scritto:
"Non è vero, come dicono molti siciliani, che noi parliamo della Sicilia senza conoscerla. La Sicilia la conosciamo benissimo, perché, fra diversi guai, ha avuto una grande e meritata fortuna (certe cose non succedono per caso): ha avuto, nell'Ottocento e nel Novecento, una serie di notevoli scrittori, alcuni strepitosi. Siciliani che la Sicilia ce l'hanno raccontata con profondità e partecipazione. Fra breve pubblicherò sul Nonblog di Habanera una serie di incipit di scrittori siciliani, vedrete quanti sono e come scrivono".
Eccoli qua, dieci scrittori siciliani messi in ordine cronologico secondo la data di prima pubblicazione del libro di cui riporto l'incipit.

Sulla Sicilia non mi va di scrivere stando sulle generali, ometterei l'essenziale dilungandomi sui particolari, preferisco raccontare tre fatterelli realmente accaduti.
1. Stavamo viaggiando in aereo per Palermo, in una comitiva in cui ci conoscevamo tutti. Appare il monte Pellegrino e subito si sente la voce del pilota: "Fra pochi minuti atterreremo all'aereoporto di Palermo Punta Raisi. Speriamo bene..."
Pochi mesi prima un aereo si era schiantato contro il monte, non solo, era frequente il caso di persone che prendevano l'aereo per la prima volta, con tutti i timori che oggi non ci si crederebbe perché oggi si prende come prendere un taxi (solo che il taxi costa di più); in ogni caso era la cosa meno opportuna rinfocolare le apprensioni, anche scherzandoci su. Ma soprattutto colpiva il tono con cui proferì quello speriamo bene, di una serietà vera, quasi da tragedia greca senza nessun dramma satiresco a seguito. Solo il Walter Matthau dei tempi migliori avrebbe potuto essergli alla pari. Scoppiammo tutti a ridere di una risata non liberatoria, ma nervosa e grottesca, ecco la parola: grottesca.
2. Da militare, faceva parte del nostro gruppo di ingegneri allievi ufficiali un siciliano, con un cognome molto noto allora ma che si ricorda anche adesso. Tutte le mattine si indignava per l'assenza del bidè, facility non prevista nelle caserme (probabilmente l'ingegnere siciliano non sarà mai andato in Francia). Tutti gli altri abbozzavano, anche perchè generalmente non sapevano manco che fosse 'sto bidè: l'igiene aveva un lungo cammino davanti.
Però facemmo amicizia, anche se in seguito non ci siamo più visti, e qualche mese dopo la fine del servizio militare arrivò a casa mia un piccolo plico proveniente da Palermo. Conteneva un nastro registrato, adatto ai registratori in uso allora che erano grandi come comodini. Il siciliano voleva scrivermi (difatti dentro il plico c'erano tre o quattro righe sue autografe), ma gli seccava tutto l'ambaradam, allora aveva preso il registratore e aveva dettato una lettera vocale. L'Emilia è una regione fantasiosa, ma non credo che un emiliano avrebbe mai fatto una cosa del genere.
3. Soggiorno-premio al villaggio di Brucoli, pluristellato su tutte le guide. Pagava la ditta, ed eravamo quasi cento, mariti e mogli (le coppie irregolari non erano gradite, gli americani sono disinvolti ma puritani). Dopo qualche giorno di ozio creativo ci venne voglia di guardare attorno e prendemmo una barca. A pochi chilometri dal villagio di Brucoli, che meritava tutte le stelle del firmamento, ci apparì un inferno in terra da fare impallidire Porto Marghera: una enorme raffineria con tutto il contorno di fiamme, fumo, odori. Chiedemmo ai barcaioli il come ed il perché ma a loro sembrava naturalissimo il non casto connubio: andava bene tutto mischiato, villaggio e raffineria. Non è che facessero i furbi, non vedevano dove fosse il problema.

Sugli scrittori, dirò la mia in un commento. Qui dico solo una differenza grande che noto fra Emilia e Sicilia.
A noi emiliani piace dir bene dell'Emilia, ma se qualcuno ne dice male -e succede- non ce la prendiamo: ascoltiamo magari consentendo, o sorridiamo. O ridiamo, della famosa battuta del cardinal Biffi sull'Emilia sazia e disperata ridono ancora tutti, dalla bassa pianura alle cime degli Appennini.
Ai siciliani piace anche troppo dir male della Sicilia, ma se ne dice male qualcuno che non è siciliano non va bene, gli secca, la sentono o come una intrusione indebita o come una ferita.
Sugli incipit una cosa è certa: altro che quarta di copertina promozionale! Basterebbe mettere nella quarta di copertina l'incipit di ognuno di questi libri e il gioco sarebbe fatto: tutti alla cassa per comprare quel libro che ha una quarta di copertina così bella!


Giovanni Verga
Cavalleria rusticana (1880)

Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll'uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quella della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini. Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata.
Ma con tutto ciò Lola di massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio, ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla.

La terra trema (1948) di Luchino Visconti

Federico De Roberto
I viceré (1884)

Giuseppe, dinanzi al portone, trastullava il suo bambino, cullandolo sulle braccia, mostrandogli lo scudo marmoreo infisso al sommo dell'arco, la rastrelliera inchiodata sul muro del vestibolo dove, ai tempi antichi, i lanzi del principe appendevano le alabarde, quando s'udì e crebbe rapidamente il rumore d'una carrozza arrivante a tutta carriera; e prima ancora che egli avesse il tempo di voltarsi, un legnetto sul quale pareva avesse nevicato, dalla tanta polvere, e il cui cavallo era tutto spumante di sudore, entrò nella corte con assordante fracasso. Dall'arco del secondo cortile affacciaronsi servi e famigli: Baldassarre, il maestro di casa, schiuse la vetrata della loggia del secondo piano, intanto che Salvatore Cerra precipitavasi dalla carrozzella con una lettera in mano.
"Don Salvatore?... Che c'è?... Che novità?..."
Ma quegli fece col braccio un gesto disperato e salì le scale a quattro a quattro.
Giuseppe, col bambino ancora in collo, era rimasto intontito, non comprendendo; ma sua moglie, la moglie di Baldassarre, la lavandaia, una quantità d'altri servi già circondavano la carrozzella, si segnavano udendo il cocchiere narrare, interrottamente:
"La principessa... Morta d'un colpo... Stamattina, mentre lavavo la carrozza..."
"Gesù!... Gesù!..."

I Vicerè (2007) di Roberto Faenza

Luigi Capuana
Il marchese di Roccaverdina (1901)

"C'è l'avvocato," annunziò mamma Grazia affacciandosi all'uscio.
E siccome il marchese non si voltò né rispose, la vecchia nutrice, fatti pochi passi nella stanza, esclamò:
"Marchese, figlio mio, sei contento? Avremo finalmente la pioggia!"
Infatti lampeggiava e tuonava da far credere che tra poco sarebbe piovuto a dirotto, e già rari goccioloni schizzavano dentro dall'aperta vetrata del terrazzino. Il marchese di Roccaverdina, con le mani dietro la schiena, sembrava assorto nel contemplare lo spettacolo dei fitti lampi che si accendevano nell'oscurità della serata, seguiti dal quasi non interrotto reoboare dei tuoni.
"C'è l'avvocato," replicò la vecchia accostandosi.


Luigi Pirandello
L'esclusa (1901)

Antonio Pentàgora s'era già seduto a tavola tranquillamente per cenare, come se non fosse accaduto nulla.
Illuminato dalla lampada che pendeva dal soffitto basso, il suo volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante sulla nuca. Senza giacca, con la camicia floscia celeste, un po' stinta, aperta sul petto irsuto, e le maniche rimboccate sulle braccia pelose, aspettava che lo servissero.
Gli sedeva a destra la sorella Sidora, pallida e aggrottata, con gli occhi acuti adirati e sfuggenti sotto il fazzoletto di seta nera che teneva sempre in capo. A sinistra il figlio Niccolino, spiritato, con la testa orecchiuta da pipistrello, sul collo stralungo, gli occhi tondi tondi e il naso ritto. Dirimpetto era apparecchiato il posto per l'altro figlio, Rocco, che rientrava in casa qualla sera, dopo la disgrazia.
Lo avevano aspettato finora, per la cena. Poiché tardava, s'erano messi a tavola. Stavano in silenzio tutt'e tre, nel tetro stanzone, dalle pareti basse, ingiallite, lungo le quali correvano due interminabili file di seggiole quasi tutte scompagne. Dal pavimento un po' avvallato, di mattoni rossi, spirava un tanfo indefinibile, d'appassito.

Kaos (1984) di Paolo e Vittorio Taviani

Vitaliano Brancati
Don Giovanni in Sicilia (1941)

Giovanni Percolla aveva quarant'anni, e viveva da dieci anni in compagnia di tre sorelle, la più giovane delle quali diceva di essere "vedova di guerra". Non si sa come, nel momento in cui pronunciava questa frase, ella si trovava con una matita e un foglio in mano, e subito si poneva a scrivere dei numeri, accompagnandosi con queste parole:
"Quando io ero in età da marito, scoppiò la grande guerra. Ci furono seicentomila morti e trecentomila invalidi. Alle ragazze di quel tempo, venne a mancare un milione di probabilità per sposarsi. Eh, un milione è un milione! Non credo di ragionare da folle se penso che uno di quei morti avrebbe potuto essere mio marito!"

Il Bell'Antonio (1960) di Mauro Bolognini

Elio Vittorini
Conversazione in Sicilia (1941)

Io ero, quell'inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch'erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un'ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l'acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.


Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Il gattopardo (1958)

"Nunc et in hora mortis nostrae. Amen"
La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Dolorosi; durante mezz'ora altre voci, frammiste avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d'oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e mentre durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.

Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti

Leonardo Sciascia
A ciascuno il suo (1966)

La lettera arrivò con la distribuzione del pomeriggio. Il postino posò prima sul banco, come al solito, il fascio versicolore delle stampe pubblicitarie; poi con precauzione, quasi ci fosse il pericolo di vederla esplodere, la lettera: busta gialla, indirizzo a stampa su un rettangolino bianco incollato alla busta.
"Questa lettera non mi piace" disse il postino.
Il farmacista levò gli occhi dal giornale, si tolse gli occhiali; domandò "Che c'è?" seccato e incuriosito.
"Dico che questa lettera non mi piace." Sul marmo del banco la spinse con l'indice, lentamente, verso il farmacista.
Senza toccarla il farmacista si chinò a guardarla; poi si sollevò, si rimise gli occhiali, tornò a guardarla.
"Perché non ti piace?"

A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri

Gesualdo Bufalino
Diceria dell'untore (1981)

O quando tutte le notti - per pigrizia, per avarizia - ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l'estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi... Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l'impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità sempre più rattratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient'altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell'imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).


Andrea Camilleri
Il birraio di Preston (1995)

Era una notte che faceva spavento, veramente scantusa. Il non ancora decino Gerd Hoffer, ad una truniata più scatasciante delle altre, che fece trimoliare i vetri delle finestre, si arrisbigliò con un salto, accorgendosi, nello stesso momento, che irresistibilmente gli scappava. Era una storia vecchia, questa della scappatina di pipì: i medici avevano diagnosticato che il picciliddro era lento d'incascio, cioè di reni, fin dalla nascita, e che quindi era naturale che si liberasse a letto. Ma il padre, l'ingegnere minerario Fridolin Hoffer, da quell'orecchio mai aveva voluto sentirci, non si dava pace d'avere messo al mondo un figlio tedesco di scarto, e quindi sosteneva che non si trattava di cure ma di kantiana educazione della volontà, per cui ogni mattina che Dio mandava in terra si metteva a ispezionare, sollevando coperta e lenzuolo a secondo di stascione, il letto del figlio e, infilata la mano inquisitoria, al subito immancabile vagnaticcio reagiva con una potenta timbulata al bambino la cui guancia colpita a vista d'occhio pigliava a gonfiarsi come un muffoletto di pane ad opera di lievito di birra.

P.S. Le didascalie spiegano le immagini, ho preferito scegliere solo film certamente notevoli, prendendomi due piccole licenze: "La terra trema" di Luchino Visconti riguarda "I Malavoglia", non "Cavalleria rusticana" e per Vitaliano Brancati, ho preferito mettere una immagine da "Il bell'Antonio" di Bolognini.
Ma sono molti i film pregevoli o comunque non trascurabili sulla Sicilia, certamente più di cento. Qui ne dico solo tre a cui non pensavo proprio: "Palombella rossa" di Moretti, "Un bellissimo novembre" di Bolognini e "Sole nero" di Zanussi. Vaste programme, per noi del blog del cinema.

Per i testi, ho utilizzato l'ottimo sito Incipitario

La Terra trema (1948) di Luchino Visconti


sabato 26 gennaio 2008

Intervista a Remo Bassini




Intervista a Remo Bassini

Franz Krauspenhaar




Remo Bassini non è solo uno scrittore di valore, è anche un prodigio e una macchina - umanissima - da scrittura: è direttore de La Sesia, storico bisettimanale di Vercelli e provincia, collabora con Il Corriere Nazionale, commenta sul suo seguitissimo blog Appunti e ne La poesia e lo spirito -l’ormai leggendario blog letterario multiautore fondato da Don Fabrizio Centofanti- scrive romanzi di buon successo. Per il suo ultimo libro, quarto di una fortunata serie, ha scelto un titolo d’inquietudine un pò anni 70, La donna che parlava con i morti (Newton Compton, pp.240, euro 9,90) -quasi fosse un seguito de Il segno del comando. Editore robusto e ancora in ascesa e attivo su tutti i fronti (Newton Compton), confezione hardcover per un romanzo giallo di tinte (come da copertina) ma dai sapori popolari e al contempo raffinati. La storia inquietante di una donna e della provincia italiana profonda nella quale vive, una serie di personaggi difficilmente dimenticabili. E soprattutto la scrittura felice di Remo Bassini: a volte vorticosa, sempre funzionale e fatta spesso di pennellate veloci, precise, multistrato. Godibile ma anche capace di strapparti un replay, per ricatturare -felicemente- un momento, una sfumatura particolarmente interessante.

Quando è nata dentro di lei la presa di coscienza di essere un narratore di talento?

Mi sono interrogato spesso sul talento. Dante ne aveva e anche Simenon. Ma prendiamo Primo Levi, Se questo è un uomo. Un grande libro, di un talento che, penso, nacque grazie – o a causa – della prigionia in un campo di sterminio. Dove la vita e la morte e la natura umana vengono viste e vissute con occhi diversi. Ecco, io credo d’aver vissuto dei miei piccoli campi di sterminio. E penso che un giorno imprecisato sono riuscito a raccontarli. Il mio talento, se talento è, nasce dalla mie tempeste. Come La donna che parlava con i morti: ci sono alcune sofferenze, ri-elaborate. Con questo non ho nessuna pretesa di oggettivare. Non dico che il talento nasce solo dalla sofferenza o dalla sensibilità. Dico che non nasce con noi; può arrivare, come può non arrivare, in un momento imprecisato della nostra vita.

Si ritiene uno scrittore di genere o crede di usare il genere come passpartout?

Quando si parla di generi letterari me ne sto in disparte, ascolto. A definire il genere ci pensa la percezione del lettore. Editori, critici e salotti letterari per me perdono solo tempo: ci sono i buoni libri e i libri del cavolo. E soprattutto ci sono libri onesti e libri disonesti. Il libro onesto costa fatica, approfondimenti. Faccio un esempio, con la premessa che un giallo può essere un libro valido quanto uno di denuncia sociale (Izzo era bravissimo a fondere i due aspetti). Un giallo disonesto, per esempio, parla di ispezioni, mandati di cattura senza prima capire come funzionano per davvero questi meccanismi. Ecco, scrivere un giallo senza aver parlato con un maresciallo dei carabinieri o anche solo senza aver letto articoli di cronaca nera vuol dire prendere in giro il lettore. Perché ci si basa sul già letto in altri libri o, peggio, su quel che si vede nelle fiction tv. Una volta chiesero a Pascoli un giudizio su D’Annunzio. Fu un giudizio positivo. Ma non del tutto: perché D’Annunzio, osservava Pascoli, in una sua poesia autunnale ci aveva messo un uccello che in autunno non c’è, perché migra. Insomma, una poesia del cavolo. Disonesta.

In che modo il mestiere di giornalista entra nella sua attività di scrittore e viceversa?

Ho iniziato a scrivere che avevo vent’anni e lavoravo in fabbrica (ho ancora nel cassetto un romanzo incompiuto ambientato in quel periodo della mia vita). Sono stato operaio, sindacalista, disoccupato, studente di lettere di giorno e portiere di notte in un albergo. Poi è arrivato il giornalismo, e quel poi è importante: non mi sento nel modo più assoluto un giornalista che si concede alla narrativa, piuttosto un narratore di storie da prima, dagli anni della fabbrica.
Il giornalismo è servito a completare la mia scrittura, a dare valore e importanza alla precisione e al dettaglio, alla logica. Un bravo giornalista non farebbe errori di calcolo che invece si leggono in alcuni libri. Mi spiego: se io oggi ho 40 anni, tra 5 anni ne avrò 45, giusto? Ecco, alcuni “artisti” riescono a scrivere 47 o 52, mica si abbassano l’età, loro. Per fortuna che è arrivata la lezione di Tondelli, o anche di Izzo. Scrivere in modo credibile.
La scrittura giornalistica e narrativa prendono percorsi diversi: la tecnica del fare cronaca può essere insegnata a tutti, come anche quella del raccontare una storia.
Ma trasmettere emozioni, no.

A quali autori del passato e del presente è più affezionato?

Dopo Salgari, dico Vasco Pratolini e Giuseppe Berto, che hanno lasciato in me un segno, specie con Il quartiere e Il male oscuro. Poi, gli scrittori dei miei diciott’anni: Erich Maria Remarque e John Steinbeck. Tra gli italiani mi sono affezionato a Beppe Fenoglio, per aver raccontato la Resistenza senza retoriche, e al giallista Renato Olivieri. Senza dimenticare Pontiggia, da leggere e rileggere. Tra gli stranieri cito Boell, Chandler, Montalban (con particolare predilezione per L’uomo della mia vita). Tra gli scrittori viventi dico Saramago e Mankell. E don Luisito Bianchi, che urla sussurrando.

Ha un libro del cuore che ogni tanto rilegge, anche solo per poche righe, come una sorta di messale letterario?


Ho libri di riferimento, certo. Ma quando mi sento vuoto come una campana - e succede spesso - in genere prendo un giornale e mi rintano in un bar di periferia, e ascolto. Faccio lo stesso anche in treno. Cerco di leggere la vita, di ripassarla, di capirci qualcosa. Per scrivere occorre andare in profondità e i libri aiutano, ma è dalla lettura della vita che bisogna partire.

(Pubblicato su “Queer” di Liberazione - 13.01.2008)

Da Nazione Indiana



mercoledì 23 gennaio 2008

Lo zio Podger appende un quadro




Lo zio Podger appende un quadro

Jerome Klapka Jerome


Non si è mai visto un trambusto come quello che accadeva in casa di mio zio Podger quando si disponeva a eseguire qualche lavoro domestico. Per esempio, c'era un quadro, arrivato fresco dal corniciaio, ritto contro una parete della sala da pranzo, in attesa che qualcuno lo appendesse; la zia Podger domandava che cosa si doveva fare di quel quadro e lo zio Podger rispondeva:
« Oh, lascia fare a me. Nessuno si preoccupi. Nessuno. Ci penso io. »
Allora si toglieva la giacca e cominciava. Mandava la domestica a comprare sei pence di chiodi, poi la faceva raggiungere da uno dei ragazzi per dirle quanto dovevano essere lunghi; e da quel momento, a poco a poco, mobilitava tutta la famiglia.
« Tu vammi a prendere il martello, Will » gridava « e tu portami la riga, Tom; mi occorrerà una scaletta, e sarà meglio anche portarmi una sedia di cucina; ehi Jim, corri dal signor Goggles e digli: "Il babbo le manda tanti saluti e spera che stia meglio della sua gamba e dice se può prestargli la livella". Tu, Maria, non te ne andare, perchè avrò bisogno di qualcuno che mi regga il lume; e quando la ragazza ritorna, bisognerà che esca di nuovo a prendere un pezzo di cordone da quadri; Tom ! dov'è Tom ?... Tom vieni qui; tu mi porgerai il quadro. »
Allora lo zio sollevava il quadro, se lo lasciava sfuggire di mano e il quadro usciva dalla cornice; lui tentava di salvare il vetro e si tagliava un dito; dopo di che si metteva a saltellare per la stanza, alla ricerca del proprio fazzoletto. Non riusciva a trovare il fazzoletto perchè era nella tasca della giacca che si era tolto e lui non sapeva dove l'aveva messa e tutta la famiglia doveva sospendere la ricerca degli utensili per mettersi alla caccia della giacca; intanto lui continuava a girare come una mosca senza testa, ostacolando le ricerche.
« Insomma, non c'è proprio nessuno in tutta la casa che sappia dov'è la mia giacca ? Non ho mai visto gente simile in vita mia, parola d'onore. Siete in sei e non riuscite a trovare la giacca che mi sono tolto appena cinque minuti fa. Roba da matti....»
In quel momento si alzava dalla seggiola su cui, frattanto, si era lasciato cadere, e scopriva di essere stato seduto proprio sulla giacca.
« Ormai potete smettere di cercarla ! » gridava allora « L'ho trovata da solo. Se aspettavo che me la trovaste voialtri, tanto valeva che mi rivolgessi al gatto ! »
Quando poi si era sprecata mezz'ora per medicargli il dito, si era provveduto un vetro nuovo, e gli utensili, la scaletta, la seggiola e la candela erano stati portati in sala, lo zio Podger faceva un altro tentativo, mentre tutta la famiglia, compresa la cameriera e la donna di fatica, gli formava attorno un semicerchio, pronta ad aiutare. Due persone dovevano tener ferma la sedia, un'altra doveva aiutarlo a salirci sopra e dargli una mano per stare in equilibrio, una quarta gli porgeva il chiodo, una quinta il martello, e lui prendeva il chiodo e lo lasciava cadere.
« Ecco ! » Diceva in tono esulcerato « adesso, se n'è andato il chiodo. »
Noi dovevamo inginocchiarci tutti per esplorare il pavimento e cercare il chiodo, mentre lo zio brontolava e domandava se lo avremmo costretto a stare lassù tutta la sera.
Finalmente si trovava il chiodo, ma intanto lui aveva perso il martello.
« Dov'è il martello ? Dove ho cacciato il martello ? Accidenti, ve ne state lì in sette, a bocca aperta, e non sapete dove ho cacciato il martello ! »
Si trovava il martello, ma lui intanto aveva perso di vista il segno che aveva fatto sulla parete per piantarci il chiodo; a uno a uno salivamo tutti accanto a lui, sulla sedia, per vedere se ci riusciva di trovarlo: ognuno lo scopriva in un posto diverso, e lo zio ci dava degli imbecilli e ci ordinava di scendere. Prendeva la riga, misurava daccapo, constatava che il chiodo doveva distare dall'angolo la metà di settantacinque centimetri e sette millimetri, tentava di fare il calcolo a memoria e andava fuori dai gangheri.
Ognuno di noi allora tentava di fare lo stesso calcolo a mente, ma tutti arrivavamo a un risultato diverso e ci deridevamo a vicenda. Nel trambusto generale ci si dimenticava del numero originale e lo zio Podger doveva riprendere la misura. Questa volta si serviva di un pezzo di spago, ma al momento critico, da quel vecchio tonto che era, si sporgeva dalla sedia a un angolo di quarantacinque gradi e tentava di raggiungere con la mano un punto che era almeno una spanna più in là del massimo a cui poteva arrivare, lo spago gli sfuggiva dalle dita e lui piombava sul pianoforte e produceva un efficace effetto musicale, colpendo i tasti simultaneamente con la testa e col corpo. La zia Maria diceva che non poteva permettere ai bambini di rimanere ad ascoltare il linguaggio dello zio Podger.
Finalmente lo zio riusciva a fissare di nuovo il punto dove andava piantato il chiodo, vi appoggiava il punto del chiodo con la sinistra e prendeva il martello con la destra, ma al primo colpo si schiacciava il pollice, dopo di che, con un grido di dolore, lasciava cadere il martello sui piedi di qualcuno.
La zia Maria osservava blandamente che se un'altra volta lo zio Podger si fosse sognato di piantare un chiodo nel muro, lei si augurava che la preavvisasse, dandole il tempo di prendere le sue misure per andare a passare una settimana con sua madre, intanto che si compiva l'impresa.
« Oh, voialtre donne fate sempre un gran cancan per un nonnulla » ribatteva lo zio Podger riprendendosi. « A me piace tanto fare qualche lavoretto in casa».
Poi compiva un altro tentativo e, al secondo colpo, il chiodo penetrava tutto intero nell'intonaco e la testa del martello gli andava dietro per metà, cosicchè lo zio Podger veniva proiettato contro il muro con una forza sufficiente ad appiattirgli il naso.
Naturalmente, dovevamo rimetterci alla ricerca della riga e dello spago, e lui faceva un altro buco; verso la mezzanotte il quadro era attaccato, storto e malsicuro, mentre la parete per qualche metro all'intorno aveva l'aria di essere stata grattata con un rastrello; e tutti eravamo stanchi morti, depressi...tutti, ad eccezione dello zio Podger.
« Ecco fatto ! » esclamava, saltando pesantemente dalla sedia sui calli della donna di fatica, e osservando la devastazione compiuta con palese orgoglio. «Diamine, tanti altri avrebbero chiamato un operaio per fare un lavoretto di questo genere ! »

(da Tre uomini in barca)

Jerome K. Jerome e il suo cane

La legge di Murphy




Legge di Murphy
Se qualcosa può andar male, lo farà

Arthur Bloch


Corollari

Niente è facile come sembra.

Tutto richiede più tempo di quanto si pensi.

Se c’è una possibilità che varie cose vadano male, quella che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo.

Se si prevedono quattro possibili modi in cui qualcosa può andare male, e si prevengono, immediatamente se ne rivelerà un quinto.

Lasciate a se stesse, le cose tendono a andare di male in peggio.

Non ci si può mettere a far qualcosa senza che qualcos’altro non vada fatto prima.

Ogni soluzione genera nuovi problemi.

I cretini sono sempre più ingegniosi delle precauzioni che si prendono per impedirgli di nuocere.

La filosofia di Murphy
Sorridi... Domani sarà peggio.

Costante di Murphy
Le cose vengono danneggiate in proporzione al loro valore.

Versione relativistica della legge di Murphy
Tutto va male nello stesso tempo.

Chiosa di O'Toole alla legge di Murphy
Murphy era un ottimista.

Postulato di Boling
Se sei di buon umore, non ti preoccupare. Ti passerà.

Legge di Iles
C'è sempre un modo migliore.
Corollari:
1. Quando il modo migliore ci sta davanti agli occhi, specialmente per lunghi periodi, non lo vediamo.
2. Neanche Iles lo vede.

Seconda legge di Chisholm
Quando tutto va bene, qualcosa andrà male.
Corollari:
1. Quando non può andar peggio di così, lo farà.
2. Se le cose sembrano andar meglio, c'è qualcosa di cui non stiamo tenendo conto.

Prima legge di Scott
Qualsiasi cosa vada male, avrà probabilmente l'aria di andare benissimo.

Seconda legge di Scott
Quando si trova e si corregge un errore, si vedrà che andava meglio prima.
Corollario: Quando si capisce che la correzione era sbagliata, sarà troppo tardi per tornare indietro.



Legge di Murhpy - Codice della Strada



Legge di Oliver sulla dislocazione:
Se ci sei, non ci puoi andare.

Prima legge dei viaggi:
È sempre più lungo arrivare che tornare indietro.

Legge delle autostrade:
Se tutti ti vengono incontro, sei nella carreggiata sbagliata.

Leggi di Athena sulla cortesia stradale:
Se lasci passare una macchina, o
1. starete andando nello stesso posto e occuperà l'ultimo parcheggio disponibile; oppure
2. procurerà un incidente tale da bloccare il traffico per diverse ore.

Postulato del parcheggio:
Non appena hai deciso di parcheggiare a due chilometri di distanza, quattro posti si libereranno simultaneamente sotto casa.

Metodi sicuri per far arrivare gli autobus:
1. Accendere una sigaretta.
2. Allontanarsi rapidamente dalla fermata.
3. Prendere un taxi.

Legge dei semafori:
Se è verde, non hai fretta.

Legge di Quigley:
Un'automobile e un camion che viaggiano in direzioni opposte lungo una strada altrimenti deserta, si incontreranno sul ponticello.

Legge di Reece:
Chi va piano ha del tempo da perdere.

Legge di Drew sulla biologia autostradale:
Il primo insetto a spiaccicarsi sul parabrezza pulito lo farà esattamente di fronte agli occhi del guidatore.

Leggi di Campbell sulla riparazione degli autoveicoli:
1. Se arrivi al pezzo guasto, non avrai lo strumento per estrarlo.
2. Se sei riuscito a estrarlo, non troverai il pezzo di ricambio.
3. Se hai trovato il pezzo di ricambio, non era quello il pezzo guasto.

Leggi di Bromber sulla riparazione degli autoveicoli:
1. Quando c'è bisogno, ogni oggetto a portata di mano diventa un martello.
2. La quantità di grasso e olio di cui ci si cosparge non varia a seconda dell'entità della riparazione.
3. La quantità di grasso e olio di cui ci si cosparge varia inversamente al successo della riparazione.

Legge di Femo sulla riparazione dei motori:
Se fai cadere qualcosa, non tocca mai terra.

Legge di Nonno Charnock:
Non imparerai mai a bestemmiare davvero finchè non impari a guidare.

Legge di Vile sulle automobili:
La tua macchina consuma più benzina e più olio di quella di chiunque altro.

Legge di Phillip:
Trazione a quattro ruote significa insabbiarsi in luoghi più inaccessibili.




lunedì 21 gennaio 2008

La fetta di pane




La fetta di pane

di Letizia Ricci



Prendi una fetta di pane e comincia col guardarla, scoprirai una serie di variazioni di colore legate certamente alla cottura, più o meno uniforme, ma anche alla buona lievitazione, al sale, alla qualità della farina e alla dose d'acqua evaporata nel forno, potresti anche risalire alla dose d'acqua iniziale.
Poi potresti annusarla. La crosta ha un odore diverso dalla mollica.
L'odore è diverso anche tra la parte soprastante e quella sottostante della fetta.
A volte in quella in basso, se cotta al forno a legna, si sente ancora l'odore del carbone, materializzato da qualche piccolo puntino nero.
Poi devi cominciare a toccarla. Ogni volta con un dito diverso, perché le dita non hanno tutte la stessa sensibilità, non sono abituate a toccare le stesse cose nello stesso modo. Ogni dito dunque ti rivelerà qualcosa di diverso. Il pollice, ad esempio, è goffo nei riconoscimenti. Lui è un tipo un po' sbrigativo, un acchiappatore. Il lavoro di fino lo faranno, con intensità sempre maggiore, prima l'indice, poi il medio, l'anulare ed infine il mignolo. Lui, gracilino e leggero, sarà quello che ti darà il maggior numero di nuove informazioni.
Conformazione della crosta, asperità, affossamenti, mollezza indesiderata. Poi passando alla mollica, con poche bolle scendendo a sud, dove il pane è buonissimo ma ha la mollica densa, sentirai tutti i piccoli picchi ruvidi, scoprirai che la mollica non è affatto morbida, anzi.
È arrivato il momento di accostare la fetta alle labbra.
Ma stai fermo e aspetta un attimo! Non morderla!
Che diamine, un po' di pazienza. Cerca di fare lo stesso lavoro delle dita, ma con le labbra. È una sensazione molto diversa. Perché tutta la finezza che perdi nell'accertare la conformazione, la recuperi con un primo anticipo di sapore.
Infine ecco il primo morso.
Ti sei accorto di quanto poco ci soffermiamo di solito a gustare gli alimenti con i denti? I denti, non la lingua.
I denti poveri cristi hanno molta sensibilità, non solo quando sono cariati. Anche loro sono capaci di distinguere mollica da crosta, ancora meglio, granulometria dell'una e dell'altra, quasi fino a risalire alla materia prima.
Infine la tua lingua si approprierà di questo sapido boccone, talmente desiderato, voluto, gustato, che nel palato procurerà la gioia di un cioccolatino che fonde, lo stesso immenso piacere di un sorso di vino fresco appena hai mangiato un pasto delizioso.
Era una fetta di pane, è diventata una festa.
Buon appetito.



sabato 19 gennaio 2008

In tutti i sensi


Giuseppe Recco: I cinque sensi


In tutti i sensi

di Stefania Mola
(BibliotecadeBabel)




Un invitante canestro di biscotti non manca quasi mai
nelle pitture di cucina di Evaristo Baschenis, maestro di ricerca prospettica e volumetrica nonché di raffinate sollecitazioni materiche.

Come questo, qui accanto, posato su una brocca di coccio lucido, affiancato ad un tegame, una ciotola, un tagliere e inserito in una composizione affollata di pennuti spennati e pronti ad essere trasformati in cena sontuosa.

In principio la chiamavano pittura del naturale, poi di vita silenziosa o immobile, di soggetti da ferma o di cose inanimate, pensando alla vita interiore delle cose che l’artista rivelava creando – così – non solo le forme ma anche i contenuti. Poi divenne natura morta, indicazione didascalica di una rappresentazione che alla condizione inanimata della natura o dell’artificio nelle cose non disperava – comunque – di strappare il segreto che le fa essere così come ci appaiono. Una realtà che solo la pittura, attraverso la sua interpretazione, rendeva leggibile pur essendoci ignota.

Un meccanismo vitale innescato dall’artista che inizia lì dove quello d’origine si è fermato. Fiori, piante, verdure, piccoli animali si mescolano infine a strumenti musicali, oggetti d’arredo, stoviglie, piccole sculture, mappamondi, ed oltre il loro aspetto visibile e la loro qualità decorativa e descrittiva si fanno simbolo, archetipo, significato recondito, concetto filosofico, sollecitando l’indagine che ne riveli la vitalità immobile e necessaria a giustificarne la presenza nel mondo degli uomini.

Una vitalità interna e profonda, che obbliga spesso a sezionare, smembrare, dividere animali e frutta, perché il cuore è qualcosa che in vita non è possibile vedere né conoscere, e il silenzio un abito d’innaturale apparenza che maschera le voci di dentro. L’incontro e la combinazione tra gli ingredienti favorito dalla composizione pittorica, spesso abbinati alle stoviglie pertinenti alla tavola imbandita, suggerisce talora la ricetta in grado di trasformarli in piatti semplici o raffinati. In un clima di sovrabbondanza e ostentazione, dai dipinti si sprigionano nuovi gusti e nuovi profumi mentre si celebra solennemente il procedimento di preparazione culinaria delle vivande come se anch’esse fossero – alla fine – delle opere d’arte.

Come se anche al cuoco spettasse l’atto creativo, il decisivo intervento di chi manipola l’elemento naturale inanimato per trasformarlo in commestibile e attribuirgli una finalità superiore della sua esistenza, fatta di forma e contenuto, tentazione e ammiccamento esteriore ma anche intensità di quel sapore nascosto che nel piatto si ricompone scendendo a patti con tutti i sensi. Sensi non più destinati alla conoscenza delle cose bensì alla loro consumazione.

Da tutto questo prende le mosse un delizioso libretto frutto del lavoro di squadra di uno storico dell’arte, una chef e una giornalista “gastronauta”, nel quale trentasette nature morte italiane e fiamminghe offrono lo spunto per parlare di sé e del proprio tempo e dar voce alle cose rappresentate.

Accompagnandosi ad una ricetta ad hoc elaborata sulla base degli elementi presenti nel dipinto (a quello di Baschenis viene ad esempio associato uno stufato di carni miste, alla Natura morta con prosciutto di Carlo Magini una zuppa di cipolle, a quella con dolci, fiori e strumenti musicali di Giuseppe Recco – conosciuta anche sotto il titolo de I cinque sensi – una golosa preparazione a base di bignè al cioccolato, biscottini al cocco e scorzette di arance candite) e realizzando così la piena esperienza dei sensi, fine ultimo di ogni vita silenziosa di cui si riesca a intercettare la voce conquistandone il cuore.

(domenica, 30 dicembre 2007)
Da Squilibri


Carlo Magini: Natura morta con prosciutto


mercoledì 16 gennaio 2008

Renoir e Courbet


Pierre Auguste Renoir: The Rambler
Musée des Beaux-Arts, Le Havre


Renoir e Courbet

di Giuliano



Come al solito, tutta la gente blocca l'ingresso.
E dunque corro avanti, ben sapendo che poi sulle prime opere in mostra potrò tornare in seguito, quando potrò guardarle meglio.
Intanto do un'occhiata veloce in giro, poi vado al piano di sotto e vedo il primo capolavoro vero, il "campo di papaveri" di Alfred Sisley. E poi due bronzi molto belli: la modella è, con ogni evidenza, la madre di Jean, il grande regista francese figlio del pittore. Si vede subito, i lineamenti sono i suoi, cher Octave... (il padre non gli somiglia affatto).
Sono moltissimi i ritratti della madre di Jean Renoir, ben riconoscibile dal viso paffuto, dolce ma non bellissimo.
E' inevitabile pensare ai grandi film di Renoir, a "La grande illusione", per esempio; e soprattutto a "La regola del gioco".
Poi mi cade l'occhio sui Courbet, che lì per lì avevo un po' snobbato. Sono bellissimi e sarà quello che più mi porterò dietro. Sono paesaggi marini, onde, e boschi al tramonto...
La prima volta che li guardo resto un po' deluso.

Gustave Courbet: The Stormy Sea

Courbet è un pittore che amo molto, e mi aspettavo qualcosa in più. Ma è solo dopo dieci minuti, e dopo aver fatto due volte il giro della mostra, che comincio a vederli veramente, ed è stato magnifico.
Li ho guardati di sbieco, con la coda dell'occhio, uscendo dalla "saletta" dei bronzi: e così ho colto la loro vera natura. E' così che bisogna fare, con questi quadri. Devi far finta di non vederli, di ignorarli. Poi ti volti lentamente, senza dar nell'occhio, mentre si sono dimenticati della tua importuna presenza, e loro sono lì veri e vivi, stavano facendo qualcos'altro e li hai colti di sorpresa. Le onde si muovono lentamente, e sembra di ascoltare il rumore della risacca; e, nel bosco non più banale ma incantato, di lato, da sinistra, un bagliore lontano del sole al tramonto mostra tutti i dettagli...

Gustave Courbet: La Foret En Automne

Lì vicino, la "fucilazione" di Manet, un piccolo quadro che ricorda il famoso Goya e che anticipa Picasso. E, di Monet, una "Veduta di Londra sotto la nebbia" che si direbbe un Folon. Tra i disegni (acqueforti) di Manet è bello il frate domenicano che dice: Silentium! Ma sull'altra parete ci sono i disegni di Auguste Renoir, ce ne sono tanti e molti sono capolavori. Poi risalgo, torno indietro e mi metto davanti ai quadri più famosi, finalmente liberi e abbastanza osservabili. E' sempre così nelle grandi mostre, e nei musei: i quadri più famosi sono quelli che si vedono peggio, perché c'è sempre molta gente intorno, magari intenta a fare inutili fotografie e filmati più o meno clandestini. Molto spesso ci sono sorprese, il quadro famoso che hai visto tante volte riprodotto sui giornali è più grande o più piccolo di quello che pensavi, e i colori sono sempre diversi (i colori giusti non vengono mai, sulle foto). Molto spesso c'è anche la delusione ad attenderci, di solito per via dell'illuminazione: troppa luce o troppo poca, o mal disposta ( terribili i riflessi di luce sui dipinti ad olio! ma illuminare bene i quadri è un'arte difficile). Ma qui non ci si può lamentare, le mostre sono sempre ben studiate e l'ambiente è giusto, né troppo grande né troppo piccolo, e ben illuminato. In questa mostra, il mio secondo quadro preferito è "La lezione di scrittura" di Renoir: dove Renoir figlio sembra una bambina, con i lunghi capelli biondi. E il viso del bambino rimanda alla simpatica faccia, quasi da uomo di neve, di Jean Renoir adulto come appare nel personaggio di Octave, in "La regola del gioco": ma questo è un altro discorso, e prima o poi bisognerà tornarci sopra, prima che troppa televisione e troppi videogames cancellino del tutto l'opera dei Renoir, padre e figlio.

(Questo brano si riferisce alla mostra di Renoir del 2002 alla Fondazione Mazzotta.)

Pierre Auguste Renoir: La lezione di scrittura (part)


lunedì 14 gennaio 2008

La celeste briccona




La celeste briccona
(Livre mon ami 14)

di Solimano



Nel 1760 Giuseppe Baretti ha quarantuno anni e vive in Inghilterra da quasi dieci anni. A metà agosto parte per un lungo viaggio che lo riporterà in Italia, attraverso il Portogallo, la Spagna e la Francia. E’ in compagnia di un giovane aristocratico inglese, Edward Southwell, a cui fa un po’ da pedagogo, ma in modo tutt’altro che pedante. Durante il viaggio, scrive lettere ai tre fratelli, Filippo, Giovanni ed Amedeo, che stanno in Italia. Chiaramente sa che pubblicherà questa corrispondenza, e difatti nel 1762 ne esce un primo volume col titolo “Lettere familiari a’ suoi tre fratelli”. Ma una serie di traversie anche censorie faranno sì che la prima edizione completa delle 83 lettere sarà pubblicata in lingua inglese a Londra solo nel 1770, col titolo piuttosto chilometrico “A journey from London to Genoa, trough England, Portugal, Spain and France”.

Il 21 settembre si trova ad Elvas, un paese portoghese vicino al confine spagnolo ed ha qualche difficoltà a trovare alloggio perché c’è la fiera ed in più le feste per il matrimonio dell’Infanta. Finalmente ci riesce e viene alloggiato in una stanza “la quale da una troia pregna sarebbe stata scambiata per la rispettabile abitazione delle sue antenatesse” , così scrive il Baretti alle tre di mattina del 22 settembre (Lettera XXXVI). Però c’è una “larga cameraccia” in cui si sta meno peggio, ed ecco come racconta il Baretti:

“Passeggiato un poco in su e giù, certi garzoncioni mulattieri uscirono d’una di quelle stanze, e uno d’essi cominciò a strimpellare una chitarra, e un altro a accompagnarlo con una canzoncina castigliana. I due musici avevano appena dato un cenno delle loro armoniche facoltà, che subito da quelle stanze a’ lati della cameraccia scapparon fuori da trenta e più persone, parte maschi e parte femmine; e per farla breve breve, in tre minuti si cominciò a ballare certi balli chiamati zighediglie e cert’altri chiamati fandanghi, che mi sollucherarono l’anima.
...
V’erano cinque o sei donne Portoghesi e quattro Spagnuole. Le Portoghesi erano mediocremente sudicie, mediocremente gialle, mediocremente brutte. Delle quattro Spagnuole una era vecchia e madre d’una giovinetta bruna e ben tarchiata; l’altre due erano due sorelle, la più giovane delle quali di quindici o di sedici anni sarebbe bella come la Venere de’ Medici, se la Venere de’ Medici fosse di carne e non di marmo. La sorella maggiore cedeva assai di bellezza alla minore, ma avea in testa due occhi... oh che occhi!

Per quel che intendo, sono quattro donne di Badajoz venute con alcuni maschi lor parenti a veder la fiera; e quella bella bella bella si chiama Catalina. Ho veduto ballare d’ogni razza ballerini dalla Dalmazia sino al Norte d’Inghilterra; ma torno a dirlo, che nessun ballo di più di cento diversi che forse ne ho visti a’ miei dì, non dà la metà gusto di quelli che questa gente ha pur ora ballati.

Eglino sono ballati sì da’ Portoghesi che dagli Spagnuoli talora al suono d’una o più chitarre, e talora al suono delle chitarre unito al canto sì degli uomini che delle donne. Eppure tanto gli uomini quanto le donne, appena muovono la persona ballando, le donne specialmente, il moto delle quali è incessante ma a stento sensibile. Nel ballare sì le donne che gli uomini scoppiettano tanto bene e tanto a tempo colle dita d’ambe le mani, scoccando il dito pollice col medio, e le donne picchiano tanto presto e tanto forte il suolo co’ calcagni e tanto a battuta, che gli è cosa d’andare in estasi a vederle, massime chi le vede per la prima volta, com’era il mio caso”.


Christina Hoyos e Laura Del Sol in "Carmen Story" (1983)

Giuseppe Baretti nella cameraccia si dà da fare, va ad offrire alle donne una torta e racconta che quelle lo ringraziano “facendomi col capo un inchinuccio per ciascuna, accompagnato da quattro leggiadre parolette”, ma quella sera nella cameraccia non finisce qui, perché:

“La sorella della bella Catalina, ch’era di fatto la ballerina più possente della brigata, e, per quanto mi parve, celatamente volonterosa di pagarmi della cortesia usata a lei e alle sue compagne, ballò poi una danza sola soletta, e fece tanto piccioli passi e tanti piccioli gesti e tanti piccioli graziosissimi moti e di testa e di spalle e di fianchi, ch’io me la sarei proprio mangiata e bevuta viva, massime quando mi ficcava un momento e di furto que’ suoi occhi negli occhi.

Poco dopo le tre si finì la festa, e ognuno andò a dormire per terra nel suo dato luogo. Sì, signori, tutti per terra, sino la stessa bella Catalina, e sino la sua fiammeggiante sorella, con tutto l’oro e l’argento e le fettucce e i nastri e le trine che avevano per le sottane e in capo e al collo”.


Il giorno stesso, alle sei di sera il Baretti scrive la Lettera XXXVII, e racconta la colazione del mattino e la barbitonsura, che era una specie di rito, ma poi torna sul tema della sorella della Catalina:

“Non occorre, fratelli, ch’io vi dica come in tutto il tempo della precedente festa io aveva guardati forse un po’ troppo spesso que’ lucidi diamanti di quegli occhi che la sorella della Catalina ha in fronte e che la strega mi mostrò con qualche mezza dozzina di sguardi furbeschissimi, qualmente s’era accorta della preferenza ch’io le dava sino sulla bellissima sorella.”

Ma ormai le strade si separano, i viaggiatori venuti dall’Inghilterra debbono proseguire il viaggio e la comitiva delle donne deve andare alla fiera e scendono giù per le scale, ma:

“quand’ecco la mia brunocchiuta Badajozana, che non è ancora giunta al più basso scaglione della scala, e che finge d’aver scordato in camera qualche cosa, e che torna su con leggerissima velocità, e che viene a dirittura a me e che mi scocca un biscottino sotto il mento, e che mi dice piano all’orecchio: Dios te dea mil años de bien, strangero. Alle quali improvvise parole, non trovandomi risposta pronta, le appiccai invece un bacio in bocca, uno sull’occhio diritto e uno sul sinistro, e prima che potessi ricoglier la mente e il fiato, quella celeste briccona mi scappò dalla vista come scappano i dardi ed i fulmini. “

Antonio Gades e Laura Del Sol in "Carmen Story" (1983)

Al Liceo Classico non mi fecero leggere niente del Baretti, che restò un nome fra i tanti citati nella Storia della Letteratura. Molti anni dopo lessi le parole del Baretti riguardo la Vita di Benvenuto Cellini, ecco un brano in cui Baretti descrive il carattere dell'artista:

“Si dipinse, dico, come sentiva d’essere, cioè animoso come un granatiere francese, vendicativo come una vipera, superstizioso in sommo grado, e pieno di bizzarria e di capricci; galante in un crocchio di amici, ma poco suscettibile di tenera amicizia; lascivo anzi che casto; un poco traditore senza credersi tale; un poco invidioso e maligno; millantatore e vano, senza sospettarsi tale; senza cerimonie e senza affettazione; con una dose di matto non mediocre, accompagnata da ferma fiducia d’essere molto savio, circospetto e prudente”.

Me ne ricordai il giorno che su una bancarella di libri a metà prezzo trovai un libro dalla copertina fra arancione e marrone. Era uno dei benemeriti Classici Ricciardi pubblicati da Einaudi e conteneva diversi scritti di Giuseppe Baretti a cura di Ettore Bonora. Fu così che cominciai a conoscerlo. Avrei voluto raccontare perché mi piace il Baretti, ma credo che qualche suo brano lo spieghi meglio di me. Era un italiano che scriveva senza problemi in inglese ed in francese, e tuttora, visto che era amico di Samuel Johnson e di Joshua Reynolds, credo sia più conosciuto in Inghilterra che nel suo paese.


Joshua Reynolds: La famiglia Clive (1765) Staatliche Museen, Berlino

sabato 12 gennaio 2008

Sogni e ricordi: gli esami di Maturità

Habanera


Gli esami di Maturità
(Do you remember?)


Ricordo le nottate trascorse a "ripassare" insieme alla mia amica del cuore.
Il rosso delle ciliegie in mezzo al tavolo pieno di libri, le sigarette che si consumavano nel posacenere mentre, distrattamente, ne accendevamo un'altra; i mille caffè ingurgitati per non lasciarci vincere dal sonno e quel profumo intenso d'estate, di gelsomino e di mare...

Ci facevamo a vicenda domande cattivissime, domande così "carogna" che neppure il più cinico degli esaminatori si sarebbe mai sognato di fare. Poi, con voce maschile burbera ed impaziente: "Su, su, signorina, risponda alla domanda! Le ho chiesto una cosa del tutto elementare."

Ogni tanto, nel cuore della notte, ci concedevamo una breve pausa ma con l'obbligo tassativo di non addormentarci. Ce ne stavamo sulle sdraio in terrazza a guardare le stelle, cercando di immaginare il futuro, incognita temuta e affascinante.
Parlavamo di tante cose, di ragazzi, di sogni, d'amore, ma il nostro problema più immediato era come affrontare l'esperienza del tutto nuova a cui andavamo incontro: l'Università.

Avendo già deciso che lei si sarebbe iscritta a Lettere, ed io a Medicina, soffrivamo all'idea di un'imminente separazione;
ci sembrava che il nostro piccolo mondo, fatto di tante cose in comune e di solide, affettuose certezze, stesse ormai per crollare.
Paura di crescere, di uscire dal guscio protettivo della scuola, di affrontare una vita da "adulti" che immaginavamo più libera ma anche molto più carica di responsabilità.


In quelle notti d'estate, in cui la tensione degli esami veniva stemperata dal calore e dalla forza dell'amicizia, giurammo solennemente che avremmo continuato a studiare insieme, nella stessa stanza, pur sapendo che le nostre materie sarebbero state tutte diverse.
Promessa che abbiamo mantenuto, almeno per i primi tempi.
Ma la vita, malgrado noi, corre avanti, ci trascina, ci cambia...

Un giorno, arrivando a casa di R. con i miei testi di Anatomia sotto il braccio, trovai una ragazza (iscritta a Lettere) che era venuta per studiare con lei: "Non ti dispiace, vero? Stiamo preparando un esame e sarebbe molto più facile per noi se potessimo studiare insieme"

Sì che mi dispiaceva, ed anche molto, ma sapevo che aveva ragione lei, che avrei fatto bene a trovarmi una compagna di studi della mia stessa facoltà; ed è proprio quello che feci.
Così, un po' alla volta, quasi senza rendercene conto, abbiamo iniziato una vita nuova e diversa, fatta di altre priorità, altri interessi, altri amici, finendo inevitabilmente per allontanarci.

Eppure la nostalgia rimane intatta: degli anni del liceo, di quelle notti di timori e speranze prima degli esami, di un'amicizia così complice e allegra, fiduciosa e totale, come non ho mai più ritrovato nella vita.




mercoledì 9 gennaio 2008

Maturità - I -




Maturità - I -

di Roby




Quella che mi propongo di fare è la cronaca in tempo (quasi) reale di come una maturanda 2008 (mia figlia) si appresti a vivere il suo (ahimè) non troppo lontano esame di stato... ovviamente alla completa insaputa della diretta interessata, che in caso contrario sarebbe capace di scotennarmi.
Ma andiamo per ordine, e partiamo subito con l'antefatto.
Tardo pomeriggio di ieri, martedì 8 gennaio. Io, in cucina, sto tentando di rabberciare qualcosa per la cena, quando attraverso la porta chiusa della cameretta percepisco una sorta di soffocato urlo di dolore: "Ahaaargh!!! Sono uscite le materie!!!!"
Tempo trenta secondi, e tutti i mezzi di comunicazione della casa (telefono fisso, cellulare, e-mail, messenger, skype ecc.) sono monopolizzati dalla figliuola, che appare chiaramente in preda ad un attacco isterico.
"Sì, sì -continua a rantolare, nel microfono, rivolta non si sa bene se a Vale, Giusy, Genny o Bea- italiano e matematica sono esterni, quindi di interni ci tocca francese e geografia... CAPISCI??? E' TERRIBILE!!!!"
L'interlocutrice, dall'altro capo del filo ( o del satellite?), ha evidentemente chiara la portata del problema, al contrario di me che, incautamente, tento di inserirmi nella conversazione "Scusa, tesoro, ma che vuol dire se..."
La pargoletta si rivolta come morsa da un serpente a sonagli della specie più velenosa: "MAMMA!!!! PER FAVORE!!!! COSA VUOI SAPERNE, TU???!!! Io sarò bocciata, anzi lo sarà mezza classe, e allora andremo tutti a lavorare, perchè col cavolo che io l'anno prossimo torno in quella scuola di m*** a ripetere la quinta!!!"
Dopodichè, riprende convulsamente a parlare al telefono, tenendo d'occhio contemporaneamente il video del computer. "Ecco, ci sono, sono sul sito del Ministero: aspetta che scarico il decreto... porca p***, ma quanto è lungo??? Mammaaaaaaa!!! Dov'è la carta per la stampante??? Datti una mossa e portamela qui ADESSO!!!!"
Con un sospiro rassegnato, eseguo, poi richiudo accuratamente la sua porta e torno alle preparazioni culinarie. Ma -mi chiedo con un ombra di preoccupazione- se all'8 di gennaio la situazione è questa, in che stato saremo a maggio??? Sarà una lunga, durissima lotta, giocata tutta sul filo dei nervi. Restate in linea. Vi terrò informati.




lunedì 7 gennaio 2008

Il Museo degli occhiali di Agordo




Il Museo degli occhiali di Agordo

di Giorgio Casera




Porto gli occhiali da quando avevo 15 anni, mi sono stati necessari per correggere la miopia, contratta per il vizio di accanito lettore, già da ragazzino. Nel tempo mi sono talmente abituato a portarli che sono diventati quasi una parte fisica di me (un po' come la fede matrimoniale) e così non ho mai pensato a correggere col laser, pratica ormai comune, i miei difetti di vista.
Ne ho sempre considerato la funzionalità piuttosto che l'estetica, anche quando sono diventati un accessorio di moda. Per farla breve, li considero ancora una protesi e non “un importante supporto per esternare la propria personalità”, come recitano i markettari.

Nonostante questo “disincanto”, quando, durante un soggiorno estivo ad Agordo, ho visto un manifesto riguardo un Museo degli Occhiali, non ho potuto resistere alla tentazione di visitarlo. Ed è stata una rivelazione: ho potuto ripercorrere la storia di questo strumento, l'evoluzione dei modelli, dei modi di indossarlo, delle tecnologie per produrre lenti e montature. Ho trascorso diverse serate al museo, provando sempre la stessa emozione da "scopritore": ho visto “trascorrere” 700 anni di civiltà in Europa, ma anche in Cina e in Persia, sia pure da una prospettiva particolare. Alla fine gli occhiali hanno acquistato un nuovo fascino ai miei occhi. Farò dunque un breve riassunto di quello che ho appreso.

***

Pare che l'inventore degli occhiali sia Ruggero Bacone, vissuto nel 1200, secondo cui “segmenti di sfere di vetro possono ingrandire i caratteri scritti fino a renderli leggibili anche a persone di vista debole”. I primi a mettere in pratica l'osservazione di Bacone sono probabilmente i maestri dell'arte vetraria del tempo, i veneziani e i toscani.

Nascono così le prime lenti correttive, ricavate dal Berillo, dal cristallo o dal vetro, all'inizio utilizzate singolarmente.
I primi occhiali sono ricavati dall'unione di due lenti, inserite in cerchi di rame, ferro o cuoio, unite da un perno (occhiali a compasso) e dotate di manici. Si dimostrano subito poco pratici per chi, come i monaci del tempo, dediti alla trascrizione dei testi antichi, doveva impegnare una mano a reggerli. Il perno viene allora sostituito da un arco tra le due lenti: così l'occhiale ad arco, appoggiato sul naso, ne rende più pratico l'utilizzo.

La prima testimonianza certa sul loro uso si ritrova in un affresco di Tomaso da Modena che ritrae il Cardinale
Ugo da Provenza intento alla lettura di libri sacri
con indosso, appunto, un paio di occhiali. L'affresco è del 1352 ed è conservato nel monastero attiguo alla chiesa di S. Nicolò a Treviso.

Nel 1462 Francesco Sforza, duca di Milano, ordina tramite il suo ambasciatore a Firenze tre dozzine di occhiali fiorentini, sia per la “vista lunga” che per la “vista corta”. L'oggetto, fino ad ora, è dunque privilegio dei monaci e di una ristretta cerchia di nobili e di dotti, ma, a partire dalla fine del XV secolo (scoperta dell'America etc) l'espansione delle attività commerciali fa si che la conoscenza degli occhiali si espanda in tutta l'Europa. Gli occhiali vengono prodotti in grande quantità e offerti da venditori ambulanti per le strade. Si diffonde la necessità di vedere meglio, e non solo nella vita quotidiana: vengono costruiti i primi cannocchiali e, più tardi, telescopi, microscopi e altri strumenti ottici che contribuiscono all'ampliamento delle conoscenze scientifiche.
Il problema di tenere le lenti fissate davanti agli occhi senza impacci per il movimento o per l'uso delle mani è sempre attuale. Una soluzione originale viene adottata sfruttando la parrucca che nobili e ricchi borghesi cominciano a portare dalla fine del '600: un'asta curva, che ad una estremità è fissata all'arco che congiunge le due lenti, accompagna la forma del capo sotto la parrucca o un copricapo (occhiali da parrucca).

All'inizio del '700 nasce invece il “Fassamano” (da face-a-main, occhiali da mano), occhiale che non viene appoggiato sul naso, ma tenuto in mano, spesso agganciato ad una catenella. Non è molto pratico ma viene usato come un vezzo che alla necessità unisce l'estetica. Viene infatti adottato dalla borghesia; per la quale vengono così realizzati dei veri e propri capolavori di oreficeria.

Un altro strumento ottico che caratterizza il secolo dei Lumi è il cannocchialino da teatro, che viene prodotto dai grandi artigiani orafi per gli stessi clienti.

Nello stesso periodo un ottico inglese (Scarlett) costruisce i primi occhiali con stanghette; non appoggiano ancora sulle orecchie ma premono sulle tempie (occhiali tempiali). Usa l'acciaio, materiale molto resistente, che permette di creare montature sottilissime. E' un passo fondamentale.

Nell'800 si afferma il modello “Stringinaso”
(pince-nez), ma nello stesso periodo compaiono le stanghette che si appoggiano alle orecchie e ne seguono le curve (occhiali con stanghette a riccio).
Siamo arrivati così all'”architettura” definitiva dell'oggetto. E' interessante notare come nell'ottocento vengano prodotti occhiali (vedi le foto con gli occhiali da sole) di linee decisamente moderne (non fanno venire in mente i Rayban?).
I diversi modelli convivono fino alla fine dell'800 quando, dopo una lunga “concorrenza”, si afferma definitivamente l'aspetto odierno, con due astine che si appoggiano alle orecchie, per un oggetto pratico e funzionale.

Nell'ultimo secolo della storia il design e i nuovi materiali impiegati fanno evolvere l'oggetto ancora lungo una linea di sobria funzionalità; negli ultimi decenni, però, come è noto, gli stilisti lo hanno acquisito come parte dell'abbigliamento personale; nel mondo della moda l'occhiale subisce lo stesso destino di un qualsiasi capo di abbigliamento: ogni stilista tende a differenziarsi dagli altri ed ogni stagione è foriera di nuovi modelli. Eccone alcuni esemplari



Nota sul Museo e dolens finale.



Il Museo nasce da una base costituita dalla raccolta di un ottico genovese di origini austriache, Fritz Rathschüler, di circa 1200 pezzi. La raccolta viene acquistata dalla Luxottica, multinazionale dell'occhiale con sede ad Agordo, che la integra successivamente. Il Museo viene inaugurato nel 1991, con l'esposizione di fassamani, lorgnette, stringinaso, cannocchiali e binocoli da teatro, occhiali da parrucca, tempiali, microscopi, strumenti ottici come cannocchiali astronomici e terrestri etc. Negli ultimi anni il museo viene ampliato per comprendere macchinari (d'epoca) per la fabbricazione degli occhiali e una biblioteca sulla storia dell'ottica. Tutto molto bello.
Però…
Il museo è privato e generalmente chiuso al pubblico. La Luxottica lo utilizza come veicolo di marketing verso clienti e fornitori. Ho potuto visitarlo solo perché in agosto, in occasione di manifestazioni per l'intrattenimento dei turisti, la Luxottica ne ha disposto l'apertura, una sera alla settimana, a seguito della sollecitazione dell'Associazione Commercianti di Agordo.
E' un vero peccato, per il suo contenuto meriterebbe di essere aperto in permanenza. Auguro agli interessati di capitare ad Agordo in qualche straordinaria circostanza che ne provochi l'apertura.
(1 ottobre 2005)

Pubblicato anche su Arengario: I bei momenti