lunedì 14 gennaio 2008

La celeste briccona




La celeste briccona
(Livre mon ami 14)

di Solimano



Nel 1760 Giuseppe Baretti ha quarantuno anni e vive in Inghilterra da quasi dieci anni. A metà agosto parte per un lungo viaggio che lo riporterà in Italia, attraverso il Portogallo, la Spagna e la Francia. E’ in compagnia di un giovane aristocratico inglese, Edward Southwell, a cui fa un po’ da pedagogo, ma in modo tutt’altro che pedante. Durante il viaggio, scrive lettere ai tre fratelli, Filippo, Giovanni ed Amedeo, che stanno in Italia. Chiaramente sa che pubblicherà questa corrispondenza, e difatti nel 1762 ne esce un primo volume col titolo “Lettere familiari a’ suoi tre fratelli”. Ma una serie di traversie anche censorie faranno sì che la prima edizione completa delle 83 lettere sarà pubblicata in lingua inglese a Londra solo nel 1770, col titolo piuttosto chilometrico “A journey from London to Genoa, trough England, Portugal, Spain and France”.

Il 21 settembre si trova ad Elvas, un paese portoghese vicino al confine spagnolo ed ha qualche difficoltà a trovare alloggio perché c’è la fiera ed in più le feste per il matrimonio dell’Infanta. Finalmente ci riesce e viene alloggiato in una stanza “la quale da una troia pregna sarebbe stata scambiata per la rispettabile abitazione delle sue antenatesse” , così scrive il Baretti alle tre di mattina del 22 settembre (Lettera XXXVI). Però c’è una “larga cameraccia” in cui si sta meno peggio, ed ecco come racconta il Baretti:

“Passeggiato un poco in su e giù, certi garzoncioni mulattieri uscirono d’una di quelle stanze, e uno d’essi cominciò a strimpellare una chitarra, e un altro a accompagnarlo con una canzoncina castigliana. I due musici avevano appena dato un cenno delle loro armoniche facoltà, che subito da quelle stanze a’ lati della cameraccia scapparon fuori da trenta e più persone, parte maschi e parte femmine; e per farla breve breve, in tre minuti si cominciò a ballare certi balli chiamati zighediglie e cert’altri chiamati fandanghi, che mi sollucherarono l’anima.
...
V’erano cinque o sei donne Portoghesi e quattro Spagnuole. Le Portoghesi erano mediocremente sudicie, mediocremente gialle, mediocremente brutte. Delle quattro Spagnuole una era vecchia e madre d’una giovinetta bruna e ben tarchiata; l’altre due erano due sorelle, la più giovane delle quali di quindici o di sedici anni sarebbe bella come la Venere de’ Medici, se la Venere de’ Medici fosse di carne e non di marmo. La sorella maggiore cedeva assai di bellezza alla minore, ma avea in testa due occhi... oh che occhi!

Per quel che intendo, sono quattro donne di Badajoz venute con alcuni maschi lor parenti a veder la fiera; e quella bella bella bella si chiama Catalina. Ho veduto ballare d’ogni razza ballerini dalla Dalmazia sino al Norte d’Inghilterra; ma torno a dirlo, che nessun ballo di più di cento diversi che forse ne ho visti a’ miei dì, non dà la metà gusto di quelli che questa gente ha pur ora ballati.

Eglino sono ballati sì da’ Portoghesi che dagli Spagnuoli talora al suono d’una o più chitarre, e talora al suono delle chitarre unito al canto sì degli uomini che delle donne. Eppure tanto gli uomini quanto le donne, appena muovono la persona ballando, le donne specialmente, il moto delle quali è incessante ma a stento sensibile. Nel ballare sì le donne che gli uomini scoppiettano tanto bene e tanto a tempo colle dita d’ambe le mani, scoccando il dito pollice col medio, e le donne picchiano tanto presto e tanto forte il suolo co’ calcagni e tanto a battuta, che gli è cosa d’andare in estasi a vederle, massime chi le vede per la prima volta, com’era il mio caso”.


Christina Hoyos e Laura Del Sol in "Carmen Story" (1983)

Giuseppe Baretti nella cameraccia si dà da fare, va ad offrire alle donne una torta e racconta che quelle lo ringraziano “facendomi col capo un inchinuccio per ciascuna, accompagnato da quattro leggiadre parolette”, ma quella sera nella cameraccia non finisce qui, perché:

“La sorella della bella Catalina, ch’era di fatto la ballerina più possente della brigata, e, per quanto mi parve, celatamente volonterosa di pagarmi della cortesia usata a lei e alle sue compagne, ballò poi una danza sola soletta, e fece tanto piccioli passi e tanti piccioli gesti e tanti piccioli graziosissimi moti e di testa e di spalle e di fianchi, ch’io me la sarei proprio mangiata e bevuta viva, massime quando mi ficcava un momento e di furto que’ suoi occhi negli occhi.

Poco dopo le tre si finì la festa, e ognuno andò a dormire per terra nel suo dato luogo. Sì, signori, tutti per terra, sino la stessa bella Catalina, e sino la sua fiammeggiante sorella, con tutto l’oro e l’argento e le fettucce e i nastri e le trine che avevano per le sottane e in capo e al collo”.


Il giorno stesso, alle sei di sera il Baretti scrive la Lettera XXXVII, e racconta la colazione del mattino e la barbitonsura, che era una specie di rito, ma poi torna sul tema della sorella della Catalina:

“Non occorre, fratelli, ch’io vi dica come in tutto il tempo della precedente festa io aveva guardati forse un po’ troppo spesso que’ lucidi diamanti di quegli occhi che la sorella della Catalina ha in fronte e che la strega mi mostrò con qualche mezza dozzina di sguardi furbeschissimi, qualmente s’era accorta della preferenza ch’io le dava sino sulla bellissima sorella.”

Ma ormai le strade si separano, i viaggiatori venuti dall’Inghilterra debbono proseguire il viaggio e la comitiva delle donne deve andare alla fiera e scendono giù per le scale, ma:

“quand’ecco la mia brunocchiuta Badajozana, che non è ancora giunta al più basso scaglione della scala, e che finge d’aver scordato in camera qualche cosa, e che torna su con leggerissima velocità, e che viene a dirittura a me e che mi scocca un biscottino sotto il mento, e che mi dice piano all’orecchio: Dios te dea mil años de bien, strangero. Alle quali improvvise parole, non trovandomi risposta pronta, le appiccai invece un bacio in bocca, uno sull’occhio diritto e uno sul sinistro, e prima che potessi ricoglier la mente e il fiato, quella celeste briccona mi scappò dalla vista come scappano i dardi ed i fulmini. “

Antonio Gades e Laura Del Sol in "Carmen Story" (1983)

Al Liceo Classico non mi fecero leggere niente del Baretti, che restò un nome fra i tanti citati nella Storia della Letteratura. Molti anni dopo lessi le parole del Baretti riguardo la Vita di Benvenuto Cellini, ecco un brano in cui Baretti descrive il carattere dell'artista:

“Si dipinse, dico, come sentiva d’essere, cioè animoso come un granatiere francese, vendicativo come una vipera, superstizioso in sommo grado, e pieno di bizzarria e di capricci; galante in un crocchio di amici, ma poco suscettibile di tenera amicizia; lascivo anzi che casto; un poco traditore senza credersi tale; un poco invidioso e maligno; millantatore e vano, senza sospettarsi tale; senza cerimonie e senza affettazione; con una dose di matto non mediocre, accompagnata da ferma fiducia d’essere molto savio, circospetto e prudente”.

Me ne ricordai il giorno che su una bancarella di libri a metà prezzo trovai un libro dalla copertina fra arancione e marrone. Era uno dei benemeriti Classici Ricciardi pubblicati da Einaudi e conteneva diversi scritti di Giuseppe Baretti a cura di Ettore Bonora. Fu così che cominciai a conoscerlo. Avrei voluto raccontare perché mi piace il Baretti, ma credo che qualche suo brano lo spieghi meglio di me. Era un italiano che scriveva senza problemi in inglese ed in francese, e tuttora, visto che era amico di Samuel Johnson e di Joshua Reynolds, credo sia più conosciuto in Inghilterra che nel suo paese.


Joshua Reynolds: La famiglia Clive (1765) Staatliche Museen, Berlino

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