La guerra. Si fa presto a parlarne quando si è lontani, quando non ne siamo coinvolti, quando non l’abbiamo conosciuta né vista da vicino. Si fa presto a leggerla sui libri di storia e a giudicare chi ha ragione o chi ha torno, chi è più forte o più debole, chi ha vinto o chi ha perso, cosa si doveva o non si doveva fare.
La guerra non la si conosce mai abbastanza ed è per questo che chi l’ha subita sente il bisogno di raccontarla in tutte le sue sfaccettature, in tutte le sue contraddizioni, in tutto ciò che fa nascere e morire in chi ci è stato dentro.
La guerra distrugge tutto quello che incontra sulla propria strada.
Non bisogna aver paura di leggere chi è stato testimone, non bisogna temere di soffrire o di star male.
Dobbiamo conoscerlo il male, fino in fondo, per aver la speranza di poterlo evitare.
Per questo vi propongo Liberazione del grandissimo scrittore ungherese Sándor Márai, scritto tra il luglio e il settembre del 1945. E' la testimonianza dell’orrore della guerra che Budapest fu costretta a vivere tra l’occupazione nazista, i rastrellamenti dei fascisti, i bombardamenti degli alleati e l’assedio dei russi.
Ve lo consiglio perché protagonista è la gente comune, perché è uno spaccato di come davvero si possa cambiare e diventare come mai potremmo immaginare di diventare.
L’assedio dei russi è all’inizio invisibile; ma di giorno, di notte, il rombo dei cannoni, il ronzio degli aerei, come maestosi uccelli indifferenti alla morte, si fa sentire continuo e insistente come un rumore di sottofondo di una grande macchina da guerra. E cadono le bombe; i palazzi della città prendono fuoco; i ponti crollano nel fiume, la gente muore sotto le macerie.
Correva voce che "…i russi incendiavano i villaggi e le città, uccidevano gli abitanti, non risparmivano nemmeno i neonati” e si bollava “chi non fuggiva dai russi come traditore della patria, boia della propria famiglia! Tutta propaganda dicevano battendo i denti. In realtà nessuno sapeva nulla di certo. I russi erano ormai vicini, a pochi chilometri, e ancora nessuno sapeva nulla. Come se una fitta nebbia fosse calata tra il mondo conosciuto e i russi; tendere la mano verso di loro era tenderla nella nebbia”.
Con questa ansia gli ungheresi attendevano a Budapest la liberazione, con tutto quello che comportava.
Tutto era pronto, tutti erano in attesa senza poter far nulla: “qualcosa sta per accadere”, l’unica vera compagna era la paura. La paura dell’ignoto, la paura degli stessi connazionali, in particolare di quelli “con le croci frecciate, gli ungheresi dell’estrema destra filonazista rimasti bloccati in città” e che “osservano sospettosi, sbattendo le palpebre, questi inequivocabili preparativi (…) Le croci frecciate si aggirano per le strade, giorno e notte, in gruppo, con la fascia al braccio, i mitra, silenziosi e in agguato, come una banda di spaventosi selvaggi, adolescenti lasciati a loro stessi, a una specie di mostruoso gioco di indiani e cowboy, alla ricerca di vittime e bottino (…) si aggirano nell’oscurità nebbiosa della gelida sera di dicembre in caccia di ebrei e oppositori politici, per poi ammazzarli all’ultimo momento in riva al Danubio, dove è facile sbarazzarsi di una vittima.”
La paura dei russi che non conoscevano.
Ci si prepara, quindi, all’assedio, e si pensa “Non può durare a lungo… Che cosa? Ma quel che è cominciato, no? L’assedio o la guerra? (...) L’assedio e la guerra sono soltanto delle conseguenze.
Ma quello che non può durare a lungo, che presto avrà fine, che è davvero intollerabile, è l’odio.
Quel lampo negli occhi degli uomini. L’odio con il quale si guardano, negli scantinati bui e nelle strade ancora più buie, o di giorno, al di sopra dei cadaveri coperti con la carta da pacco. Quello sguardo nel quale arde una luce oscura, lo sguardo che è negli occhi di tutti.
Vi si legge l’odio, la paura, il senso di colpa, la crudeltà, la furia delirante, l’avidità che digrigna i denti. E’ questo che non può durare ancora a lungo, è questa luce oscura che deve spegnersi nel mondo.
Perché la guerra cambia gli uomini, li cambia nel profondo dell’animo, ne uccide sentimenti e sfumature e l’unica parola che ha senso è “sopravvivenza”, a volte a tutti i costi.
Erzsébet, la protagonista del romanzo, ha bisogno di credere che l’assedio della città avrebbe avuto un termine e che le cose sarebbero tornate a funzionare bene.
Lei, figlia di un astronomo braccato dai fascisti per la libertà delle sue idee e per non essersi piegato ai voleri dei nazisti, cerca disperatamente un rifugio sicuro per il padre in un momento in cui “tutti erano stanchi. Solidarietà, compassione, ogni sentimento di umanità si era spento nell’animo delle persone. Ognuno da un momento all’altro, si aspettava la morte, la bomba, il proiettile di un mortaio, o un mutamento, un’improvvisa svolta della situazione di cui nessuno era in grado di prevedere le conseguenze”
E riuscirà a nasconderlo in una cantina dove viene letteralmente murato, insieme ad altre cinque persone.
"Per tutta la vita suo padre aveva guardato le stelle e adesso affondava la faccia nel terreno fangoso e argilloso di quello scantinato...”.
Anche lei si rifugerà nello scantinato di un palazzo dove sperimenterà la coabitazione forzata, il contatto dei corpi, gli odori dell' unica latrina mischiati a quelli del cibo, la mancanza dell' aria e dell' acqua, la sporcizia: un vero e proprio inferno. E proverà l' ansia per un futuro ignoto, la paura delle delazioni, le incursioni delle croci frecciate che con le loro torce fendono il buio fino a scovare l'ultimo ebreo innocente da consegnare alla morte.
Erzsébet dorme fra un professore paralitico e una giovane donna ebrea scampata a un Lager, nel quale ha avuto la famiglia distrutta. E sono loro che le apriranno gli occhi: “No,” dicono, "non cambierà nulla, la sofferenza non migliora gli uomini”: quel "qualcosa che va al di là,” in cui lei crede, non esiste. La sofferenza non educa all’amore, né l’amore libera dalla miseria.
Esiste un solo genere di liberazione: “chi è abbastanza forte da riconoscere la realtà della propria natura, chi è così forte, è vicino alla liberazione. L’accetta senza sentirsi offeso, perché quella è la realtà.”
Una lezione che Erzsébet – troppo giovane per capire – imparerà sulla propria pelle. Una lezione che tutto il popolo ungherese, sembra dirci Márai, avrebbe fin troppo presto dovuto apprendere.
Non ci sarà infatti alcuna liberazione per Erzsébet, né per l’Ungheria, perché gli uomini si assomigliano troppo nell’odio e il pericolo del dispotismo è sempre alle porte.
La liberazione per Erzsébet arriverà con i russi, ma niente può essere più come prima. La guerra ha lasciato agli uomini una tremenda, nuova consapevolezza, di quanto male possa rendersi colpevole la natura umana..
Erzsébet è ormai disincantata e così inizia il suo viaggio in un mondo post-bellico. “Cammina in fretta, come si stesse dirigendo verso una meta ben precisa e gioiosa. Ma il suo cuore è vuoto. Non vede nessuna meta. Quel che vede è la strada devastata dalle ferite dell’assedio, ricoperta di vetri in frantumi e di calcinacci, nella gelida luce dell’alba di gennaio che la ricopre con una specie di sudicio lenzuolo (...)”
“Io quando sarò libera? pensa Erzsébet, e non riesce più a proseguire. Che cosa sarà mai, la libertà?... Fissa la nebbia, il fumo e il fuoco”.
(giovedì, 08 gennaio 2009)
Da Pensare in un'altra luce
7 commenti:
Grazie Giulia, un post bellissimo, così importante oggi, i cui si generalizza e si classifica con superficialità.
D'istinto, mi viene sempre di lasciar perdere, con questi autori: penso sempre di essere già abbastanza informato, su quello che è successo in quegli anni so molto, quello che può bastare insomma (per il mio livello).
Poi so che me ne devo pentire, di questo sorvolare, quando per caso leggo una pagina o due di autori come Marai...
Ho letto il post due volte: la prima di corsa, frettolosamente, assillata dalla connessione "singhiozzante". Poi più lentamente, più rilassata, più attenta.
Giulia, quello che scrivi ( e che scrive Marai) scava nel profondo, profondo come quel sottoscala fangoso da dove non si vedono le stelle. Post bello, ma atroce.
Baci veloci (approfittando della rete che "regge")
Roby
Ricordo di aver letto questo libro, bellissimo e terribile, con un coinvolgimento totale.
Márai è uno scrittore lucido, analitico, con una capacità straordinaria di analizzare e di descrivere l'animo umano con le sue tante ambiguità. Si chiude questo libro con un senso profondo di amarezza ma anche con una consapevolezza maggiore di se stessi.
Grazie, Giulia
H.
Giulia, ho avuto modo, a suo tempo, di visitare Berlino Est molto prima della caduta del muro. Erano già passati molti anni dalla guerra, ma tutto era in mano ai russi, che comandavano e che, ho imparato dopo, avevano occupato per anni con estrema pesantezza la Germania dell'Est. I russi avevano pagato un prezzo terribile nella seconda guerra mondiale, e questo prezzo fu pagato dai civili (uomini e donne) per diversi anni. Efferatezze di ogni tipo di cui si continuerà a non parlare per molto. Difatti la prima insurrezione contro i russi non avvenne in Ungheria, ma proprio nella Germania dell'Est tre anni prima. Ma quasi nessuno ne parlò, tanto gli insorti erano tedeschi. Per anni l'odio, non si riversò solo sui nazisti, ma sui tedeschi in quanto tali. Questa situazione, comprensibile e durissima, durò per vent'anni.
grazie Giulia e saludos
Solimano
Scusatemi, arrivo ora... In questi giorni non avevo avuto molto tempo e non mi ero accorta di essere ospite qui. Grazie Habanera, le immagini sono bellissime, come sempre.
Questo libro, mi ha davvero preso, come dite voi è di una lucidità e di una profondità che mi ha lasciato davvero senza fiato. Io credo che della guerra non si sappia mai abbastanza soprattutto per come questa incide l'animo umano anche di chi non è in prima linea. Lo so Roby è atroce, ma il male bisohìgna conoscerlo per combatterlo.
Marai per me è eccezionale in questo e soprattutto, come giustamente dice Habanera, nello scavare dentro l'uomo e rivelarne tutti gli aspetti ambigui.
Solimano, dobbiamo ancora scoprire molte storie...
Grazie per avermi ospitata anche qui,
Giulia
Bisognera' leggerlo, questo libro. Anche se a leggerne il tuo resoconto sembra gia' d'averlo iniziato.
Graie, Maz
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