giovedì 13 settembre 2007

Invernale



Invernale

di Guido Gozzano



«...cri...i...i...i...icch...»
l'incrinatura
il ghiaccio rabescò, stridula e viva.
«A riva!» Ognuno guadagnò la riva
disertando la crosta malsicura.
«A riva! A riva!...» Un soffio di paura
disperse la brigata fuggitiva.

«Resta!» Ella chiuse il mio braccio conserto,
le sue dita intrecciò, vivi legami,
alle mie dita. «Resta, se tu m'ami!»
E sullo specchio subdolo e deserto
soli restammo, in largo volo aperto,
ebbri d'immensità, sordi ai richiami.

Fatto lieve così come uno spetro,
senza passato più, senza ricordo,
m'abbandonai con lei, nel folle accordo,
di larghe rote disegnando il vetro.
Dall'orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro...
dall'orlo il ghiaccio fece cricch, più sordo...

Rabbrividii così, come chi ascolti
lo stridulo sogghigno della Morte,
e mi chinai, con le pupille assorte,
e trasparire vidi i nostri volti
già risupini lividi sepolti...
Dall'orlo il ghiaccio fece cricch, più forte...

Oh! Come, come, a quelle dita avvinto,
rimpiansi il mondo e la mia dolce vita!
O voce imperiosa dell'istinto!
O voluttà di vivere infinita!
Le dita liberai da quelle dita,
e guadagnai la ripa, ansante, vinto...

Ella solo restò, sorda al suo nome,
rotando a lungo, nel suo regno solo.
Le piacque, alfine, ritoccare il suolo;
e ridendo approdò, sfatta le chiome,
e bella ardita palpitante come
la procellaria che raccoglie il volo.

Non curante l'affanno e le riprese
dello stuolo gaietto femminile,
mi cercò, mi raggiunse tra le file
degli amici con ridere cortese:
«Signor mio caro grazie!» E mi protese
la mano breve, sibilando: «Vile!».


Van de Velde: Scena invernale (part.) 1618 Monaco, Alte Pinakothek

8 commenti:

mazapegul ha detto...

Questa poesia ironica e sinistra e realistica mi ricorda, per contrappunto e simiglianza, un poemetto di Pascoli.

"Digitale Purpurea "

I
Siedono. L'una guarda l'altra. L'una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna,

l'altra... I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono. «E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti

più?» «Non più, cara.» «Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;

quei piccoli anni così dolci al cuore...»
L'altra sorrise. «E di': non lo ricordi
quell'orto chiuso? i rovi con le more?

i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di...?»

«morte: sì, cara». «Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.

Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l'aria; un suo vapor che bagna
l'anima d'un oblìo dolce e crudele.

Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;

e l'una e l'altra guardano lontano.

II

Vedono. Sorge nell'azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d'incenso.

Vedono; e si profuma il lor pensiero
d'odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d'innocenza e di mistero.

E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche...

Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate

oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d'un tratto (perché mai?) piangete...

Piangono, un poco, nel tramonto d'oro,
senza perché. Quante fanciulle sono
nell'orto, bianco qua e là di loro!

Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.

In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,

l'alito ignoto spande di sua vita.

III

«Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani
si premono. In quell'ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.

Memorie (l'una sa dell'altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d'un ultimo saluto!

«Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!»
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io,»

mormora, «sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a

ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d'un sogno che notturno arse e che s'era
all'alba, nell'ignara anima, spento.

Maria, ricordo quella grave sera.
L'aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M'inoltrai leggiera,

cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi... (l'altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido...) si muore!»

Habanera ha detto...

Bello questo confronto Gozzano-Pascoli!

H.

Solimano ha detto...

Nicola, l'accostamento è impeccabile. Mi sono venuti in mente alcuni concerti milanesi di quartetti d'archi San Maurizio o al Vivaio, in cui il programma intelligentemente comprendeva l'ultimo Haydn, uno dei sei quartetti dedicati ad Haydn da Mozart e il primo Beethoven. Emergevano ugualmente forti le differenze e le vicinanze.
E' probabile che Gozzano conoscesse Digitale purpurea, pubblicata nei Primi poemetti del 1904, mentre Invernale è nei Colloqui pubblicati nel 1911.
Il tema è lo stesso, la metafora completamente diversa ma anche contigua (il pericolo del ghiaccio che si incrina ed il pericolo del fiore velenoso), come diversa ne è l'origine concreta, che nel caso del Pascoli può essere la tragedia del tutto inutile per il matrimonio della sorella Ida.
Analoga è la totale immersione nel tempo poetico di quegli anni, e sul livello è del tutto improprio fare classifiche, sono due poesie altissime. Sento di più, personalmente, la suprema eleganza di Gozzano, che ne ha altre su questo tema, e sono sempre fra le migliori, anche se il peggio di Gozzano non l'ho ancora trovato, mentre del Pascoli sì. A me Gozzano, facendo un improprio salto culturale, fa venire in mente il Crivelli, che ha la stessa impeccabilità, e per conto suo continuò per trent'anni a lavorare nel sud delle Marche (difatti il Vasari non ne parla perché ne ignorava l'esistenza), senza avere alcun aspetto minimamente provinciale.
Sono unite anche da un altro aspetto: queste due poesie molto raramente si leggono a scuola, a parte che di Gozzano a scuola non si legge praticamente nulla.

grazie e ciao
Solimano

mazapegul ha detto...

Caro Primo,
nella mia classe mi ritrovai a essere l'unico gozzaniano in mezzo a una folla di dannunziani. Dopo aver lungamente vissuto, mi sento ancor più tale.
E' notevole come Gozzano rovesci il luogo romantico di amore&morte, arrivato a lui dopo il riflusso -per così dire- postromantico, in cui l'associazione della morte all'amore non era più solo fatalmente necessaria, ma voluttuosamente ricercata. (Mi vengono in mente alcuni quadri preraffaelliti, che non mi sono mai piaciuti, o alcuni racconti del tardo Ottocento, e persino, ma più sottilmente, il poemetto di Pascoli).
Questa voluttà è presente doppiamente nel poemetto di Gozzano: nell'insistere tra ironico e realitico dello scric; nella misteriosa volontà di morte della ragazza. Che poi è, assai poeticamente, leggibile in più maniere: vera ragazza (veramente femminile la contraddizione tra il sorridente ringraziamento e l'ingiuria sussurrata); ma anche simbolo della poesia mortuaria che lo precede (e qui siamo nel rovesciamento ironico) - e che Gozzano rifiuta; e infine simbolo di ciò che è, perchè -in fondo in fondo- la voluttà dell'"amore a morte" Gozzano, che era giovane e pure malato, doveva sentirlo.
At salud,
Nicola

Giuliano ha detto...

A me piace questo giocare con le parole e con le rime. Qui non si tratta della famosa "licenza poetica", è proprio un modo di giocare (e di espressione: la rima "sbilenca" fa il paio con la storiellina che viene raccontata).

mazapegul ha detto...

A Imola dev'esserci un piccolo gozzanino. La sua ex fidanzata ha istoriato il sottopassaggio della stazione con le sue giuste recriminazioni e una profezia assai in tema col tema della nostra discussione:

"Morirai giovane come dicevi sempre."

Magari raccolgo il corpus graffitico completo e ve lo spedisco.

Solimano ha detto...

Eppure... eppure... Gozzano non era un gozzaniano, e l'etichetta che gli hanno apposto è ingenerosa, è semplicemente morto giovane per una malattia allora quasi incurabile. Ho provato a suo tempo a leggere qualcosa di Corazzini, quello sì che è un crepuscolare.
Gozzano aveva una grande curiosità e una fantasia inesauribile, praticamente in ogni suo verso c'è una idea nuova rispetto al verso precedente. Una musicalità che aveva anche delle incredibili sprezzature al limite della dissonanza, senza mai nessuna goffaggine. Molte sue poesie sono piene di erotismo che l'ironia (e l'autoironia) non maschera mai del tutto, aggiunge finezza, non toglie forza.
Poi, e non sarete d'accordo con me, a me piace anche un certo D'Annunzio, che non è poi così lontano dagli altri due. Lui e Pascoli si annusavano, probabilmente si capivano e non polemizzarono mai, eppure come vita privata non ci poteva essere una differenza maggiore di quella che c'era fra loro due.
Ma ci torneremo fra un po' di tempo, stiamo sul confronto-accordo che ha giustamente inserito Nicola. Per quanto riguarda il giocare con le parole di cui dice Giuliano, un poeta deve, anche giocare con le parole. E' un modo per tenersi leggero, se no il rischio del goffo e del plumbeo c'è sempre. Anche il Pascoli era un giocoliere, nessun'altro poteva inventare "le sonanti camerate".

saludos
Solimano

mazapegul ha detto...

Quello che intendevo, Solimano, è che Gozzano -anche in questo poemetto- è efficace perchè sa muoversi contemporaneamente su almeno tre piani diversi: (1) il livello letterale esteriore e minimalista del "plazer" piccolo-borghese, (2) quello interiore in cui c'è oscillazione continua tra i due poli di amore-morte e vita-comunque, (3) quello che emerge dallo stile, che ironicamente -appunto- fa cozzare i due livelli precedenti tra loro. A questi aggiungerei un livello (4) di poetica, in cui la fanciulla è la seduzione dannunziana che, a malincuore perchè affascinante, il poeta si decide a lasciare alle sue danze ferali (non senza ripensamento, però).

Si potrebbe fare su abbracci e popcorn una serie sui pericoli del ghiaccio cedevole e sul loro valore simbolico: a me vengono in mente l'Aleksander Nevsky (e una sua tarda parodia in un film americano), il Decalogo di Kiesslowsky, un film di Atom Egoyan, e ho alte immagini che non riesco adesso ad associare a storie, titoli o registi.
Ciao, Nicola