Ho conosciuto Indro Montanelli a Milano, ero molto giovane; allora frequentavo l’Accademia di Belle Arti di Brera. lui era amico di miei carissimi amici. Quando penso a Indro, l’ immagine che ho immediata è il mio primo voto elettorale, in via della Spiga, accompagnata sottobraccio da Indro e da Maner Lualdi, altrettanto famoso giornalista corrispondente di guerra del Corriere della Sera, e audace trasvolatore oceanico, al quale si deve, tra l’altro, la creazione del Teatro S.Erasmo di Milano, il primo teatro a palcoscenico circolare. E’ un’immagine tenera e calda. Col tempo Indro mi regalò la sua amicizia. Voglio ricordarlo con un brano di un suo scritto inedito da "La mia Firenze" di proprietà della "Fondazione Indro Montanelli" di Fucecchio.
“Ancora oggi, i giardini di Firenze non sono giardini. Sono orti: con l’ulivo, il fico, il cipresso. Il fiore che vi si coltiva non è la rosa, ma il giaggiolo.(…) Al giardino- orto di città faceva da contrappunto l’orto-giardino del contado(neanche i secoli hanno cancellato, oggi, nei fiorentini la vocazione agreste, l’amore della campagna e il rimpianto del castello, che ora è diventato villa o fattoria). Il paesaggio toscano è un capolavoro d’armonie, et pour cause. Alla sua base c’è un miracolo d’intelligenza e di gusto, di cui nel mondo non ho visto l’eguale, una concezione rigorosa e asciutta delle linee e delle proporzioni che nulla concede al superfluo e che riflette plasticamente quelle qualità essenziali del “genio fiorentino” che si ritrovano anche nelle sue espressioni artistiche. Confrontando il paesaggio d’oggi con gli sfondi dei quadri del Quattro e del Cinquecento, vien da chiedersi se sono stati i pittori a copiare i contadini, o i contadini, i pittori. Negli uni e negli altri c’è lo stesso rifiuto dell’ornato e per l’ornato, del barocco, del languido, del grazioso, la stessa allergia al retorico e al superfluo, lo stesso nitore di luci, la stessa ascetica secchezza di disegno. E’ questo che fa lo “stile”toscano, anzi lo ribadisco, fiorentino: e lo si ritrova tal quale in una tela di Benozzo, in una pagina di Guicciardini o di Machiavelli, o in un podere del Chianti o del Valdarno. Il Lombardo Cattaneo chiamò la Toscana “un immenso deposito di fatiche”. Ed è vero. Ci sono voluti secoli di assiduità senza pause per fecondare questa terra avara, per addolcirne senza sbavature i contorni, per vestirla d’alberi, per fissarne i volumi, per trovare i giusti rapporti fra città e campagna, fra bosco e coltivo. Ma oggi già pochi anni d’abbandono stanno dimostrando quanto sia facile che sterpi e gramigna invadano i poderi, e che il selvatico prenda il sopravvento, come si vede qua e là, col rischio che per sempre si guasti questo difficile equilibrio, basato com’è su un implacabile controllo di muscoli e d’intelligenza”.
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