Delio Tessa e lettrici
di Giuliano
Pissatoj di temp andaa,
alla bonna, sul canton,
nient pretes e invernisaa
con ona man de godron;
senza lussi e senza gioeugh
de idraulica, ma a loeugh!
(...)
alla bonna, sul canton,
nient pretes e invernisaa
con ona man de godron;
senza lussi e senza gioeugh
de idraulica, ma a loeugh!
(...)
Comincia così una poesia di Delio Tessa (1886-1939), famosa a Milano perchè fu una delle pochissime pubblicate mentre il grande poeta milanese era ancora in vita. In realtà, l’avocatt Delio Tessa aveva ripreso, per divertimento, una poesia milanese precedente: il grande studioso di cose milanesi Dante Isella ci spiega che si tratta di un’opera di Giosafatte Rotondi (1890-1970), anche lui avvocato e “Capo Ripartizione degli Uffici d’Anagrafe del Comune di Milano”.
Rotondi l’aveva intitolata “Laudator temporis acti”; Tessa la intitola “I pissatoj vecc de Milàn” e correttamente, da grande appassionato di musica, la presenta come “variazione su on tema de Giosafatte Rotondi”.
L’originale di Rotondi iniziava così:
Pissatoj di temp andaa,
alla bona, in sul canton,
nient pretes e invernisaa
cont ona man de godron
senza lussi e senza gioeuch
de idraulica; ma a loeugh!
(...)
Come si sarà notato, le due strofe sono identiche. Poi ognuno prosegue a suo modo: le due poesie sono piuttosto lunghe e si possono trovare nell’edizione Einaudi, nel secondo volume, a partire dalla pag.383.
Dopo la pubblicazione, a Tessa capitò di incontrare gente che ricordava quella poesia, e che gli faceva grandi complimenti. Tessa ricorda quegli incontri in una prosa del 1936 che intitola
“Dialogo del poeta e del consigliere delegato”:
(...)
C.D. Ma parliamo di cose più allegre. E cosí, amico mio, come vanno le bosinate?
P. Male, signor Consigliere Delegato, nessuno piú ci legge.,
C.D. Colpa vostra. O parlate troppo difficile o siete troppo noiosi. Noi uomini d'affari abbiamo bisogno di gente che ci diverta. Tu perlomeno te la cavi ancora, giri di qua, giri di là, sbafi qualche pranzo!... a proposito, questa sera ti fermi da me, è inteso; domani però mi rincresce di non poterti riaccompagnare in città, prendi il battello e il treno per conto tuo.
P. Troppo giusto, signor Consigliere Delegato!
C.D. Dimmi un po', cos'hai preparato per questa sera?
P. Niente di particolare. Dirò quello che vorranno; il solito organetto, comincerò come sempre con un po' di Porta...
C.D. Ma sí, ma sí, puoi dire, per esempio, quella poesia dove quel tale che doveva andare a sentir messa a San Fedele e invece è finito al casino... ah! ah! Come si intitola? Il Miserere!
P. No. La Messa noeuva.
C.D. Ben... ben, fa lo stesso... quella... quella... Ah... ah... il Porta, che bel matto! Che ridere! che ridere! E di tuo? Dirai qualcosa anche di tuo...
P. Certo, certo.
C. D. Non dimenticare la poesia dei Pissatoj. In quella lì ài colto giusto, un argomento vero, attuale una volta tanto! È proprio cosí, in Milano non ci sono piú smaltitoi... è una vergogna, non si sa come fare...
P.Veramente quella lirica non aveva lo scopo di farli aumentare e poi non è nemmeno tutta mia...
C.D. Non fa niente... è la tua cosa piú bella... mi ànno detto stai per pubblicare un nuovo volume. È vero?
P. Difatti avrei questa intenzione.
C. D. Bravo... bravo... pubblica, pubblica; me ne regalerai una copia colla dedica.
(Il resto del dialogo si trova a pag.150 dell’edizione Einaudi delle poesie di Tessa, due volumi a cura di Dante Isella)
“E’ la tua cosa più bella”, dice il Consigliere al Poeta. Ecco una cosa che capita sempre a chi scrive, o compone musica, o altro. Notare la finezza di Tessa, mentre sottolinea che l’amico che incontra, e che presumibilmente lo conosce bene, in realtà di quello che scrive non ha capito niente: né di lui né del Porta, a dirla con chiarezza. Il Consigliere apprezza la poesia per l’argomento, buffo ma molto prosaico; e dice al Poeta che è la sua cosa più bella, ma l’ha scritta un altro...
Delio Tessa è un Poeta grande, grande e difficile. Difficile perché scrive in milanese purissimo, e ormai il milanese non lo parla più nessuno: anch’io ho dovuto ricorrere alle note di Isella per capire che “godròn” è il catrame.
Ma difficile soprattutto perché la scrittura di Tessa è alta, colta, e deve molto alla sua passione per la musica.
Tessa non è affatto un bozzettista, scrive di gente che incontra per strada e disegna bei caratteri popolari, ma non ha nulla di quello che si è soliti accoppiare alla letteratura dialettale. Come tutti i grandi e veri poeti dialettali, del resto: da Carlo Goldoni a Carlo Porta, da Biagio Marin ad Attilio Bertolucci...
Oggi di Tessa rimane poco nella memoria comune, forse soltanto quel suo verso famoso, “L’è el dì di mort, alégher!”: ma anche qui si può essere tratti in inganno, perchè la poesia che porta questo verso, intitolata Caporetto 1917, racconta del propagarsi a Milano delle notizie relative alla Grande Guerra. E’ il due novembre, e – con una tecnica simile a quella che accadrà di usare, più tardi, a James Joyce nell’Ulisse – si incontrano e si mescolano due flussi: uno, quello della gente che esce dal cimitero dopo la celebrazione del giorno della Commemorazione dei Defunti, l’altro di quelli che portano le notizie dal fronte e arrivano dalla direzione opposta.
Una tecnica complessa e sofisticata, un esercizio altissimo di scrittura;
ma quando io trovo, nella rubrica delle lettere di Repubblica, l’ottimo Vittorio Zucconi (uno dei migliori, fra quelli che oggi scrivono sui giornali) che usa “L’è el dì di mort, alégher!” nella consueta accezione poco esatta, mi prendo il lusso di scrivergli una lettera, giusto per dare a Delio Tessa quello che merita, e magari far giù un po’ di polvere dai suoi libri. Ma Zucconi non capisce: mi pubblica, ma taglia molto – e fin qui ha ragione; ma poi riprende, fa un gran pasticcio, e dell’opinione di Delio Tessa sul fascismo (“Italia renovada in di tò vacch”) coglie solo il riferimento ai bordelli, e salta subito al “Marchionn cont i gamb avert”: che è sempre milanese, ma del Porta...
Insomma, siamo sempre lì, a quel dialogo di Tessa fra il poeta e il consigliere delegato. Non è facile avere soddisfazione, per chi scrive: salvo rare eccezioni, e a meno di non chiamarsi Stephen King e di scrivere di sbudellamenti, così si hanno milioni di lettori che si ricordano tutto senza far fatica.
Per un poeta, per uno scrittore vero, è difficile farsi prendere sul serio. Si ricorderanno di te le cose più facili e più semplici, magari le battute grossolane; e soprattutto – è quasi una regola fissa – a chi ti legge difficilmente piaceranno le cose in cui credi veramente. La si potrebbe chiamare “la maledizione dello scrittore”, ma solo se si ha voglia di scherzare: perchè scrivere poesie non è una cosa seria, e chissà se il mondo ha davvero bisogno di tutte queste poesie e di tutti questi discorsi pensosi...
Per un poeta, per uno scrittore vero, è difficile farsi prendere sul serio. Si ricorderanno di te le cose più facili e più semplici, magari le battute grossolane; e soprattutto – è quasi una regola fissa – a chi ti legge difficilmente piaceranno le cose in cui credi veramente. La si potrebbe chiamare “la maledizione dello scrittore”, ma solo se si ha voglia di scherzare: perchè scrivere poesie non è una cosa seria, e chissà se il mondo ha davvero bisogno di tutte queste poesie e di tutti questi discorsi pensosi...
2 commenti:
Stavo pensando a quanti, fra quelli che passano di qui, avranno letto fino in fondo questa mia pensosa riflessione. Provo a immaginare (anch’io spesso faccio così):
- Legge la prima parola. Che schifo! Uno che parla di pisciatoi, a quest’ora... (abbandona la lettura e non torna più).
- Legge la prima riga. Ah, una cosa in dialetto. Non mi interessa. (abbandona la lettura e non torna più). Variante: Ah, una cosa in dialetto. Ma io non capisco il milanese, cosa la leggo a fare. Altra variante: Ah, una cosa in dialetto: è il Porta, i milanesi tirano sempre fuori il Porta, che due balle.
(eccetera).
Immagino già che, se dovessi parlare di queste cose in pubblico, salterebbe fuori qualcuno (l’esperto di marketing, il redattore o la redattrice espertissima di editing) a spiegarmi con un mezzo ghigno che, per forza, se comincio così, poi chi vuoi che ti legga.
Invece io sono contento di questo coso qua. Il mio è un concetto che si poteva anche fare a meno di esporre, ma è espresso chiaro ed è ben disposto lungo la pagina, chi ha voglia di leggere legga, gli altri pazienza (spero solo che invece di leggere me leggano Dante o Petrarca, o Conrad e Dostoevskij, o Cervantes e Ariosto, che volino alto, insomma).
Comunque sia, grazie a chi mi ospita: è sempre bello trovare qualcuno che ti dà la possibilità di esprimere il tuo pensiero (beh, due persone che mi hanno letto fino in fondo penso che ci siano).
Trapunta sul mio corsiero d'oro
l'anima smarrita avanza
Non mi dà tregua, incalza
ed io non so fuggir, l'attendo
M'arresto alfine, scandagliando
de' miei pensieri il fondo
ma non trovo
corrispondenze adatte al mio momento.
Non impetro perdono:
lei non me lo chiede;
Non avanzano grazie:
le ho già chieste e ottenute.
Non resto in silenzio:
chiedo.
L'attendo e grido:
l'anima non mi risponde.
Sul mio corsiero d'oro
dipinta in vesti di fiamma
mi raggiunge e sorpassa
mi lascia qui solo
sembra che non m'abbia visto.
M'asciugo gli occhi e piango
l'anima è già lontana;
del mio corsiero
non v'è che un vago ricordo.
Giuliano,io la vedo in modo un po' diverso.
Anzitutto c'è il rapporto di colui che scrive con un (eventuale) lettore.
Poi c'è il rapporto fra colui che scrive ed i suoi scritti.
Sul primo punto, è naturale e umanissimo che chi scrive desideri essere letto da qualcuno. Tutto sta a vedere fino a che punto a questa cosa (che dipende da noi solo in piccola parte) si dia peso.
Non è una questione di autostima più o meno grande (e minore è l'autostima più il desiderio si muta in bisogno)ma di guardare quello che succede con obiettività, per come è.
La pulsione primaria dello scrivere non è la voglia di essere letti, ma è, appunto, lo scrivere, che di per sé è generalmente un piacere. Nel momento in cui non lo è, non lo faccio più, punto e basta. Ci sono sempre tante cose che si possono fare, di ogni tipo. Ma la difficoltà è proprio quando si finisce di scrivere una certa cosa che ci ha dato piacere mentre la scrivevamo. Vorremmo prolungare il piacere (magari molto forte) che abbiamo provato scrivendola in un altro piacere, quello di essere letti e riconosciuti. Ma questa è una cosa che non è sotto il nostro controllo, dipende da situazioni esterne, al limite anche casuali.
Conclusione: non dobbiamo farci schiavi di ciò che non dipende in nessun modo da noi.
Il secondo punto apparentemente è più semplice, in realtà più delicato. Perché può intervenire l'intervento di fattori esterni, nel caso ad esempio che qualcuno abbia letto. Il mio ragionamento è questo: non esiste nessun ufficio dei pesi e delle misure che possa dirimere una tale questione, c'è solo quella cosa già scritta, quindi staccata da noi su cui il nostro parere vale esattamenre quello dell'ultimo dei lettori, non è un parere privilegiato. Per cui può succedere benissimo che cose che amiamo molto siano meno apprezzate di cose che amiamo poco. Tendo a pensare che l'opinione esterna abbia qualche probabilità in più di essere centrata rispetto alla nostra, se non altro perché è più disattaccata.
L'esempio del Petrarca che spregiava il Canzoniere rispetto al poema letino Africa ci dovrebbe far pensare e sorridere di noi stessi. Quest'ultima cosa ci fa senz'altro bene.
saludos
Solimano
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