Divagazioni su due piedi
di Primo Casalini
La prima cosa che notai trasferendomi da Parma a Monza vent'anni fa furono i marciapiedi, ripulitissimi a Parma, ingombri di erbacce spesso fiorite a Monza; in compenso per i giardini condominiali era l'inverso: curati a Monza, trascurati a Parma, e c'era il suo razionale. La seconda cosa furono i ciabattini, quasi inesistenti a Parma, ben presenti a Monza e non negli angoletti suburbani, in centro città. Ci sono tuttora, ma un po' meno. La paradossale conseguenza è che le persone sono meglio calzate a Monza che a Parma, perché si è imparato che, visto che i ciabattini ci sono, tanto vale comprarsi scarpe belle quindi care, il ciabattino ne raddoppia la durata. Il dato di partenza era che i monzesi sono gricci mentre i parmigiani sono spanizzi, ma alla fine la spesa è la stessa, perché l'avvocato monzese non si vergogna di portare le sue scarpe dal ciabattino, mentre l'operaio parmigiano sì, e finisce per comprare scarpacce che rinnova ad ogni cambio di stagione, ma sempre scarpacce sono, come tali si appalesano allo sguardo dei passanti e all'umore del proprietario, perché un buon paio di scarpe deve essere il Grande Sconosciuto - come i teologi riguardo lo Spirito Santo - non si devono sentire quando le si porta, tu sei a piedi nudi pur senza esserlo. Difatti una mia amica di Milano centro, quando passeggiamo nel grande prato dei giardini della Villa Reale, come prima cosa si toglie le sue rifinitissime scarpette - 36 di piede - e se ne sta ferma alcuni minuti ad occhi chiusi, con l'erbetta che le formicola fra un ditino e l'altro. Io ho il mio ciabattino di fiducia, prodigo di risuolature, di buoni consigli, di lucidi e ingrassanti, di tenditori utilissimi, perché le scarpe si imbarcano, quale alla vikinga quale alla samoana, e il tenditore le mantiene in forma, oltre a presentare il vantaggio di ampliare la zona di attrito della scarpa col suolo, così il consumo si distribuisce e la suola dura di più - sempre lì si finisce coi brianzoli! Aggiungo che la figlia di un calzolaio fra i più reputati mi confidò che il guadagno loro è maggiore nelle scarpe a basso prezzo che in quelle care, ragione di più per trattarsi bene e dimenticare infine tristi vocaboli: calli, vesciche, duroni. Lo si nota nel passaggio serotino da scarpe a ciabatte, pantofole, babbucce, non c'è più quell'ah! di ristoro dei fruitori di scarpacce, noi rischiamo di portarcele a letto, le nostre scarpe, così belle, così discrete.
Con le scarpe si comunica, altroché, e al solito le donne sono più sveglie, più attente a segnali che deboli non sono. Noi difatti le scarpe delle donne le guardiamo poco, distratti dalle adiacenze. Loro invece ci badano, anche a quelle degli uomini. Un direttore amministrativo mi cantò le lodi di un creativo che aveva appena ricevuto, di quelli con più ricci che capelli, occhi vividi, parlante con brio. Io ero perplesso, avevo qualche mia informazione disturbante, tipo una finta ingessatura al polso destro per non consegnare un lavoro - idea sommamente creativa, di per sé - ma non sapevo che dire, non mi andava di turbare un peana così convinto. Intervenne la segretaria, in genere silente: "Mah! Gli avete guardato le scarpe, a quello? Non mi sono piaciute". Un discorso terra terra che tenemmo in debito conto, lo volle il cielo.
Perfino i pentolai sanno che il tenere le braccia alzate con le mani giunte dietro la nuca è un segno di dominio territoriale, di uso frequentissimo in tutti gli incontri di lavoro - e non solo - ma esistono anche dei rinforzi ulteriori, all'americana. Il direttore commerciale della multinazionale aveva naturalmente un assistente, giovane ambizioso su cui la società puntava per il futuro, ma che doveva sudarsi la carriera reggendo per un anno gli umori del dirigente. Se resisteva bene, se no, avanti un altro, ce n'erano di bravi giovani. Il benvenuto era tipico. Il direttore, con le mani dietro la nuca, ça va sans dire, parlava, seduto di fronte ad un tavolinetto di vetro, e l'assistente prendeva appunti in un suo notes. D'un tratto, il direttore alzava le gambe, e poggiava i piedi sul tavolino, abbassando il tono di voce, il giovane chinava il capo per ascoltare meglio e si trovava a sfiorare con le narici i mocassini del boss. Niente di pianificato, facevano così; la comunicazione non verbale è in presa diretta con l'animale che è in noi. La disinvoltura anglosassone nel praticare simili inghippi è ammirevole nella sua naturalezza. Noi latini, più contorti, ci dedichiamo alle dimensioni della scrivania, alla presenza della pianta, al pieghino nel nodo della cravatta.
Le scarpe delle donne, a cui, come dicevo, troppo poco badiamo, presentano un inconveniente, hanno una loro linea di frattura: si spezza il tacco, per meglio dire si disincolla dalla suola. Lo sanno ed anche per questo - anche, non solo - gli sgabuzzini si empiono di scarpe femminili. In una riunione capitò ad una mia collega, che mi trascelse immediatamente fra gli altri come accompagnatore andata-ritorno in albergo per il necessitato cambio-scarpe. Fu un giorno di appagato narcisismo, compresi che da un piccolo inconveniente poteva sbocciare una amicizia vera. A volte, nella furia dei tempi stretti per una uscita serale, alle donne succede di incrociare le paia di scarpe: la sinistra di un paio, la destra dell'altro, inconveniente non rarissimo che nasce dal disordinato ingombro delle scarpe proliferanti nel tempo, perché le scarpe non si buttano. Quelle dei bimbi che crescono, ad esempio, si mettono di costa nella biblioteca dei libri piccoli. Noi dell'incrocio fra scarpe diverse non ce ne accorgiamo, le donne lo notano immediatamente, a cose fatte ahimè, e ci ridono su se sono amiche - fra di loro però - altrimenti fanno finta di niente, lo serbano a futura memoria.
In ogni caso nelle scarpe, anche le più belle, si annida sempre un po' di posticcio, di indebita aggiunta, perché sono un portato inevitabile della acculturazione. Lo sa chi ha avuto la gioia di correre a piedi nudi per chilometri sulla spiaggia bagnata dal mare, una gioia colma di naturalezza, sconosciuta a tutte le scarpe sportive, anche le migliori. Così è bello camminare a piedi nudi sulla moquette rinfrescata da poco; anche gli asana yoga richiedono, al massimo, calzini di cotone spesso.
La naturalezza dei piedi nudi e l'artificiosità delle calzature erano ben presenti a mia mamma bambina. Andava a scuola a Ganzanigo, frazione di Medicina. Frequentò due volte la quarta elementare - non c'era la quinta - perché la maestra convinse mio nonno a mandarla ancora rinviando di un anno l'aiuto nella cascina e nei campi. Doveva percorrere qualche chilometro per andare e tornare, usciva di casa con le scarpe non ai piedi, ma in mano e camminava a piedi nudi fra fossati e straducce. Prima di entrare in classe, si metteva le scarpe per poi togliersele al ritorno. Lo stesso accadeva in chiesa: andare a scuola nei giorni feriali era come andare a messa la domenica.
Davanti ai rifugi di montagna, al sole, gli escursionisti si distendono sulle sdraio, ognuno coi suoi privati piedi in alto e con gli scarponi o pedule poggiati a terra davanti a lui, e nascono interessati confronti in cui prevalgono gli scarponi di lungo corso, unti a inizio e fine stagione e segnati dai sassi dei più impervi sentieri. Gli scarponi nuovi sanno di città e di vesciche, non parliamo delle scarpe ginniche, gente da seggiovia, non da sentieri o ferrate. Scendendo a valle, gli stivali di gomma andrebbero lasciati ai soli pescatori, che è meglio; i fungaioli inesperti rischiano scivolate quasi fatali, e i loro piedi sono in un bagno maleolente per ore e ore: occorrono pediluvi prolungati con saponi e sali per ripristinare la decenza e l'armonia familiare.
Nelle ultime sere di Carnevale i felici gaudenti si pongono una domanda: "Come fare, per le scarpe?" Esistono infatti quasi ovunque dei trovarobati dove rovistando si possono trovare costumi appropriati, riducendo ad unità di senso brache, giustacuori, cappelli piumati, calze coloratissime - una gamba rossa ed una blu - guanti e lucenti bigiotterie. Tranne le scarpe, a meno che non ci sia un qualche Manrico, Mustafà o Sparafucile nel Teatro Storico, che allora le scarpe ci sono, fra una recita e l'altra. Decidemmo una festicciola in maschera a casa mia, a me fu assegnato un ruolo carbonaro, e provvidi con berretto napoleonico, cravattone a fiocco, tre/quarti blu. Mia moglie doveva essere Madonna Primavera, gioco facile: una vestaglia lunghissima e colma di vezzi presa in Grecia - le copriva i piedi - e mazzetti di fiori freschi appuntati qua e là; ma le scarpe per me non riuscii a trovarle, fui quindi carbonaro con scarpe a coda di rondine, invidiando la coppia Bacco e Arianna, a piedi nudi entrambi, beati loro. Lo stesso successe a Palinuro, dove un animatore turistico cinquantenne, fantasioso e timido, mi battezzò per Enrico VIII, ricoprendomi di ogni sorta di vesti - perfino un catenone d'oro matto sul davanti - e mi sentivo in parte, barba, cipiglio, sopracciglia, avevo anche lo scettro, ma non volendo zoccolare la mia maestà mi toccò star seduto al tavolo delle cibarie - piedi celati dalla tovaglia - e lì ricevetti il dovuto ossequio dei vacanzieri, Annebolene comprese. Ancora addietro nel tempo, avevamo otto anni e le Suore Cappellone ci vestirono da paggi per scortare in processione la statua della Vergine. Lavorarono in letizia con risultati mirabili, di noi paggi bianconeri conservo una foto assai bella, tutti coi sandali ai piedi, chissà se dispiacque alle brave suore il non essere riuscite a provvedere. Una persecuzione che dura da una vita, le scarpe vanno meglio in Quaresima.
Le scarpe costituirono un problema anche nell'arte della Controriforma. Si trattava di rappresentare i santi moderni: Ignazio di Loyola, Filippo Neri, Carlo Borromeo, il Nepomuceno, il Calasanzio. Che fare? Non gli puoi mettere gli stivaloni dei regnanti o dei duchi, men che meno gli scarpini di chi danza, non li puoi lasciare scalzi come i santi antichi, qualcosa devi mettere a questi santi piedi che esistono e non sempre riesci a nasconderli. E allora li vedi, i santi travolti in estasi, contornati da angeli in alto - scalzi, gli angeli sono sempre scalzi - e da fedeli in basso, che a questi vanno bene anche gli zoccoli, e loro, i santi, dotati di improbabili mocassini, di stivaletti ante litteram. Con le sante è più facile: un bel paio di sandali, magari di quelli coi nastri che risalgono il polpaccio per quelle più appassionate, ma ve lo vedete, San Carlo Borromeo in sandali? Lo aiuta invece la predica da un pulpito o il cavalcare fra gli appestati, di tanto in tanto, o andare in estasi: però seduto ad un tavolo, a celar le calzature, perché altrimenti si rischia di condurre i devoti ad un sermo humilis, anche troppo: guardate i quadroni di San Carlo esposti nel Duomo di Milano, per convincervene.
E invece, alle ladies di Gainsborough le punte delle scarpe fuoriescono dalle gonne come pugnali, colpo di grazia per gli innamorati.
P.S. "Armi pari" è stato pubblicato anche su Golem l'Indispensabile e su Arengario. Le due immagini sono di due quadri di Thomas Gainsborough: Mary, Countess Howe in alto e Lady Ligonier in basso.
2 commenti:
Cara Habanera, questo brano, a cui sono piuttosto affezionato, ha una storia strana, con dei risvolti quasi comici.
Fino a qualche tempo fa, la rivista in rete Golem usciva con un numero monografico al mese: fissavano un tema e chiedevano ad alcuni retaioli di scrivere su quel tema.
Ricevo una e-mail dalla redattrice con cui ero in contatto che mi chiede di scrivere una cosa sul tema del mese successivo, il tema era le scarpe.
Sono sobbalzato sulla sedia, perché di tutto mi aspettavo, tranne che un tema del genere.
Squilla il telefono, era un mio amico che mi telefonava per questioni private. Parliamo, ed a un certo punto gli chiedo: "Se tu dovessi scrivere qualcosa sulle scarpe, da cosa cominceresti?"
E lui mi fa: "Io mi rifiuterei di scrivere qualcosa sulle scarpe".
Sdlong! Mi aveva completamente demoralizzato, ma successe che, mettendo giù il telefono, cominciarono a venirmi delle idee, una in fila all'altra.
Mi misi a scrivere sul PC, come faccio di solito, e nel giro di poco più di mezz'ora avevo finito tutto.
Dopo di che ci fu la fase di editing con Golem, attività che a me piace perché ci si impara molto. In una ventina di minuti al telefono la risolvemmo e ci fu una modifica significativa. Il mio brano terminava con le righe relative a mia mamma che andava a scuola scalza, e fu modificato mettendo come parte finale la parte relativa al problema che avevano i pittori a rappresentare i santi con le scarpe, ma in particolare con le due righe finali relative alla punta delle scarpe "colpo di grazia per gli innamorati". Sono convinto adesso che aveva ragione la redattrice, il finale così funziona benissimo e mi ha dato l'opportunità anche qui sul Nonblog di illustrarlo con immagini di Gainsborough, pittore che amo molto.
Non finì qui. Siccome avevo in me una componente di insicurezza (ora un po' meno, dico dopo perché),lo feci leggere a tre persone separatamente, per sapere soprattutto cosa non andava.
Mi dissero tre cose completamente diverse, tutte e tre con ottime giustificazioni. Dal che dedussi che ero come il contadino che andava al mercato col figlio e con l'asino, che non riusciva a capire il da farsi: se stava lui sull'asino lo criticavano perché faceva andare a piedi il figlio, se sull'asino stava il figlio lo criticavano perchè il figlio era giovane ed era meglio se stesse sull'asino lui, se si mettevano tutti e due sull'asino la gente a dire "Povera bestia!" etc etc
Conclusione. Ho imparato una cosa importante: che gli altri vanno ascoltati, ma non subiti, devo sempre ascoltare il giudice più duro: me stesso, perché occorre essere in un certo senso incontentabili. Il giudice più duro, ma anche quello più affezionato.
Perché si scrive? Per propria soddisfazione, e questo basta e avanza, a giustificare il fatto che si scriva. Se poi arriva anche l'approvazione altrui meglio, ma è un nice to have, non è la cosa essenziale. A un patto, che effettivamente, ci sia una continua pulsione di insoddisfazione, se no sono buoni tutti di trincerarsi dietro un ragionamento del genere.
saludos
Solimano
P.S. Anche Primo Casalini mi ha detto di salutarti...
Caro Solimano, avevo letto questo brano quando è stato pubblicato su Golem e ricordo di aver pensato: bello, ma forse un tantino troppo lungo. Credo che sia solo questione di invidia perchè io per scrivere un brano così, sempre ammesso che ne fossi capace, ci metterei almeno un mese, altro che mezz'ora.
Invidiosissimi complimenti ed un caro saluto all' Autore.
H.
P.S.
Davvero splendide le immagini di Gainsborough!
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