domenica 17 agosto 2008

Tutto in pensier di nulla




Tutto in pensier di nulla
(Livre mon ami -16)

di Solimano



Così Daniello Bartoli (1608-1685), proprio all'inizio del suo libro "Della geografia trasportata al morale", pubblicato nel 1664:

"Vita non truovo, né con più ozio più occupata, né con più stabilità più vagabonda, né con più innocenza più avida e predatrice de' beni altrui, di quella che una lunga parte dell'anno menavano gli abitatori di Ostilia, raccordata da Plinio, terra antichissima sulle rive del Po. Questi al primo muovere e fiorir della primavera, tratte fuori certe loro ampie barche e piatte, racconciavanle a gran cura, spalmavanle e, con odorosi profumi spentone ogni puzzo, ogni reo fiatore, le fornivano di ciò ch'era mestieri ad un lungo viaggio: il che fatto, sopra esse, cariche di null'altro che per tutto in su l'orlo alle sponde un bell'ordine di alveari, con entro a ciascuno il suo sciame, mettevansi terra terra, a remi lento lento battuti per su il Po contr'acqua: e le api in calca, via da' lor vuoti melari gittandosi sopra le campagne che all'una e all'altra sponda di quel tutto delizioso re de' fiumi soggiacciono, uscivano a foraggiare; e quindi al legno, per lo suo poco andare non mai guari lontano, tornavansi cariche delle innocenti lor prede in ottima cera e mele. Dove in prati erbosi, in giardini, in pomieri, in campagne variamente fiorite si avvenivano, il nocchiere dava fondo lungo esse e, tutto in pensier di nulla, stavasi al rezzo di quelle annose querce, di quegli altissimi pioppi che rivestono e ombreggiano le belle rive del Po: e le valenti pecchie per tutto intorno spargevansi a predare, tanto nel lavorio più allegre, quanto più v'era che lavorare. Poi stanche, ivi medesimo in su l'orlo dell'acque imbagnarsi, sbrattarsi, pulirsi com'elle sogliono, animaluccio mondissimo; e nell'imbrunire tutte ricogliersi dentro a' loro alvei, fino a passato il freddo e l'oscurità della notte. Così, andate le navi delle giornate a lor piacere contr'acqua, prendean la volta indietro e lasciavansi giù per la contraria riva portare passo passo, fino a veder le foci del Po; indi ripigliavano il montar come dianzi: e ciò fino a tanto che dal carico delle cere e del mele, che le mettea più sott'acqua, gli sperimentati nocchieri avvisavano gli alveari ormai esser pieni; e allora, festeggianti, tornavansi alla lor terra ricchi di quella dolce mercatanzia, che il guadagnarla era costato loro non altro che un sollazzevole diportarsi."

Questo brano in rete non l'ho trovato, quindi ho dovuto trascriverlo parola per parola dal libro dedicato al Bartoli dai Classici Ricciardi nel 1960, e poi pubblicato anche dall'Editore Einaudi nel 1977 (a cura di Ezio Raimondi). Sul momento me la sono presa, perché non credevo che un brano di tale livello non si trovasse in rete. Ma ora ritengo di essere stato fortunato, a dover fare così. Provate a trascrivere un brano del Bartoli a tre parole alla volta, e vi accorgerete di cose che in una normale lettura sfuggono, a partire dall'incipit, quel vita non truovo, che agisce come le grandi sonate per pianoforte, che con le tre note iniziali ti catturano immediatamente. E di fronte al tutto in pensier di nulla sicuramente Giacomo Leopardi, grande estimatore del Bartoli, sarà rimasto incantato. Daniello Bartoli non è prolisso, ogni parola c'è perché deve esserci, ha un significato, una sua giustezza: imbagnarsi, sbrattarsi, pulirsi sono tre verbi per tre azioni diverse. Utilizza anche delle apparenti irregolarità: com'elle sogliono, animaluccio mondissimo, un passaggio dal plurale al singolare di cui poi si coglie l'inesorabile esattezza. In prati erbosi, in giardini, in pomieri, in campagne variamente fiorite non è iterare ripetendo la stessa nota, si tratta di quattro note diverse. E certe loro ampie barche e piatte e a remi lento lento battuti , come le musiche dei grandi che nacquero nel 1685, l'anno in cui morì il Bartoli, in cui la nota inattesa ti accorgi dopo che era quella che ci voleva. E' il passaggio del testimone in una staffetta di Paradiso. Tutto ciò è al servizio di un sentimento vero: amore per gli sperimentati nocchieri, per le valenti pecchie, per quel tutto delizioso re de' fiumi, per le annose querce e gli altissimi pioppi, quasi una riapparizione di divinità boscherecce in un cristiano come Daniello Bartoli. Divinità benigne, che rivestono e ombreggiano. Il Bartoli era di Ferrara, ed il Po lo conosceva bene.
Eppure, uno così, nelle antologie scolastiche finiva nelle pagine che non venivano tagliate. Per molti libri scolastici era necessario tagliare le pagine (il verbo non è quello giusto, ammesso che esista, ma ci siamo capiti). Sapevamo tutti che per il Seicento ed il Settecento i professori procedevano a tappe forzate per arrivare presto al'Ottocento.


Francesco De Sanctis, nella sua Storia della Letteratura Italiana (1870) così maltratta il Bartoli, pur nelle lodi apparenti:

"Il Marino della prosa fu Daniello Bartoli, fabbro artificiosissimo e insuperabile di periodi e di frasi, di uno stile insieme prezioso e fiorito. È stato in ogni angolo quasi della terra; ha fatto migliaia di descrizioni e narrazioni: non si vede mai che la vista di tante cose nuove gli abbia rinfrescate le impressioni. Retore e moralista astratto, pieno il capo di mitologia e di sacra Scrittura copiosissimo di parole e di frasi in tutto lo scibile, colorista brillante, credè di poter dir tutto, perchè tutto sapeva ben dire. La natura e l'uomo non è per lui altro che stimolo e occasione a cavargli fuori tutta la sua erudizione e frasario. Altro scopo più serio non ha. Estraneo al movimento della coltura europea e a tutte le lotte del pensiero, stagnato in un classicismo e in un cattolicismo di seconda mano, venutogli dalla scuola, e non frugato dalla sua intelligenza, il suo cervello rimane ozioso non meno che il suo cuore; e la sua attenzione è tutta intorno alla parte tecnica e meccanica dell'espressione."

In queste righe si avverte una sordità livorosa e voluta, un non volersi accorgere del livello culturale, intellettuale ed umano di Daniello Bartoli. Il Seicento, era il secolo di cui non si poteva né si doveva parlar bene, il secolo sudicio e sfarzoso, per dirla col Manzoni.

Ma ecco cosa scriveva nello Zibaldone Giacomo Leopardi cinquant'anni prima del De Sanctis:

«Io posso dire per esperienza che la lettura del Bartoli, fatta da me dopo bastevole notizia degli scrittori italiani d’ogni sorta e d’ogni stile, fa disperare di conoscer mai pienamente le forze e la infinita varietà delle forme e sembianze che la lingua italiana può assumere. Vi trovate in una lingua nuova, locuzioni e parole e forme delle quali non avevate mai sospettato, benchè le riconosciate ora per bellissime e italianissime: efficacia ed evidenza tale di espressione che alle volte disgrada lo stesso Dante, e vince, non solo la facoltà di qualunque altro scrittore antico o moderno di qualsivoglia lingua, ma la stessa opinione delle possibili forze della favella. E tutta questa novità non è già novità che non s’intenda, chè questo non sarebbe pregio ma vizio sommo, e non farebbe vergogna al lettore ma allo scrittore. Tutto s’intende benissimo e tutto è nuovo e diverso dal consueto: ella è lingua e stile italianissimo, e pure è tutt’altra lingua e stile; e il lettore si maraviglia d’intender bene e perfettamente gustare una lingua che non ha mai sentita, ovvero di parlare una lingua che si esprime in quel modo a lui sconosciuto, e però bene inteso. Tale è l’immensità e la varietà della lingua italiana, facoltà che pochi osservano e pochi sentono fra gli stessi italiani più dotti nella loro lingua; facoltà che gli stranieri difficilmente potranno mai conoscere pienamente, e quindi confessare». (13 luglio 1821)
«Quello che altrove ho detto della lingua del Bartoli dimostra quanto la nostra lingua si presti all’originalità dello stile e degli stili individuali, in tutti i generi e in tutta l’estensione del termine» (30 novembre 1821).
«Il padre Daniello Bartoli è il Dante della prosa italiana. Il suo stile in ciò che spetta alla lingua è tutto a risalti e rilievi» (22 marzo 1822).

Daniello Bartoli nacque a Ferrara nel 1608 e morì a Roma nel 1685. A diciannove anni chiese di poter applicarsi alla fatica dell'Indie e al desiderato fine della divina gloria del martirio, ma i superiori della Compagnia di Gesù non furono d'accordo, perciò continuò a chiederlo per diversi anni. I superiori avevano scoperto le sue eccelse qualità prima ancora che di scrittura, come oratore sacro, e per anni girò col suo Quaresimale di prediche: Firenze, Lucca, Genova, Torino, Roma, Napoli, Palermo, Mantova, Malta. Fece anche naufragio, andando in Sicilia nel 1646, e perse il manoscritto del Quaresimale. I superiori, ammirati ed esigentissimi, dal 1648 lo tennero fermo a Roma per fargli scrivere la Storia della Compagnia di Gesù, cosa che lui fece scrupolosamente pur chiamandola lunga ed incredibilmente noiosa fatica. Amava riuscire a trovare il tempo per scrivere qualche cosarella di trattenimento, qualche libretto di suo gusto e lo faceva per ricrearsi.
Dopo i settant'anni, sviluppò anche una notevole cultura scientifica, che gli permise di scrivere: "La pressione e la tensione" (1677), "Del suono de' tremori armonici e dell'udito" (1679), "Del ghiaccio e della coagulazione" (1682).

Si pensi alla genialità dell'idea: "Della geografia applicata al morale". Aveva trovato il modo di viaggiare nel mondo con la sua fantasia visionaria, visto che glielo avevano impedito, ad maiorem Dei gloriam.
Con la geografia applicata al morale, poteva andare in Tessaglia, in Egitto, al Capo di Buona Speranza, sulle dune del Mare del Nord, dovunque.

P.S. Le immagini sono tratte dagli affreschi che Andrea Pozzo, anche lui Gesuita come il Bartoli, eseguì per il soffitto della chiesa romana di Sant'Ignazio. Daniello Bartoli non potè vedere questi affreschi: scomparve nel 1685 e gli affreschi furono eseguiti fra il 1691 e il 1694. Ma ne aveva certamente sentito parlare, il titolo più preciso della decorazione di Sant'Ignazio è "Allegoria del lavoro missionario dei Gesuiti". Nella immagine in cima al post, c'è una veduta del soffitto della chiesa di Sant'Ignazio (la parola più adatta sarebbe cielo, non soffitto). Nelle altre due immagini, la rappresentazione allegorica di due continenti: Africa e America.


7 commenti:

mazapegul ha detto...

Solimano, il Seicento è secolo ricchissimo, ma sfortunato, essendo per tanti aspetti artistico-letterari "il proseguimento e lo sviluppo di", in attesa della "crisi romantica", che ci apre alla difficile contemporaneità. Ho una qualche empatia per quelli che, contando che gli studenti non possano portarsi dietro nella vita più di due-tre concetti chiave, sacrifichino quest'età di trapasso a sbrigativo cenno.
Però... Il Seicento è epoca d'inizio per quel che riguarda la scienza moderna, che avrà pure le sue radici nel Rinascimento, ma che inizia per l'appunto dopo. Avrebbe allora un senso semplificare il Seicento come il secolo in cui la ragione -nella scienza, ma anche in filosofia- si libera di tanti lacci e lacciuoli: lascito permanente e veramente importante. Pulizia mentale che, nel bellissimo brano che riporti (di autore a me fino a mezz'ora fa sconosciuto), diventa anche pulizia linguistica e terminologica -senza sacrificare, giustamente dici, la musica. [Non fossi così bestimalmente ignorante di musica, proverei a dire qualcosa su Seicento e musica, ma passo a te e Giuliano la palla].
Di recente (disponibile in rete) mi sono letto il saggio di Redi sulla (falstà della) generazione spontanea: quest'idea che la vita non può che nascere da altra vita, ad essa simile, è una rivoluzione troppo trascurata, forse perchè diventata a noi ovvia.
Sfortunatamente... In Italia, e non a partire da Croce, la separazione dei saperi e l'orgogliosa ignoranza scientifica dei letterati fanno sì che questo aspetto monmentale del Seicento non faccia breccia, se non a volte per cenni, nelle lezioni di italiano. Pensa, invece, a quale proficuo incrocio tra lettere, scienza, storia! [Interdisciplinare senza sforzo, verrebbe da dire].
At Salud,
Màz

Giuliano ha detto...

Ohilà, finalmente ce l'hai fatta. Mi dispiace di non averti potuto aiutare come avrei voluto, ma adesso finalmente anche questo Bartoli è disponibile on line: io lo chiamerei servizio pubblico.
Certo che dev'essere stata una bella fatica.

Habanera ha detto...

Una meraviglia assoluta!
Conoscevo Daniello Bartoli, prima di aver letto questo post? No, e non ho problemi ad ammetterlo.
Oggi ho imparato qualcosa ed è un qualcosa che mi arricchisce e mi fa sentire meravigliosamente bene.
Condivido appassionatamente tutto quello che scrive Giacomo Leopardi a proposito del Bartoli, parola per parola.
Dirti semplicemente grazie, caro Solimano, sarebbe troppo poco in confronto all'immenso regalo che ci hai fatto.

Ti abbraccio
H.

Giuliano ha detto...

Ho ragionato un po’ su Daniello Bartoli e la musica: senza voler esagerare, solo mettendo insieme un po’ di date per il piacere di ragionarci sopra.
Bartoli nasce nel 1608, quando è attivo Monteverdi (1567-1643), che nel 1607 ha messo in scena l’Orfeo. Monteverdi nella storia della musica è molto importante: inizia in periodo di polifonia molto “tosta” e poi scrive un vero e proprio manifesto in favore dell’importanza della parola, il famoso “recitar cantando”. In estrema sintesi, si deve capire ciò che si canta: parola e musica devono camminare insieme. A noi sembra scontato, ma non era così: la musica polifonica è grandissima ed emozionante, ma stava diventando un po’ troppo fine a se stessa.
E poi Bartoli muore nel 1685, che per la musica non è un anno qualsiasi: vi nascono, tutti e tre nello stesso anno, Johann Sebastian Bach, Georg F. Haendel, Domenico Scarlatti. Due anni prima, nasce Rameau: Bach e Rameau scriveranno testi capitali per la musica, che ancora oggi procede su quei binari. Si può dire che Bartoli vive nel periodo in cui la musica comincia a prendere coscienza di se stessa. E’ possibile che a Roma abbia conosciuto Corelli, che nacque nel 1653 e che è molto importante perché da Corelli parte la grande musica del Settecento.
En passant, si può ricordare che quando nasce Bartoli sono ancora in attività sia Shakespeare che Cervantes.

Roby ha detto...

Ve lo immaginate, se nel Seicento fosse esistita Internet ??? Ci pensate al Bartoli che chatta con Cervantes e Shakespeare? E magari poi, tutti e tre, mettono su un multiblog, scaricando da e-mule, come sottofondo, le musiche di Monteverdi... Beh, forse... no, meglio di no. Che il Seicento resti al Seicento, e il Duemilaotto al Duemilaotto! Amen.
(però, che bella-bella lettura, davvero!!!)
R.

Giuliano ha detto...

Cara Roby, la cosa stupefacente è che qualcosa del genere accadeva davvero. Questi qua viaggiavano, e non poco: a piedi e a cavallo, su strade di fortuna, dalla Spagna all'Italia, dall'Italia all'Inghilterra, dalla Germania all'Italia...
E l'invenzione della stampa è stata una cosa favolosa. Nel '700, Vivaldi veniva stampato ad Amsterdam, e Bach non se ne perdeva una copia.

Solimano ha detto...

Quanti argomenti! Dico la mia su alcuni, prima o poi varrà la pena (e il piacere) di scriverci qualcosa.
Se potete, leggete il brano del Bartoli sulle chiocciole che ho inserito nel post sui lumachisti, è giustamente il suo brano più famoso e dà il senso anche della sua conoscenza scientifica.
Essere interdisciplinari allora era la regola, non l'eccezione.
I preti colti (che spesso si erano fatti preti per essere colti), sapevano generalmente di letteratura, di pittura (e architettura e scultura)e di musica. La percezione della musica era molto vasta e non solo da parte degli acculturati. Ogni chiesa aveva il suo coro e il suo organo, basta girare per Milano o per Bologna e l'organo c'è anche nelle chiese minori.
La crisi nella pittura ci fu, non nel Seicento, ma nella seconda metà del Cinquecento, salvo Tintoretto, Veronese e Barocci.
Noi parliamo di Controriforma pensando a Bruno e Galileo, ma a Bologna più del 10% dell'economia girava intorno alle elemosine, basta guardare bene la grande chiesa dei mendicanti a Bologna.
Poi, i Gesuiti erano non solo colti, ma curiosi in sommo grado. Ho letto diverse pagine del Bartoli sulla Cina, il Giappone, l'India, dice delle cose che sono molto meno ovvie di certi articoli odierni sulla Cindia. Ci fu la lotta per i riti cinesi, perché i Gesuiti avevano capito che i cinesi si sarebbero convertiti restando però confuciani. Persero, perché quelli che in Cina non c'erano mai stati non volevano capirla. I Gesuiti erano preti, che dopo essere divenuti preti studiavano per quattro anni ancora.
Ma mi fermo qui, con una vecchia battuta di sacrestia che forse non tutti conoscete e che dice la sua piccola verità. Ci sono tre cose che neppure il Papa sa: quanti ordini di suore ci sono, quanti soldi hanno i salesiani e cosa pensano veramente i gesuiti.

grazie e saludos
Solimano