Solimano
Pochi giorni fa sono stato alla Pinacoteca di Brera, con amici di vita reale e di vita virtuale e l'ho raccontato qui, in Abbracci e pop corn. Ma non ho raccontato tutto, perché avevo una mia curiosità, e di qui parto.
E' in corso a Ferrara una mostra che mi interessa ed a cui quasi sicuramente non riuscirò ad andare, perché è troppo fuori mano rispetto a Monza. Colpa mia, perché chi dorme non piglia pesci, e l'Università Popolare di Monza ha già fatto la visita con partenza del pullman alle 7 di mattina e ritorno entro le 8 di sera. Mi sarebbe andata d'incanto, in pullman avrei dormicchiato, chiacchierato, mi sarei persino preparato alla mostra. Solo che non mi sono informato, e ci voleva così poco!
La mostra riguarda due dei tre grandi pittori ferraresi del Quattrocento, e qui bisogna capirsi, perché in Storia dell'Arte si usa ogni tanto impropriamente il plurale: i Carracci, i ferraresi... Ma quando mai, Ludovico, Annibale e Agostino Carracci sono molto diversi l'uno dall'altro sia per il modo che per il livello ed i tre grandi ferraresi, Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de' Roberti lo sono ancora di più, almeno per il modo.
Il danno è che se chiedete ad una persona mediamente acculturata quali sono i grandi pittori del Quattrocento, vi farà i nomi di Masaccio, del Mantegna, di Piero della Francesca, di Antonello, del Bellini... ed altri dieci nomi, dopo di che, se avrà tempo e voglia vi dirà: "... e poi, vabbé, ci sono anche i ferraresi".
Come se fossero una società per azioni, ognuno col suo bel 33%. Mentre Tura, Cossa e Roberti sono tutti e tre fra i massimi di quel secolo.
La mia curiosità a Brera riguardava due scomparti di polittico del Cossa, perché non sapevo se fossero stati prestati alla mostra di Ferrara oppure no (c'è anche la complicazione che sono dipinti su tavola e le tavole non dovrebbero viaggiare). La soluzione è stata la più italiana, a suo modo la più semplice: hanno prestato uno scomparto e l'altro no. Non ci avevo pensato, e non la condivido: i due scomparti sono in relazione molto stretta l'uno con l'altro, si bilanciavano all'interno del polittico Griffoni che da secoli è smembrato in diversi musei. Potevano prestarli entrambi oppure non prestarli, hanno scelto il contenti tutti, proprio all'italiana.
Così il San Pietro rimasto a Brera aveva un'aria più dispiaciuta del solito. Già normalmente ha lo sguardo basso, a differenza del San Giovanni Battista, ma sembrava che esprimesse una indignazione un po' amara per essere stato lasciato solo: quando c'è il bruno-giallastro San Giovanni, può vantarsi del suo colorito roseo. San Giovanni esprime così la durezza della vita nel deserto, sottolineata anche dalle ossa sporgenti dello sterno, mentre San Pietro, più in età, con una mano regge una enorme chiave a cui è appesa con una cordicella rossa e riccioluta un'altra chiave identica. Con l'altra mano San Pietro impugna saldamente il libro che sta leggendo. E' per questo che lo sguardo è basso, non certo per timidità introspettiva, le facce del Cossa esprimono sentimenti forti e guardano il mondo come se fosse proprio. Il San Giovanni, che adesso sta a Ferrara e che tornerà a fine Gennaio, non guarda a noi, guarda davanti a sé esprimendo la forza amara del suo tipo di santità, con un dippiù che gli aggiunge il Cossa di suo. Il cartiglio non è più gotico, ma in belle maiuscole da lapide romana e si regge in aria per forza propria, inamidato e spegazzato com'è. Il bastone pastorale dall'altra parte ha quasi in cima la bellissima idea dell'agnello in prospettiva: tutti debbono conquistarsi il proprio spazio, compreso l'Agnus Dei. Parrebbe in piena analogia con Mantegna e con Tura, che Cossa conosceva bene, ma ci sono differenze che in parte si spiegano riflettendo su un esempio ben presente al Cossa: Piero della Francesca, che aveva lavorato a Ferrara per opere oggi scomparse, e che è il nume tutelare di tutti e tre i ferraresi, ma del Cossa in particolare. All'influenza di Piero si aggiunge l'accettazione delle novità di Padova, non tanto per la fantomatica bottega dello Squarcione, ma per il Mantegna, e forse ancora più per l'altare di Donatello, perché pittori e scultori lavoravano a stretto contatto. Come i migliori pittori che guardavano Piero della Francesca, qualcuno essendone anche allievo, il Cossa ha una sua strada di fedeltà infedele. Si riconosce Piero nell'ampiezza e nella dignità delle forme, che bastano a se stesse, c'è lo stesso appagamento che troviamo in Melozzo e nel Signorelli. Le forme tengono stretto tranquillamente lo spazio che hanno conquistato, lo sentono come a loro dovuto. Il Cossa ha due modi di essere infedele a Piero, il primo è quello di una fantasia ubiqua, che ci sorprende nelle nuvole, nei calzari, nei capelli, nei panneggi, dovunque. Succede anche agli altri ferraresi, ma con fantasie diverse. Il secondo modo di infedeltà è tipico del Cossa: la veracità nella rappresentazione delle persone. Il Tura individua in mille modi i suoi personaggi fantastici, che nella vita reale non incontreremo mai, i personaggi del Cossa li conosciamo e li incontriamo, i suoi sono dei ritratti di persone reali, con l'aggiunta del suo stile trasfigurante. Si somigliano fra di loro, perché quei personaggi sono anche e soprattutto il Cossa - il pittore non può dimenticare che sta ritraendo anzitutto sé stesso - e la differenza con Tura e Mantegna è del tutto evidente. Il Cossa esprime grandi sentimenti in corpi e soprattutto facce che possono sembrare persino rozze. Si tratta di una normalità di tipo eroico.
Alla National Gallery of Art di Washington ci sono altri due scomparti del Polittico Griffoni, anche se la discussione non è del tutto chiusa, malgrado lo schema di ricostruzione proposto a suo tempo da Roberto Longhi. Le perplessità non sono sulla attribuzione dei due scomparti al Cossa, ma sul fatto che mentre i due scomparti di Brera hanno per sfondo un paesaggio i due di Washington sono a fondo oro. A me sembra piuttosto convincente l'argomentazione che parte dal fatto che gli sguardi dei due santi sono rivolti verso il basso, ma come se guardassero i fedeli nella chiesa: è un indizio che i due scomparti di Washington fossero nella parte superiore del polittico a differenza dei due santi di Brera e della pala centrale, che sta alla National Gallery di Londra. Quindi, la scelta del fondo oro avrebbe una sua coerenza: paesaggio terrestre nella parte inferiore, celeste nella parte superiore. La forza espressiva del San Floriano e della Santa Lucia di Washington è quella consueta nel Cossa: una forza personalizzata in un essere umano vero, concreto, di cui il Cossa indaga l'aspetto fisionomico continuando ad applicare il suo modo caratteristico: le grandi e rotonde palpebre sormontate dagli archi sopracciliari, le fronti spaziose, le orecchie lunghe e movimentate, lo sprezzo per ogni tipo di carineria adulatoria. E, come sempre, nelle figure intere che qui non metto, compare una specie di firma del Cossa, una sua piccola, innocua e bellissima ostinazione: il mignolo che si scosta dalle altre dita, è così anche per i due santi di Brera.
Il Polittico Griffoni è del 1473, ed è stato fatto per la chiesa di San Petronio di Bologna. Contemporaneamente il Cossa lavorava ad un'altra opera importante, sempre per Bologna, la cosiddetta Pala della Mercanzia, che è nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. Il Cossa, nato a Ferrara, manteneva la residenza nella sua città, ma finiti gli affreschi di Schifanoia, che costituiscono il suo capolavoro, dal 1470 in poi lavorò esclusivamente per Bologna. Il motivo era molto semplice: il duca Borso d'Este pagava poco e male. C'è una lettera del Cossa al duca, del 25 marzo 1470, in cui il Cossa, al di là delle solite supplichevoli richieste, dice: "Et masime Considerando che io che pur ho incomenciato ad avere un pocho di nome, fusse tratato et judicato ed apparagonato al più tristo garzone de ferara...". Francesco del Cossa sapeva bene il suo valore, ed a Bologna fu apprezzatissimo: il Polittico Griffoni, la Pala della Mercanzia, poi, nel 1477, gli affreschi della cappella Garganelli in San Pietro (purtroppo perduti, ma che impressionarono Michelangelo). Oltre all'apprezzamento, a Bologna aveva a che fare con un artista grande come lui, lo scultore Niccolò dell'Arca, e si capisce che i due si guardavano con ammirata attenzione. Ma nel 1478 Francesco del Cossa morì a Bologna, a soli 42 anni, probabilmente di peste. Ci sono rimaste le lettere che due gentiluomini bolognesi, Angelo Michele Salimbeni e Sebastiano Aldrovandi si scambiarono subito dopo la sua morte, scrissero anche due modesti sonetti in sua lode, così finisce il sonetto dell'Aldrovandi:
...
Di ziò pianga Ferara che la perse
un spirto si zentil che li fu gloria,
né speri mai d'haver più simil dono:
ch'el dì che nacque natura sofferse
dal ciel sì bella gratia et tal victoria
che rare volte simil punti sono.
Ma già a metà del Cinquecento il di solito bene informato Vasari del Cossa parla poco, e lo confonde con Lorenzo Costa. Un oblio che durò secoli: solo nella seconda metà dell'Ottocento il nome del Cossa cominciò a riemergere a Ferrara, ma la vera, completa riscoperta è datata 1934, l'anno della Officina Ferrarese di Roberto Longhi.
I due santi della Pala della Mercanzia sono quanto di meglio ha fatto il Cossa a livello di umana espressività -a parte forse alcune figure negli affreschi di Schifanoia. Il San Petronio è una vecchio magro, però forte e deciso. Il viso è in penombra, ma se ne coglie l'acutezza da rapace, e lo sguardo è di fuoco. Questo vecchio non teme nessuno e tiene stretta fra le sue mani possenti la città si cui è patrono, piccola e riconoscibilissima, con la torre degli Asinelli. La pala, a vederla di persona la prima volta, colpisce per i colori opachi, spenti, non so se decisi così dal pittore o frutto dell'incuria di secoli. Fatto sta che proprio l'assenza di bellurie nei colori ne esalta la forza rappresentativa di tipo scultoreo, e si sente benissimo l'attenzione che il Cossa riservava ai due grandi scultori, Donatello e Niccolò dell'Arca, oltre che naturalmente al Tura ed al Mantegna. Ma la sua è emulazione da pari a pari, altro che imitazione.
L'altro santo è San Giovanni Evangelista, in tutto diverso dal San Petronio tranne che nella forza che esprime. E' più giovane che vecchio, di stirpe contadina, un contadino che ha studiato e che capisce bene, attento e concentrato nella lettura del libro che sembra più un libro mastro che un codice miniato. Entrambi, sia il San Petronio che il San Giovanni non hanno tempo per noi, e neppure per la Madonna che sta in mezzo a loro, sono assorti in pensieri totalizzanti, pensieri però fatti di cose. Ci impongono il loro esserci e possiamo solo obbedire ammirati. L'immagine della Madonna altocinta che sta in mezzo ai due santi l'ho messa in cima al post, ed il Bambino cresce proprio bene, cossesco pure lui: è biondo, bello e un po' prepotente, l'uccellino che stringe nella mano prima o poi avrà dei problemi. Si intravede anche, sulla sinistra dell'immagine, il donatore, che cercò di metterla giù dura, esigendo di essere rappresentato pure lui, visto che era quello che pagava, e il Cossa l'accontentò, però a suo modo: la Madonna guarda noi, da mamma bella e severa però di fondo amorosissima, il Bambino si compiace della forza sia pure infantile e della bellezza riccioluta, i due santi pensano ai fatti loro, certamente importanti, insomma, il donatore non l'ha in nota nessuno: se ne sta lì, in secondo piano -praticamente in un angoletto- inginocchiato ed a mani giunte da 534 (cinquecentotrentaquattro) anni. Il suo Purgatorio si sta facendo lungo.
C'è poi il ritratto maschile della Thyssen-Bornemisza (ora a Madrid, ahimè, non più a Lugano), piccolo di dimensioni ma bellissimo. Ancora si discute se sia del Cossa o del Roberti, ma sta prevalendo il Cossa. Credo anch'io così, il paesaggio di fantasia rocciosa è tipico del Cossa, ma ci potrebbe stare anche Ercole de' Roberti, che in quegli anni lavorava con lui: la meravigliosa predella del Polittico Griffoni, quella con i miracoli di San Vincenzo Ferrer, è sua, e sta attualmente nei Musei Vaticani. Non solo, il Roberti, dopo la morte del Cossa, proseguì fino a compimento gli affreschi della cappella Garganelli in San Pietro di Bologna.
Il ritratto sembra meno improntato a terribilità delle altre opere del Cossa, solo che va ricordato che, oltre ad essere un ritratto vero, non un santo effigiato anche come santo, si tratta di un quadro di fidanzamento (nella mano il giovane regge un anello, e le fidanzate è bene non spaventarle). Ma la fermezza dello sguardo, la cura fisionomica che non sconfina mai in eleganza fine a se stessa è tutta del Cossa (o del Roberti nel momento in cui è più cossesco).
Torno alla Santa Lucia di Washington, la protettrice della vista, perché come martirio le cavarono gli occhi. Difatti spesso è effigiata con un piattino su cui ci sono i due globi oculari. Ma il Cossa, su quel fondo oro, voleva fare una cosa diversa, ed inventò lo stelo di un fiore che la santa tiene in mano. Alla fine dello stelo, non c'è un fiore, ma due. Sono gli occhi della Santa, occhi che ci guardano. Pur essendo su fondo oro, questi occhi-fiori non vogliono sedurci con le raffinatezze e le meraviglie del gotico internazionale, quello di Gentile da Fabriano, di Masolino da Panicale, del Pisanello. Sono occhi veri che ci scrutano, e lo sguardo è quello deciso e dominante di una persona effigiata da Francesco del Cossa, non ci sono alternative.
mercoledì 12 dicembre 2007
Le facce del Cossa
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8 commenti:
Solimano, sono stato a vedere la mostra sabato. Molto bella e istruttiva, con dei cartelli esplicativi utilissimi a chi, come me, non mastica molto di arte.
M'ha impressionato l'erudizione del pubblico, sia di quello giovane che di quello anziano. Era tutto un analizzare, confrontare, citare... C'e' tutto un mondo competente e pieno d'interessi, da qualche parte la' fuori. Non fa chiasso, non va nei reality, non se ne nota l'esistenza se non in queste occasioni.
E pensare che prima di conoscere Solimano non sapevo nemmeno chi era il Cossa... (ringrazio sentitamente Emilio Gauna per tutto questo) (già che ci sono, ringrazio anche la redazione di Golem)
Post che mi stimola a fermarmi un po' di più per andarla visitare quando passo da Milano, Giulia
Il tuo amore per la materia che tratti è contagioso, caro Solimano, ed io mi lascio contagiare totalmente e felicemente.
Grazie per questo importante e bellissimo post che ci arricchisce tutti.
Un abbraccio
H.
Bellissima davvero l'invenzione degli occhi-fiori.
Solimano, quando ci parli di Aspertini?
Ciao,
Màz
Grazie a tutti. Ho faticato, ma mi sono divertito, in questo post. E non smetterò, troppo grande è la mia passione (di tipo felice, non sofferente) per i ferraresi. Ma in Emilia c'è molto di buono anche fuori Ferrara, e Nicola ha fatto un nome che mi compelle al pragma, occorrerà dirne tre o quattro ad Amico Aspertini, e Nicola un suo quadro su cui dialogheremo lo conosce benissimo. Ero diperato perché non riuscivo a trovarne una immagine decorosa in rete, ma l'ho trovata in un buon libro che felicemente possiedo, e se lo scanner mi aiuta, si tratta solo di condire l'Amico di parole acconce, cosa non facile, perché uno come Amico non va imbraghettonato criticamente, ma lasciato agire con la sua scherma in apparenza un po' da fiera di campagna, in realtà snobbissima. Dipinse anche a Lucca, l'Amico, ed ho visto quel che fece lì. Ma il meglio è a Bologna.
saludos
Solimano
Sì, concordo: quello di San Frediano non è il suo massimo. Dicono che a Bologna faranno una mostra il prossimo anno; così prometteva Guglielmi, almeno.
Un Aspertini non religioso sopravvive in malconservati affreschi a Gradara, bellissima rocca, purtroppo disneyanamente piena di negozietti che esibisciono mediovagli plasticata sin in mezzo alla strada (e quando ci passai io, c'era pure la caccia al tesoro in costume: che barbarie!).
La "fatica" che dici di aver fatto, SOL, quasi non si avverte: e la bravura sta tutta lì!!!! Quei fiori occhieggianti... a metà fra l'impressionante e il fascinoso!
MAZ, ricordo che -alle elementari- avrei dovuto andare in gita scolastica proprio a Gradara, ma poi fu tutto annullato, non ho mai saputo perchè. Forse -parlo del 1965/66- a quell'epoca era ancora godibile...
R.
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