Il 30 giugno 2004 pubblicavo su Arengario il Bel Momento dedicato al Maestro di Tolentino ed in questi giorni mi è venuta l' idea di approfittare di due novità tecnologiche per pubblicare oggi, che è il giorno di Natale, parte del mio testo di allora. Lo corredo di alcune immagini realizzate per l’occasione, che credo non siano ancora in rete. Adopero uno scanner migliore di quello che avevo ed utilizzo la possibilità di poter mostrare le immagini grandi, come si fa con Blogger. Si tratta di particolari appartenenti all’affresco della Natività, che è uno degli affreschi di Tolentino. Mi sembra di ricordare che una volta il Natale era la festa della nascita di Gesù, non il giorno di Babbo Natale!
Gli affreschi sono nel Santuario di San Nicola da Tolentino, ed è bene sapere qualcosa di questo santo, del Santuario, degli affreschi e del misterioso pittore che li dipinse. Riporto qui sotto il il mio testo, lievemente rivisto.
San Nicola da Tolentino non va confuso con San Nicola di Bari, anche se un legame c'è: Compagnone ed Amata Guarutti (o Guarinti), due sposi ormai avanti negli anni, avevano chiesto la grazia di avere un figlio durante un pellegrinaggio al santuario di Bari, e chiamarono Nicola il figlio che nacque nel 1245.
Nicola divenne frate agostiniano nel 1261, sacerdote nel 1273 e per trent'anni, dal 1275 al 1305, visse nel convento degli Agostiniani di Tolentino. Nel 1325 si celebrò il Processo di Canonizzazione ma l'Ordine Agostiniano dovette attendere ben 120 anni per vederlo ufficialmente canonizzato (da papa Eugenio IV nel 1446). Questo non impedì agli artisti ed ai fedeli di venerarlo come santo, e papa Bonifacio IX nel 1400 non attese la canonizzazione per concedere l'indulgenza plenaria a chi visitava la sua tomba. E' un santo taumaturgo e protettore in specie delle Sante Anime del Purgatorio. La Vita del Santo, scritta dal suo contemporaneo Pietro da Monterubbiano, divenne rapidamente assai nota. Il Santuario fu costruito dagli Agostiniani presso la già esistente chiesa di San Giorgio e fu intitolato dapprima a Sant'Agostino, solo più tardi a San Nicola.
A Tolentino un ampio locale a volta ogivale, il Cappellone, fu interamente rivestito da affreschi: un'opera vasta ed impegnativa, di alto valore artistico e giunta a noi in ottimo stato di conservazione, almeno in gran parte. Gli affreschi del Cappellone forse furono eseguiti negli anni 1335-45 - ma recenti ricerche li anticipano agli anni 1320-25 - quindi proprio nel primo sviluppo del culto del santo.
Esiste un documento dell'agosto 1348 che attesta che la cappella era officiata da un cappellano ad essa assegnato, quindi a quella data la decorazione era già stata eseguita. Non esistono invece documenti riguardanti gli affreschi, e su chi ne sia stato l'autore, il che, dal nostro punto di vista, è assai singolare.
Non si tratta infatti di un'opera attribuibile a maestranze provinciali, è del tutto evidente l'elevato livello artistico, anche se oltre al maestro opera anche la sua bottega, come era d'uso, ma la guida e l'impronta del maestro si vede ovunque, anche nelle parti eseguite dagli allievi.
Un maestro chiamato da fuori, e già ben noto, visto l'investimento finanziario che era richiesto, e l'importanza che l'iconografia degli affreschi avrebbe avuto nella vita del Santuario, allora in piena crescita. E nessun documento che lo attesti, per cui i critici si accapigliano per secoli per capire chi fosse il Maestro di Tolentino, giungendo solo recentemente ad una conclusione generalmente condivisa (o quasi, visto che i documenti continuano a mancare).
Di fronte all'arte medievale gli appassionati d'arte hanno due difficoltà.
La prima sorge dal fatto che i programmi iconografici, pur nella loro complessità, sono quasi sempre simili in tutta l'Europa cristiana.
La seconda è che facciamo fatica a distinguere gli artisti fra di loro perché nella nostra percezione le somiglianze stilistiche e rappresentative prevalgono sulle differenze.
In genere il programma iconografico è talmente vasto da lasciare uno spazio ridotto alla personalizzazione anche stilistica del singolo artista. Fin dall'inizio venivano definiti addirittura i quantitativi di oro o di blu cobalto che sarebbero stati impiegati. Ecco cosa dice un celebre critico:
"Ma veramente non è esatto parlare di copia e di modello; sarebbe più giusto pensare all'opera dell'artista medievale come oggi pensiamo alle interpretazioni di un musicista o di un attore. Il testo è lì: è il modo in cui viene presentato – la carica di significato che vi è immessa – che costituisce il traguardo estetico. Chi interpreta un testo senza intelligenza non meno di chi lo storpia arbitrariamente, non è un artista".
(Ernst H. Gombrich A cavallo di una manico di scopa Einaudi 1971).
Le nostre difficoltà si attenuano con le opere del gotico internazionale e scompaiono del tutto nel Quattrocento, da Masaccio in poi. Non a caso, è nel Quattrocento che si sviluppa l'arte del ritratto individuale; anche prima c'erano dei ritratti, ma si trattava sempre di personaggi in mezzo ad un gruppo di fedeli o di donatori, rappresentati in ginocchio e su scala ridotta. Il ritratto individuale, come lo pensiamo noi, non faceva parte del mondo artistico medievale, ancor prima, del loro mondo spirituale: poteva essere un dettaglio curioso, non il centro della rappresentazione.
Negli anni in cui a Tolentino si decise di affrescare il Cappellone, in cui si scelse il programma iconografico e si cercò la bottega che potesse realizzarlo al meglio, il punto di riferimento artistico, ben noto in tutta Italia, era Giotto: la sua bottega, i suoi allievi e le altre botteghe che dai suoi esempi avevano imparato.
E' usuale citare ciò che scrive il Vasari all'inizio della vita di Giotto da Bondone:
"Essendo stati sotterrati tanti anni dalle rovine delle guerre i modi delle buone pitture et i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, per dono di Dio quella che era per mala via risuscitò et a tale forma ridusse che si potette chiamar buona. E veramente fu miracolo grandissimo che quella età e grossa et inetta avesse forza d'operare in Giotto sì dottamente, che il disegno, del quale poca o niuna cognizione avevano gli uomini di quei tempi, mediante lui ritornasse del tutto in vita".
Ma il Vasari scrive a cose fatte, attorno alla metà del Cinquecento, e si ispira probabilmente a ciò che aveva scritto il Boccaccio quasi negli stessi anni in cui veniva affrescato il Cappellone:
"Ebbe un ingenio di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose ed operatrice col continuo girar de' cieli, che egli con lo stile e con la penna e col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo essere vero che era dipinto. e per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni che più a dilettar gli occhi degl'ignoranti che a compiacere allo intelletto de' savi dipigneano, era stata sepulta, meritatamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote".(Quinta novella della Sesta giornata del Decamerone)
Giotto ed il Boccaccio non vivevano certo in una età grossa et inetta, come riteneva più di duecento anni dopo il superbo Vasari. Si è detto che Giotto e Boccaccio sono l'espressione di classi in ascesa, le classi mercantili e popolari, quelle delle Arti, che stavano prendendo il posto delle famiglie magnatizie. Il vigore di Giotto e dei giotteschi (di cui fa parte il Maestro di Tolentino) è sostanza di nuova civiltà, più che accidente di nuova rappresentazione.
I critici sono concordi nel ritenere che il Maestro di Tolentino appartenesse alla scuola giottesca riminese, in pieno fulgore negli anni degli affreschi da Tolentino e che era sorta al tempo in cui Giotto aveva eseguito a Rimini opere nella chiesa di San Francesco, che a noi oggi è nota come Tempio Malatestiano.
Di queste opere ci è rimasto solo il magnifico Crocifisso ancora conservato nel Tempio, il resto è stato distrutto al tempo dei grandi lavori che Sigismondo Pandolfo Malatesta fece eseguire attorno al 1450. Il Vasari, più di un secolo dopo, se la prende ancora con queste distruzioni .
I maestri riminesi irradiano la loro influenza, oltre che a Tolentino, anche a Pomposa, ed in genere nelle località della costa adriatica romagnola e marchigiana. La scuola riminese scompare quasi del tutto attorno al 1350, probabilmente per la scomparsa degli artisti più insigni nella peste nera del 1348. Prevarrà allora la scuola bolognese, aperta anche alle influenze del gotico francese.
Il Maestro di Tolentino, secondo gran parte dei critici, è da identificare in Pietro da Rimini, che è il più noto dei maestri riminesi, e gli affreschi di Tolentino sono la sua opera più importante che ci sia pervenuta. Conosce bene l'arte di Giotto, da cui deriva l'espressività potente, la solidità corporea delle figure e dei panneggi. E' meno interessato di Giotto ad una organizzazione razionale degli spazi, sia quelli dei singoli riquadri sia quelli che hanno una funzione di raccordo, di telaio prospettico ante litteram.
L'impressione è quella di una narrazione paratattica, in cui l'emozione e la vivacità dei singoli episodi costituiscono i punti focali, esaltati da un cromatismo che richiama gli antichi mosaici di Ravenna, ai riminesi ben noti. Renato Roli scrive, un po' riduttivamente, di bellissimi frammenti soltanto accostati, ma quella del Maestro di Tolentino non è una reazione passatista alla pittura di Giotto: si guardi ad esempio la rappresentazione delle mani, grandi e potenti, ma non grossolane, con una eleganza da artiglio, e la teatralità originale di tanti riquadri.
Le nozze di Cana, con i commensali disposti su tre tavoli, la sposa e lo sposo con l'aureola, gli inservienti alle prese con le anfore, il personaggio seduto, quasi accosciato, che beve in punta di labbra, o l'annuncio ai pastori ed il bagno al bambino nel riquadro della Natività.
Nella fascia inferiore, quella dedicata alla vita di San Nicola, si vede l'intervento esecutivo degli aiutanti del Maestro, e ci sono vaste perdite di affresco, sino a portare a vista il sottostante muro di mattoni. Ma la vestizione del santo, il miracolo della donna resuscitata e la morte del santo - col Cristo che ne tiene in braccio l'anima e col concerto angelico - mostrano con chiarezza che il Maestro di Tolentino (fosse o non fosse Pietro da Rimini) seguiva tutto il lavoro della bottega, che si svolgeva sulla base di suoi disegni e cartoni.
Richiese anni, l'impresa così vasta e così ben curata, così rispettosa del programma stabilito e così vigorosa e fresca, condotta con tranquilla costanza dal maestro e dalla sua bottega.
Gli Agostiniani onoravano gli impegni presi e la bottega venuta da Rimini era soddisfatta: perché firmare gli affreschi o compilare documenti? C'erano altre priorità: accogliere i pellegrini, assicurare il necessario flusso di denaro, documentare i miracoli del santo, ormai noto e venerato al di là dei confini locali. Proprio per questo, al di là delle auspicabili ricerche negli archivi, possiamo benissimo continuare a chiamarlo il Maestro di Tolentino, chiunque sia stato nella sua vita reale.
4 commenti:
Bellissimo ripescaggio di un articolo importante: lo lessi la prima volta tra la mia prima e la mia seconda visita a Tolentino; ciò che fece della seconda un'esperienza più consapevole per me, e più lunga e noiosa per figlia e consorte. Leggendo questo post solimaniano appresi dell'esistenza dei "programmi iconografici". Forse ero il solo a ignorarne l'esistenza, ma, come sempre quando s'impara qualcosa di concettualmente semplice e universalmente pervasivo, la mia maniera di guardare un ciclo affrescato o un sarcofago scolpito è cambiata per sempre.
Per ulteriormente invogliare chi passi per le Marche centrali a far tappa a Tolentino, ricordo che il monastero raccoglie anche una bellissima collezione di ex-voto dipinti, dal '400 in avanti. Un'incredibile catalogo di vita comune attraverso i secoli, di devozione popolare, di arte "bassa", delle infinite sfighe scampando alle quali la gente doveva chieder grazie a S. Nicola da T., di scampoli linguistici romanzi (grossamente latini o di dialetto ritoscanizzato in fase di scrittura).
A Tolentino s'arriva comodamente dalla costa, seguendo una superstrada che parte da Civitanova Marche.
Buon Natale a tutti,
Màz
"un incredibile", ovviamente.
Il bello di aver a che fare con Primo (pardon, Solimano) è che ho imparato un sacco di cose che non conoscevo; direi che è per cose come queste che sono contento di scrivere con lui.
Il Maestro di Tolentino?? (ma io non so nemmeno dov'è Tolentino...).
E invece, eccolo qui, con quell'ariete che sembrerebbe venire diritto da Lascaux.
saludos
Giuliano
A volte è bene riprendere quello che si è scritto anni fa, ci si accorge meglio di alcune cose a cui non si era badato, presi dall'ansia documentaria.
Mi sono accorto di due cose.
La prima è il lucido e cocciuto procedere della comunità locale, che andò avanti per la sua strada a prescindere da Roma. Per loro Nicola era santo, punto e basta. Gli affreschi sono stati fatti cent'anni prima che Roma approvasse. Questo per dire la fecondità del grande mito cristiano, la spinta che sorgeva era irresistibile.
Poi il pittore. Ho scelto dei particolari in cui si vede che cercava il contatto con chi guardava il quadro, persone che conosceva benissimo e che dentro gli somigliavano. La presenza degli animali rapprentati così è importante, e Francesco d'Assisi l'aveva fatto cent'anni prima: il lupo di Gubbio, la predica agli uccelli etc.
saludos
Solimano
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