lunedì 26 novembre 2007

Lo cunto de li cunti




Lo cunto de li cunti

di Stefania Mola
(BibliotecadeBabel)




In certi luoghi gli scrittori non servono, perché le storie – da sempre – si raccontano in cerchio, attorno al fuoco e di fronte alla propria memoria. Si chiamano cunti i racconti di cui siamo fatti, un numero infinito di storie appiccicate addosso che ci scorrono dentro «come il sangue e l’acqua, i ricordi e le insidie», e si dicono in cerchio per ascoltarli meglio, passando «da un orecchio all’altro, da un cuore all’altro». Di tanti cunti impastati nei sogni, nelle visioni e nei fantasmi è fatto questo libro dedicato a tutti quelli che gli somigliano e somigliano ad un’antica canzone salentina, citata in esergo:

Na sira passai de le padule e
‘ntisi le ranoncule cantare.
A una a una ieu le sentia cantare
ca me pariane lu rusciu de lu mare.

Nunzia e Palmira a orchestrare il racconto, due donne intense come solo certi paesaggi, estreme nelle passioni e nelle emozioni, non in cerca di risposte ma di qualcosa buono a proteggere dal dolore delle parole, in certi giorni storte e «malate di terra rossa e cielo sbilenco», capaci di infilarsi nelle emozioni di coloro che amano come indossare un abito, e di scandire piano le parole perché restino addosso, per sempre.

Nunzia e Palmira figlie di un Sud di maleficio che condanna le donne ad essere materne e ferine insieme e ad avere lo sguardo e l’odore del lupo. Un Sud nelle cui stanze il dolore è corpo e ci si sbatte contro facendosi male fino a sanguinare. E stanze che ondeggiano al ritmo della risacca della colpa, che il sole inonda devastando tutto ciò che incontra, che sono mondi abitati da tutte le vite che ci hanno preceduto e da tutti i legami impossibili da recidere, in cui non si entra bensì ci si immerge, con pavimenti su cui stendersi per sfuggire all’afa e far tornare il corpo alla terra mentre passano i morti. Un Sud di andamenti circolari, impregnato di sensi che sopravvivono alla modernità in cui si scopre di non essere fatti della stessa pasta dei sogni ma di vino infitisciutu, d’aceto e disincanto, dell’odore pungente dell’olio, di quello sfatto dei pomodori seccati al sole. Un Sud che è terra di colori «che tramortiscono i sensi» e che il vento risparmia mentre spazza il resto e sbiadiscono smettendo di respirare quando i fantasmi sorprendono la felicità degli uomini fermando il tempo. Un Sud che è bianco e nero di fronte ai dèmoni quando i colori non vogliono svegliarsi.

E poi le mani. Mani con cui si nasce, si vive e si muore. Motore di ogni fremito, agli antipodi degli occhi – porte della bellezza e dell’inferno. Mani di sciamana che insieme alle visioni curano affondando nelle viscere, mani sentite prima di essere strette e di mettere in moto il tempo, mani di un amore anomalo e violento e di una madre matrigna, o di quella piccola felicità che è un padre nei ricordi sfilacciati di un’infanzia rimasta lutto mai elaborato. A mani nude provando a scacciare la morte e ricacciare nel corpo la vita. Con una mano a seguire anni di cicatrici sul corpo e dentro l’anima, nelle mani l’amore che fa fare le cose con il cuore. Perché le mani, alla fine, cercano di raccogliere tutto il sangue colato di stanza in stanza, anno dopo anno, storia dopo storia. Non si stringono impunemente le mani, qui. Mai.

Un libro scritto al ritmo ossessivo di una indefinibile pizzica, primordiale nelle emozioni, arcaico nel suono delle parole, impregnato degli umori di una terra di cui restituisce il passo ipnotico e cadenzato. Una terra magica, di cunti, masserie e tamburelli, nella quale si parla a ritroso quando non si ha niente per riempire il presente, riappropriandosi della memoria con le unghie e con i denti, consapevoli che insieme al sangue – dentro – scorrono passioni e follia, amore e morte, terra e radici inestirpabili. Dove non sono solo i legami di sangue ma le corde recise a legare; corde vocali e corde del cuore. Corde strappate.

Quando eri piccola non sognavi mai. Le tue compagne dell’asilo si raccontavano i sogni in giardino, con le suore che le spiavano dal refettorio. Le suore spiavano i sogni delle bambine, misurandone parole e profondità. Tu guardavi le altre bambine a bocca aperta. Stupita, ti chiedevi perché non ti era concesso di condividere questa gioia segreta. Allora, per non essere esclusa da quel cerchio tutto rosa, t’inventavi delle storie incredibili. Storie assurde, che non sembravano per niente sogni, ma incubi, di quelli che fanno bagnare il letto di notte.
I sogni sono arrivati quando hai smesso di fare la bambina, quando hai smesso di sbarrare gli occhi nel buio in cerca di un movimento fugace nella stanza. E nei sogni c’erano sempre i boschi di betulle. Per un anno e mezzo hai fatto sempre lo stesso sogno: cerchi di fuoco, boschi di betulle e aghi di ghiaccio danzanti. Come i lupi, non sogni mai troppo.
[...]
Come i lupi abbiamo perso il gusto di cacciare. Siamo diventate donne per necessità.


Clara Nubile: Lupo
(Fazi, Roma 2007)

martedì, 23 ottobre 2007
Da Squilibri

Luc-Olivier Merson: Il lupo di Gubbio, 1877


3 commenti:

Giuliano ha detto...

Basile lo conosco poco, ma quel poco che ho letto è una meraviglia.
Grazie Stefania!

Anonimo ha detto...

Gli ho rubato solo il titolo... spero di non essere stata troppo irriverente. :)

Grazie a te, e ad Habanera naturalmente.

Stefania

Giuliano ha detto...

Stavo cercando il ricordo che mi era venuto in mente, e adesso l'ho trovato. E' un collegamento che può sembrare strano, ma è con il film "Sogni" di Akira Kurosawa.
saluti ancora