Io piangerò per te, Enkidu, amico mio;
emetterò lamenti come fanno le lamentatrici.
L'ascia del mio fianco, l'arma del mio braccio,
la spada della mia guaina, lo scudo del mio petto,
i miei vestiti festivi, la mia cintura regale,
uno spirito cattivo me li ha portati via.
Amico mio, mulo imbizzarrito, asino selvatico
delle montagne, leopardo della steppa,
Enkidu, amico mio, mulo imbizzarrito, asino selvatico
delle montagne, leopardo della steppa,
noi, dopo esserci incontrati, abbiamo scalato insieme la montagna,
abbiamo catturato il Toro Celeste e lo abbiamo ucciso,
abbiamo abbattuto Khubaba, l'eroe della Foresta dei Cedri:
ed ora qual è il sonno che si è impadronito di te?
Tu sei diventato rigido, e non mi ascolti.
(da "La saga di Gilgamesh" a cura di Giovanni Pettinato, ed. Rusconi, pag.191)
Gilgamesh è un semidio, la sua natura è metà umana e metà divina; come tale, è immortale. Quando inizia le sue avventure è da solo, ma poi incontra un bizzarro essere, un uomo dall'aspetto vagamente bestiale, ispido e forte. Combattono insieme, e fanno amicizia; da allora Enkidu e Gilgamesh saranno inseparabili e compiranno grandi imprese. (Gilgamesh fa anche conoscere all'amico le donne, che lo dirozzeranno un po'). Insieme sconfiggono il terribile Khubaba, considerato invincibile. Allora la dea Ishtar, che ha delle mire su Gilgamesh ma viene respinta, si rivolge agli altri dèi per punirlo; ottiene che venga liberato contro di loro il Toro Celeste, ma i due amici superano anche questa prova. Non contento, Enkidu sbeffeggia la dea. Ishtar è infuriata, ma non può nulla contro Gilgamesh; può invece colpire Enkidu, che non è immortale. Enkidu si ammala gravemente; Gilgamesh lo assiste, lo veglia a lungo ed è sconvolto dalla sua morte.
Gilgamesh così parlò a lei, alla taverniera:
" Non dovrebbero le mie guance essere così emaciate,
e la mia faccia stanca?
Non dovrebbe essere il mio cuore così confuso,
e il mio sguardo assente?
Non dovrebbe regnare angoscia nel profondo del mio essere?
L'amico mio, il mulo imbizzarrito, l'asino selvatico delle montagne,
il leopardo della steppa (...)
l'amico mio che ha condiviso con me le mie avventure,
Enkidu, l'amico mio che io amo,
ha seguito il destino dell'umanità.
Per sei giorni e sette notti ho pianto su di lui,
né ho permesso che fosse seppellito (...)
Come posso io essere tranquillo, come posso io essere calmo?
L'amico mio, che io amo, è diventato argilla.
Enkidu, l'amico mio che amo, è diventato argilla.
Ed io non sono come lui? Non dovrò giacere anch'io
e non alzarmi mai più per sempre?
(da "La saga di Gilgamesh" a cura di Giovanni Pettinato, ed. Rusconi, pag.203-204)
Si tratta del poema più antico che sia mai giunto fino a noi: la saga di Gilgamesh, scritta sulle antiche tavolette sumere (2000 aC) e babilonesi (500 aC). In essa, nella seconda parte, si trova anche la famosa descrizione del diluvio universale, precedente alla versione della Bibbia e molto simile ad essa. Ma questo è l'inizio del poema: Gilgamesh è molto giovane, non conosce la morte e ne è sconvolto. Proprio come noi, da bambini, non conosciamo la morte ed è come se fossimo immortali, l'eternità non ci spaventa e non temiamo il passato; ed Enkidu, così irsuto e strano, potrebbe benissimo essere nostro padre, nostro fratello... Non è certo un caso che sia questo il poema più antico dell'umanità, e che proprio questo sia il suo soggetto.
Non sarò forse, quando io morirò, come Enkidu?
L'amarezza si impadronì del mio animo,
la paura della morte mi sopraffece, ed ora io vago per la steppa; verso Utanapishtim, il figlio di Ubartutu,
ho intrapreso il viaggio.
(da "La saga di Gilgamesh" a cura di Giovanni Pettinato, ed. Rusconi, pag.195)
La saga di Gilgamesh è un capolavoro assoluto, strano e forte, del quale ogni tanto gli archeologi recuperano qualche frammento, decifrato dall'alfabeto cuneiforme delle tavolette d'argilla. La versione che ho usato è quella, letterale e condotta sugli originali, del professor Giovanni Pettinato, uno dei massimi esperti di Ebla e di Babilonia; e Utanapishtim è il Noè dei sumeri, che Gilgamesh, ormai non più bambino, raggiungerà dopo un lungo viaggio e al quale chiederà notizie su questa sua terribile scoperta del mondo.
(2 novembre 2004)
4 commenti:
La scena della morte di Enkidu, con l’amico che lo veglia “fino a che non diventa argilla” è talmente forte che ogni volta che la leggo non riesco a non commuovermi. Questo è forse il primo poema dell’umanità, e tratta del tema fondamentale. “The unanswered question”, come direbbe Charles Ives...
Grazie per il ripescaggio.
Giuliano
Bellissima segnalazione. Di Gilgamesh sapevo solo per sentito dire e questo bel contributo m'invoglia a impararne di più.
Caro Giuliano, mi sono innamorata a prima vista di questo post. Tanto che ieri, appena l' ho scovato, ho deciso di pubblicarlo subito, pur avendo in bacheca già altre bozze pronte in lista di attesa.
Volevo che anche altri potessero goderne e sono certa che sarà apprezzato anche nel lungo periodo.
Infatti i blog hanno di buono che i visitatori non si fermano a leggere solo l' ultima cosa pubblicata ma vanno a scartabellare anche in archivio e le cose più interessanti continuano ad essere richieste, anche a distanza di mesi. Per chi legge con attenzione il report di ShinyStat che abbiamo voluto rendere pubblico, ed in particolare quello sulla richiesta delle pagine (l'ultimo in fondo alla schermata), è facile seguire l'andamento dei vari post. Ti posso assicurare che i tuoi vanno sempre fortissimo.
Un abbraccio
H.
Ho visto tempo fa alcuni documentari dedicati agli animali, documentari seri, in cui gli animali non li si umanizza, come purtroppo era d'uso fino a qualche anno fa.
Si vedeva il comportamento di un branco di elefantesse quando un piccolo muore. Si mettono vicine e per un po' cercano di rialzarlo da terra con i loro corpi. Insistono per un bel po', quando si accorgono che non ce la fanno, smettono e se ne vanno.
Nel caso delle scimmie antropomorfe la cosa cambiava. Le scimmie hanno un linguaggio con degli speciali fonemi, e ce n'è uno che riguarda la scimmia morta. Vanno avanti per diverso tempo a ripetere quel fonema.
Per l'uomo, credo che il problema di fondo è che in tutte le culture si è dato corpo alla morte, come se avesse una esistenza propria, contrapposta alla vita. La morte è il fenomeno terminale della vita, esattamente come la nascita è il fenomeno iniziale. Non credo che sia una banalità, il dare corpo alla morte crea una serie di problemi che ci tocca affrontare, ovviamente, mentre siamo vivi.
saludos
Solimano
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