Il Museo dell’Ombrello
Tra il Lago Maggiore e quello d’Orta sorge il Mottarone, monte sulle cui pendici si narra viva il Tarusc; gnomo alto mezzo metro, rosso di pelo, misantropo e affetto da timidezza acuta, ha un’unica passione: gli ombrelli.
Perciò, tanti e tanti anni fa, decise di insegnare agli abitanti della zona del Vergante, unici umani che gli erano simpatici, l’arte del fabbricarli e un misterioso linguaggio comune: il tarùsc, appunto.
Così i 50 villaggi sparsi sulle falde del Mottarone divennero patria di ombrellai ("lusciàt"); artigiani ambulanti che dall’inizio del ‘700 sciamarono nelle città dello Stivale tenendo sulle spalle la grande "barsèla", cassetta a forma di faretra dalla quale spuntavano al posto delle frecce i "ragozz" (stecche degli ombrelli) mentre sul fondo eran stipate "lusùra, flignànza, tacugnànza e tacòn, ramé, ecc", (forbici, refe, pezze varie, bastoni di legno ecc): insomma, tutti i "sápitt" (ferri del mestiere) da lusciàt.
Gridavano per le strade "Om-brellèee! Om-brellée!", attenti ad un cenno che dalle finestre delle case li avrebbe assoldati per aggiustare ombrelli rotti o, gran fortuna, fabbricarne di nuovi.
Una vita grama; guardati con diffidenza perché foresti vagabondi senza posto fisso dove "cubià" (dormire; da qui la necessità d’usare un gergo incomprensibile ad altri, il tarusc), pativano freddo e fame. Da "picinà" ("mangiare") solo "gèrb e stafèl", pane e formaggio portato da casa.
Iniziavano l’apprendistato a 7 anni, affidati in gennaio dalle famiglie ad un lusciàt esperto tramite una sorta di pubblico ufficio di collocamento situato sulla piazza di Carpugnino, dove oggi su un’epigrafe sta scritto "Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l’ Casér, senza an bergnin", il primo dell’anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino.
Ci si poteva considerare brisòld" (ricchi) quando si riusciva a metter su la prima bottega con un banchetto e l’insegna di due cupole d’ombrello a spicchi bianchi e rossi e la scritta "Luscia, el lusciat piola": piove, l’ombrellaio si sbronza (brindando perché con la pioggia lavora di più).
Molti fecero fortuna, aprendo raffinati negozi-laboratori in Italia e all’estero (New York , San Francisco, Sidney); e nel 1939 a Gignese (Verbania), massima patria d’ombrellai, Igino Ambrosini (lusciàt, figlio e fratello di lusciàt, 1883-1955)) fondò il "Museo dell’Ombrello e del Parasole", ove racchiudere non solo la storia epica di questi artigiani, ma anche meravigliosi esempi del loro lavoro.
Oggi, in un curioso edificio che ha la pianta a forma di tre ombrelli affiancati, sono raccolti bassorilievi, mosaici, quadri, foto che raccontano la storia dell’ombrello, oltre 1500 pezzi inventariati; da quello del Doge (metà del 700) ad altri di personaggi storici, ai coloratissimi paracqua di seta di Como (1830), ad altri di piume di marabù o armati di lame nel manico, bastoni di malacca o avorio, decorati di pomi d’argento o di Sèvres… Perché un tempo anche gli ombrelli erano una cosa seria, non impersonali trabiccoli usa e getta made in Taiwan.
Da Placida Signora
2 commenti:
Bacio al galòp, tesoramia! ;-*
Avventurandomi questa notte nel web, alla ricerca della lingua delle mie origini (sono uno stupido maschio) mi imbatto in questa orgia di ombrelli ambroselli e tarusc.
Mio nonno parlava ancora il tarusc.
Non con i nipotini pero'.
ed il mio cognome e le mie origini sono un misto di ombrelli, ambroselli, laghi e poverta'.
Ed una voglia di fare del tutto -orgogliosamente- padana.
Non sono leghista.
Al massimo sono della Lega nErd (fuori gli incompetenti dalla gestione di internet)
Mio nonno vendeva ancora ombrelli.
E parlava ancora il tarusc.
Ma aveva la lancia flavia
un sorriso alla dirk bogarde
e mia nonna al suo fianco.
E questa sera tra ombrelli e ambroselli, tra laghi e gerghi li voglio ricordare.
Sentimentale epigrafe di un sentimentale lettore di un blog
brigal MS
el me tona MS
Bel blog il tuo.
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