Letizia Ricci
Ho una valigia e due borse in più. L'Italia me la porto via piano piano, a pezzi.
In una borsa ci sono i grissini, gli specialissimi grissini piemontesi, nell'altra ricchi premi e cotillons che si portano dietro il profumo di piazze appena affollate, commesse tanto solerti quanto giovani, edicolanti dissestati dalla pantagruelica mole di riviste e fumetti. I fumetti li riporto sempre, hanno un linguaggio speciale che ai figli non deve sfuggire. La valigia è per i libri, frutto della puntuale full immersion da Feltrinelli. Sono diventata un convoglio eccezionale, senza accorgermene. Sarà il caso di dire che la cultura pesa. E i grissini sono fragili, stanno appesi in posizione esterna sulla spalla sinistra, dal che si evince che dovendo spintonare è opportuno che avvenga a destra.
Avrei voluto portare anche il bicerin e il menu della piola, che da solo è valso il frugale pasto della sera prima. All'ingresso della piola c'è il bar, qualche avventore e l'intera famiglia che si indaffara tra le salette ricavate da un ex garage, una ex terrazza, una ex cantina. Confortante scenario di vetrate con profilato di alluminio anodizzato, contro ogni moderna eleganza, con vista sul cortile del caseggiato. Sul tavolo c'è un foglio, una lista con i piatti della casa e accanto ad ogni voce un quadratino per segnare la quantità di "pezzi" da ordinare. Ci sono troppe cose che non entrano in una valigia.
Le stazioni di transito hanno una peculiarità: ci si infila il vento esattamente nella direzione del treno, misto all'odore di freni e di ferro. Mi viene un attimo di panico immaginando uno spaventevole futuro in cui sul bordo del binario ci sia un Mac Donald che distribuisce panini ai viaggiatori appesi ai finestrini. Immagino con terrore l'odore di patatine rifritte al posto delle polveri metalliche: si preghi perché non accada mai.
Le staffilate di vento arrivano nette nel collo ad acuire i solchi del bagaglio sulle spalle.
Devo riuscire a lanciare il bagaglio oltre la portiera, si sentono già i fischi, lancio tutto fuorché i grissini.
Open space, stavolta. Ci sono poche persone, vado in avanscoperta per individuare il posto e ancora una volta ne scelgo un altro, quello al centro, il salottino in cui c'è un ampio tavolo che divide i sedili che si fronteggiano.
Prendo accordi con un signore che è già lì e fortunatamente si è già collocato controvento. Richiude il computer, ripiega i lembi del tavolo, per farmi posto. Si rende conto che tocca fare un paio di viaggi verso l'ingresso per recuperare il bagaglio.
Un uomo alto, gioviale, occhiali e barba rossicci, compìto anche dopo essersi caricato la valigia con i libri, sulla quale ha appena detto "acc...". "La lasci giù, quella, per favore", "Diamine, ma che c'è dentro?", "Libri ..."; questa risposta lo rassicura, e poi gli pare subito un buon argomento, mi chiede quali libri, gliene mostro alcuni. Mentre li rigira tra le mani, leggendo velocemente la sinossi in ultima di copertina, avanzando facce incuriosite o dubbiose, gli propongo un grissino. Sgranocchiando mi dice: "Non leggiamo le stesse cose", "Cosa legge lei?", e mi spiega che predilige i gialli, qualche romanzo di buona fattura, qualche libro di storia.
Intanto ha riaperto il tavolo e ognuno di noi lo ha apparecchiato. Riapre il computer, riposiziona i fogli, le cartelline e tenta di riordinare il tutto. Si ferma: "Ma lei è francese?". Realizzo che abbiamo parlato in francese fino ad ora. E ci scappa una risata, di quelle in cui ti senti totalmente imbecille.
Io spargo i libri, la sveglia, i giornali e le briciole di grissini.
Qualche sedile più in là c'è una donna. Ci siamo sfiorate varie volte con lo sguardo, è bruna e giovane. Guarda fuori, anche se è buio. Ha il viso fermo. Gira la testa e le incontro gli occhi di vetro, che brillano per quella tendina d'acqua che fanno le lacrime trattenute e svelano la reticella di venuzze che affiorano nell'occhio, come le dita di un'edera, quando piangi. Ma non cade niente giù, e la fatica a trattenere le lacrime si trasforma nel fremito del mento, nella danza delle pieghe del collo; si volta subito verso il vetro, a testa alta, e mi viene un groppo al petto.
"L'uomo stava poggiato al finestrino
Senza faccia né movimento.
La sua anima era buttata sotto al sedile a fianco,
Se ne stava spappolata,
avvolta dentro una maglietta.
Ne uscivano lembi che non potevano sfuggire
all'osservatore attento.
È passato un ragazzo e l'ha raccolta.
L'ha presa delicatamente, come un cristallo di Baccarat,
Avendo cura di richiudere i lembi
della maglietta
Perché non si perdessero i pezzi.
..."
Il mio compagno di viaggio è professore di scienze politiche. Trotterella sui tasti, alza lo sguardo, "Vuole un altro grissino?", "No grazie", sorride. Si distrae, guarda lo schermo mentre le mani passeggiano sul tavolo per sincerarsi che ci sia tutto. "Tra poco avrò finito, dice. La batteria è scarica".
Mi guardo intorno e mi accorgo che nei vagoni moderni hanno dimenticato le prese di corrente. Ce n'è una nella toilette, dico .... e ride, figurandosi al lavoro, in treno, seduto sul WC col PC.
In piazza c'erano molte bandiere, un palco che si perdeva come un tavolino vestito in mezzo alla Piazza Rossa, i lampioni stavano lì lì per accendersi ma non lo facevano, confabulavano tra loro in attesa del momento migliore, che è quello in cui il cielo si fa un po' violetto. Sentivo il loro bzzzz bzzzz rassicurante, non sono neon, hanno anche loro qualche pruderie, magari hanno freddo, anche se non fa freddo, la piazza s'è tenuta un'aria da primo autunno per non far scappare nessuno sotto ai portici.
Al banco delle magliette c'è un tizio un po' curvo, barbuto ed esile, vicino a lui un bambino tondetto, con le gote turgide e gli occhioni tondi. Ci sono le magliette EZLN, c'è Ernesto, una con la pistoletta No War, hanno dei bei colori e non sono le solite. Ce n'è una con una poesia del subcomandante che mi ha guardato appena sono arrivata, è sbucata fuori dal mucchio sbattendo le ciglia, stringendo il colletto come la bocca e lanciando un bacio. Non potevo dirle di no. E poi altre due. Hanno avuto un successone, ormai i figli portano solo quelle. Ed abbiamo cercato altre poesie ed anche la faccia del subcomandante e la storia del Che: dalla maglietta all'enciclopedia, ci si può stare.
Il tizio mi racconta della scuola del bambino; il bambino è felice di stare in piazza, all'aria aperta e mi consiglia come distribuire le magliette, per età e personalità. Eugenio si chiama. Un altro dono della natura.
Sul palco c'è qualcuno che conosco. Da Baratti c'è il Secco, che è davvero secco. Per via della telecamera puntata contro non riesce a prendersi il caffè, non parla, non fa, sta lì come un baccalà, mi fa pena. Magari pochi minuti fa era sul palco, di fatto sta sempre inchiodato da qualche parte, a non vivere. Cambiamo bar.
La batteria del professore è finita e lui si stende finalmente sul sedile e mi racconta di suo figlio.
Sto sfogliando le poesie di Kavafis, in realtà guardo appena dietro; le gambe della donna stanno strette strette, le mani in mezzo alle cosce, a pregarle di star ferme, poi si gira richiamata dal mio sguardo. Ho bisogno di guardarle quegli occhi, il mento ora non sussulta più; muove appena le labbra per un quasi sorriso, dovrei offrirle un grissino. Invece guardo tra i sedili, magari c'è l'anima appallottolata.
"Si è laureato con 106, in fisica", e lo dice come la cosa a lui più estranea, domando cosa desideri fare e con la medesima estraneità mi predispone l'elenco dei viaggi all'estero, dei master, dei dubbi. Nella lista non ci sono sogni. Poi mi rassicura: "quando deve scendere l'accompagno, non si preoccupi ...". Ma io non mi preoccupo affatto, quasi quasi mi piace caricarmi tutta questa roba e avanzare stentando tra scale che scendono e che salgono. Gli ricordo che il treno ferma per tre minuti, e che se scende salta la sua cena a Parigi.
Vado a fumare una sigaretta, il professore richiude il tavolino, "stia tranquillo, non serve ...", ma lui si agita, fa posto anche se il posto c'è.
Apro la porta pneumatica. Una ragazza sta seduta sulla valigia e appena accendo la sigaretta spennella con gli occhi tutte le pareti: ovunque è scritto che non si può fumare. Apro la porta della toilette, una sensazione fantastica fumare di nascosto nel bagno del treno. Per onestà di cronaca, anche nella toilette c'è un cartello no smoking. Sono ancora più felice, e la sigaretta è ancora più buona.
La donna ha una sciarpa che le scende leggera sul pullover, di quelle che con poco vento si alzano e volano via. Poi inaspettatamente, mentre sto per sedermi reinnescando il tramestio del professore, si sporge verso di me, fa un cenno del mento verso le poesie e mi dice: "Posso?". Mi viene un brivido nell'incontrare il suo sguardo, sotto agli occhi la pelle ha una piccola piega, di quelle che fa il dolore, che rimpiccioliscono un po' lo sguardo, eppure lo fanno più bello. Sono contenta di porgerle il libro e vedo che comincia a scorrerlo alle pagine che ho segnato.
"E dire che con questi aggeggi, lo sa lei, posso anche collegarmi a internet da qui, vede, ho il cellulare e non so come accada ma accade che mi colleghi in rete. Ma non lo faccio mai, la batteria si scarica subito, e poi da quando ho tutto questo apparato tecnologico, la fretta m'è passata". Dice il professore. Lo ascolto molto distrattamente, in realtà aspetto il commento della donna sulle poesie. Ne sfoglio altre.
"L'accompagno, credo che sia arrivata", dice il professore.
Sì, già, sono arrivata. Raccolgo tutto, attenzione ai grissini, su il cappotto e le tre tracolle, la voce del macchinista annuncia che tra due minuti siamo in stazione, la donna si alza, mi porge il libro guardandomi dritto negli occhi, il professore si barcamena con le mie valigie, avanzo nel corridoio, c'è una maglietta spappolata sotto a un sedile, non posso fermarmi, scendo, il professore dice "non ci siamo neanche presentati", "non serviva ... grazie", mi incollo tutto, il libro di Kavafis cade dalla tasca, devo ricominciare, il treno riparte, la donna mi sta guardando dal finestrino con gli occhi di vetro, ha lasciato nel libro uno scontrino a questa pagina:
"I muri
Senza riguardo senza pietà senza pudore
mi drizzarono contro grossi muri.
Adesso sono qua che mi dispero.
Non penso a altro: una sorte tormentosa;
con tante cose da sbrigare fuori!
Mi alzavano muri, e non vi feci caso.
Mai un rumore una voce, però, di muratori.
Murato fuori dal mondo e non vi feci caso."
giovedì 7 marzo 2019
In treno (ritorno)
Pubblicato da Habanera alle 02:21
Etichette: Letizia Ricci
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