mercoledì 10 marzo 2010

Sorelle

Sandra Mastore

Emile Vernon: Tre Sorelle (1912)

Milano svela marciapiedi larghissimi a fine agosto, gli stessi dei viali dai nomi geografici solitamente foderati di auto.
Romagna, Marche, Umbria, Abruzzi… un gioco da bambine, quando si veniva a Milano, trovare capoluogo e province della regione che dava il nome al viale.
Ci si può camminare in tre accordando il passo, senza bisogno di cederlo, di interrompere il discorso. Baristi sfaccendati sulla porta.
Strano avanzare, sotto un sole che non accetta di non esser più leone, guardando le foglie già secche ai piedi degli alberi, fenomeno di questa perfida estate 2009.
Milano regala anche parcheggi facili e liberi per ferie, interni freschi, ventilati solo dalle finestre aperte. Ancora sferraglia e stride poco Milano.
E’ sommessa, anche a quest’ora. Sta con le mani in mano, pensa una delle sorelle sedute nella stanza.
La via Gluck non è lontana.

Le due sul divano rigido ascoltano l’altra sulla poltroncina di fronte. Profili tesi e labbra da mordere.
Si versano acqua da una brocca di cristallo rosato sul tavolino in mezzo. Se la offrono a turno, contendendosi il riempire quei bicchieri eleganti e delicati.
Tre signorine Felicite in pantaloni e sandali.
Un’occasione le ha riunite, sole, in tre come una volta. Tanto cambiate da una volta, dopo ere glaciali e mai definitivi disgeli.
- Non dello stesso padre!- osservò qualcuno, anni prima, sbalordito da tanta diversità.
Diversissime, infatti.
Quante belle figlie madama Dorè: dal biondo cenere, al castano chiaro, al nero. Il mondo si era gloriato di poter essere visto in azzurro, blu, nocciola e profumato da pelle scura o dorata o chiarissima. Le belle figlie non gli avevano badato, rinfacciandogli il nido sdrucciolevole che era toccato loro: sconosciuti calore e armonia, negato il riconoscimento.
Angustiata e senza armi Madama Dorè.
Ognuna aveva cercato il suo modo di spiccare il volo, rughe e lacrime avevano disegnato poi solchi diversi. Su misura e di alta sartoria.
Ora erano insieme nella stanza.
- C’è troppa corrente?
- No. Prendi ancora un po’ d’acqua.
Un assortimento che non capitava da parecchio di rivedere al completo. Più facile a due a due, con accoppiata a sorpresa.
Diversissime davvero, al primo sguardo.
Di cosa parlano, mentre bevono acqua e ravviano capelli biondo cenere, scostano ricci ramati, sistemano fermagli tra ciocche brune? L’argomento porta a toccare i capelli, nessuna di loro ha bisogno di tintura e i gesti per domarli sono ancora adolescenti, le dita si muovono in modo simile, spontaneo, con riguardo e lentezza.
Il gesticolare delle altre ricorda a ciascuna che è si è formato sotto lo stesso tetto.
Così come è comune il modo di impugnare la penna, da dove ancora oggi esce un tratto rotondo, generoso, che non bada a spazio e lascia il segno sulla pagina sotto. Una concessione di barocco a pochissime maiuscole, forse le preferite, per poi irrigidire geometricamente le altre. I genitori stessi faticavano a distinguere le scritture.
A guardar meglio anche i capelli, colore e acconciatura a parte, sono dello stesso tipo. Folti, grossi. Appariscenti, volendo.
Sono figlie dello stesso padre, invece. Eccome.

Edward Atkinson Hornel: Catturando farfalle

Una guarda oltre i fili del tram, verso la Stazione Centrale che da bambine significava l’inizio delle vacanze, con le sue altissime volte e l’emozione del primo movimento del treno.
Si guardavano, in quell’attimo di fremito e la complicità di quel nocciola-azzurro-blu faceva battere i loro cuori dietro il finestrino. A due passi dalla via Gluck e dal tempo delle sedie di plastica intrecciata dei bar dove i padri regalavano, con le loro incontenibili risate di giovanotti, gioiosi sussulti alle bambine quasi addormentate che tenevano in braccio.
Il padre giovanotto che le accompagnava, portando le loro valige come fossero piume a quadri scozzesi, ora rimpiccioliva: ancora il braccio muscoloso mosso nel saluto, ma ormai lontano lo sguardo imperioso.

Parlano proprio di lui oggi, in questa stanza, bevendo acqua mentre l’azzurro-blu-nocciola si ridesta.
Non si assenterà come per venire qui a Milano ogni giovedì, quand’era gigante e la sua assenza a tavola significava risate e allegria e desiderio che il prossimo giovedì arrivasse presto.
Non lo perderanno. Non si spegnerà. Non le lascerà. Tantomeno mancherà.
Morirà. E forse di lui nessuno l’avrebbe mai pensato.
Morirà come tutti, per sempre. A breve.
La malattia sarà più forte di lui che a loro pareva invincibile.
La sta combattendo da poco, è entrata subdolamente, togliendosi i tacchi a spillo per non farsi sentire, come facevano loro quando rincasavano tardi. Al buio, silenziose, rapide. Vigliacche.
Forse non c’era ancora al primo allungarsi delle giornate, quest’anno. Lo si vedeva sfrecciare sulla bicicletta come a voler impolverare invisibili inseguitori, lampo velocissimo in giacca a vento che seminava il tempo e le auto ai semafori. Dimostrazione che un uomo solo può avere la meglio e concepire sogni di granito mentre pedala tenacemente.
Avrebbe per sempre fatto così. E se qualcuno rimaneva schiacciato o diventava invidioso, pazienza.
La bici, un grande amore.
La preferisce “di gran lunga” alla sua auto tedesca.
Tedeschi erano i detenuti che doveva sorvegliare durante il servizio militare nel carcere di Gaeta; criminali nazisti, in realtà, che la cella umida con l’inferriata sul mare nobilitava a prigionieri di guerra.

La Fortezza di Gaeta

Lunghi mesi a osservare dita delicate muovere le pedine nelle interminabili partite a dama. La tattica, il rispetto dell’avversario. Che si ritrovava ad esser lui, la guardia carceraria, il ragazzo che non aveva mai visto mondo se non al cinema di fronte a casa, dove fin da bambino - permesso o meno – entrava ad ogni costo, anche di straforo fra i cappotti pieni di pioggia degli adulti. Al cinema sarebbe rimasto fedele sempre. Pure adesso, ai titoli di coda. Innamorato della regia di quel suo coetaneo già ispettore, evaso, anticamente cavaliere pallido.
Pur con la pellicola che s’inceppava, quel cinema scalcinato, da niente, faceva diventare piccole le punizioni terribili di casa.
Cinghiate. Digiuno. Sottoscala.
Cominciò a notare la benevolenza del prigioniero di guerra, ad apprezzarne la conversazione filosofica. Sbarre e isolamento fecero il resto. Aveva vent’anni e le Fosse Ardeatine potevano essere state davvero un ordine indiscutibile dei superiori. I mostri veri parlavano in un altro modo: cinghiate, sottoscala buio, digiuno, interruzione degli studi, dodici ore nei campi come se non fosse il figlio del padrone.
E lui per professione avrebbe voluto volare. Assolutamente no? Solo terra rossa per lui? Se non in cielo, nella cabina di pilotaggio, nemmeno con i piedi in quella terra. Addio, avrebbero sentito parlare di lui.
Mai lagnarsi del proprio passato, parlare di cose vecchie. Mai allentare la disciplina del lavoro, guardare avanti, non porre limiti. Specie se il passato non passa mai.

Dove metteranno la bicicletta, chi di loro toccherà il manubrio, i freni, la sella?
Escono ora, liberando la stanza dai ricordi taciuti e dall’imbrunire.
I gesti, il passo, le pause: si vede a un miglio che sono sorelle, mentre sfilano per raggiungere una pizzeria da marciapiede, estranea. Ciò che ora tutte e tre sanno fonde il nocciola con l’azzurro e il blu, in un colore indefinibile, uguale.
Anche il cameriere vedrà che sono sorelle.
In un soffio questo millennio raggiungerà la prima decina - il pensiero di una, il pensiero di tutte - chissà se avranno finito il loro angoscioso conto alla rovescia. Sperano di no. Di essere al completo per mangiare il panettone, come dicono a Milano. Temono di no.
Una delle cartacce sul marciapiede svolazza con l’impronta di una scarpa da tennis, come un timbro. E’ quasi buio, neanche una bici.
Milano mostra la sciatteria di chi si annoia in casa tutto il giorno.
Lontanissima da lì la via Gluck.

Agosto a Milano


6 commenti:

Roby ha detto...

Il trio di sorelle di cui faccio parte non somiglia nè a quelle del primo ritratto, nè a quelle del secondo, e neppure alle tre del racconto. Del resto, ogni gruppo familiare è un unicum, nella sua ripetitività... Belle le immagini e bella l'atmosfera: sorelle diverse, ma unite, e l'importante è questo.

Roby

Silvia ha detto...

Come ho letto da Haba che eri qui, sono corsa a leggere. Mi piace tanto questo spaccato di vita, perchè c'è tanto amore dentro e totale appartenenza. Bello e speciale per me che sono figlia unica e avrei desiderato tanto una sorella o un fratello per affrontare insieme il mondo.
Un abbraccio Sandra. A tutte e tre.

p.s. Haba le immagini sono struggenti e allegre al tempo stesso. Portano dentro profumi e voci. Come sempre, scelta impeccabile.

CARLO ha detto...

Mi è piaciuto tantissimo questo narrare.... Una dolce malinconia che dipinge in modo soffice e lieve la parabola umana dell'uomo e del padre che davvero mi ha coinvolto !

Carlo

Habanera ha detto...

Grazie, Sandra, per aver condiviso con noi questo scritto (bellissimo!) che per te ha un significato speciale.
L'ho accolto dalle tue mani come un dono prezioso e lo custodirò con amore.
Un abbraccio

Roby, un abbraccio anche a te, mia carissima, e... bentornata!

Silvia, anche tu figlia unica? Per me è stato un gran dispiacere, la sensazione che mi sia mancato qualcosa...

Carlo, il modo di narrare di Sandra è così, come tu lo hai descritto.
Coinvolgente, ecco la parola!

Un caro saluto a tutti
H.

Emilia ha detto...

Davvero molto bello. L'ho letto con grande piacere. Belle come sempre le immagini.

Giulia

Unknown ha detto...

Racconto delizioso, ambientato magnificamente in atmosfere rese alla perfezione (la Milano d'agosto è proprio come qui è stata descritta).
La narrazione, a tratti struggente, si sviluppa con belle volute liriche che aprono il cuore.
Complimenti a chi l'ha scritto e a chi ha saputo abbinarvi le suggestive illustrazioni!
Fabiano Braccini