domenica 14 giugno 2009

Tra un minuto nevica

Gustav Klimt: Donna anziana, 1909


Tra un minuto nevica

di Sandra Mastore
(ginni)



Freddo e fretta mettono le ali ai piedi, per raggiungere il parcheggio basta solo attraversare la piazza tra impavide biciclette, baveri allerta, frasi attutite. La carrozzina che si avvicina è spinta da una delle solite, trasognate badanti che, squittendo imperterrita al cellulare, non bada alla coperta scivolata (da quanto?) ai piedi della vecchietta. Basta voltarsi per evitare sofferenze che potrebbero durare lo spazio di un passo. Non è difficile.
A meno che… qualcosa del vecchio passerotto intirizzito ce lo ricordi quando non era tale e il suo sguardo aveva tutta la forza del mondo. E potere, sulle nostre piccole vite.

Quando iniziai la prima elementare la mia maestra aveva quarantasette anni. Piccola oltre misura, magra, sempre in ordine, rossetto e cipria. Ogni mattina infilava il grembiule nero, lucido, dopo averlo tolto dall’armadio a muro dell’aula che poi richiudeva piano e ne custodiva la chiave nella tasca del grembiule. Saluti, preghiera, consegna ordinata dei quaderni dei compiti ricoperti di carta da pacco blu. Seguivano attimi di trepidazione: tra poco avremmo conosciuto la sorte della giornata dal suo scandire TE-MA o, ahimè, PRO-BLE-MA. Fitta dolorosa, prima avvisaglia di un colon per sempre irritabile.
Sapeva seminare il terrore questa minuta, implacabile donna. A volte il disprezzo, il dileggio andavano ben oltre l’offesa, a minare la promessa di un’integrità futura.
- Piange?! Riderà quando si sposa…
Ma sapeva anche insegnare, trasmettere, accendere l’interesse e lavorava con scrupolo. Si prodigava in correzioni efficaci e generose, come generose erano le sue spiegazioni. Riconosceva l’originalità, anche solo sintattica, e in quel caso non la piegava a suo piacimento. Che apprezzasse il mio modo di scrivere fu la mia salvezza, per il resto non ero una scolara brillante. La sola idea che i suoi pungenti occhi scorressero le righe del mio quaderno mi paralizzava, o che la parola “negligente” potesse raggiungermi come un marchio infuocato.
Nel corso del quinquennio qualcuna delle alunne più sensibili fu tenuta a casa dai genitori per guadagnare la bocciatura automatica, la fine del supplizio.

Giudicava le espressioni dialettali, la stiratura del grembiule, la grafia, il pennino, la pettinatura. A voce alta, senza pietà per i nostri genitori.
Poteva usare le mani, non era proibito nei primi anni Sessanta, ma era rarissimo che vi ricorresse.
All’intervallo la bidella Speranza le serviva il caffè su un vassoio che ci sembrava d’argento, molto spesso lei chiedeva anche un “cachet” per l’emicrania.
Le spiegazioni d’Italiano o Storia, già momenti piacevoli, potevano trasformarsi in quarti d’ora godibilissimi, specie quando le arricchiva di aneddoti o di punteggiature personali. Era capace di fissare nella nostra giovane memoria date, eventi. Ho vissuto un bel po’ di rendita alle medie. Il pomeriggio (si andava anche al pomeriggio, il giovedì a casa) era spesso riservato alla “letteratura” più poesia che prosa. Metteva in atto una sapiente strategia per creare l’aspettativa, anticipando indizi sull’argomento o sull’autore. Poi la sua lettura - o meglio: declamazione - percorrendo l’aula a poderosi e sonori passi (insospettabili per quelle gambette). Seguiva un silenzio perfetto in attesa del titolo che ci elargiva come un prezioso regalo dopo essere risalita sulla predella, esausta e vittoriosa. In tono pacato, confidenziale, ora, commento e biografia dell’autore. Finalmente seduta in cattedra: dettatura e indicazioni per l’illustrazione individuale.
Aveva recitato da giovane, si capiva da come calcava la scena per noi, spettatrici dapprima obbligate, poi coinvolte e catturate. Ci aveva raccontato di aver fatto parte di una compagnia teatrale, ma senza soffermarsi: forse un’attività da considerarsi ora disdicevole. Aveva frequentato anche l’università, lettere, ma al terzo anno aveva incontrato suo marito. Fine del sogno di gloria.
-Dovessi venire a sapere, domani, che avete interrotto gli studi perché vi siete innamorate, proverò un gran dispiacere. Ricordatevelo!
Pascoli era il suo preferito, ma ci propinava anche Fucini a dosi non proprio omeopatiche.
Intanto gli anni Sessanta erano diventati quasi Settanta, e, mentre ci massacrava con la geometria solida, cominciavamo a capire che l’imparzialità proprio il suo forte non era. C’era un terzetto di bambine con gli occhi immacolati che potevano non imbroccare il problema all’istante e ricevere una discreta - ma incoraggiante - imbeccata. Figlie della borghesia professionale che la poteva favorire in certi casi. E lei, noi non lo sapevamo, ne aveva estremo bisogno.
Arrivata da Milano dov’era nata - sebbene la particella “De”del suo cognome da nubile tradisse altre origini - sfollata durante la guerra qui, in provincia, in questo paese non ancora città.
Già moglie, madre e maestra. Un marito artista senza fortuna, l’unico stipendio sempre e solo il suo. Da una casa popolare in affitto all’altra, figli che crescevano sempre più sbagliati. Le colleghe la stimavano al punto di chiederle quaderni di anni e turni precedenti per copiare il suo inappuntabile lavoro, ma in sua assenza la commiseravano.
L’elasticità nelle scadenze dell’affitto poteva passare anche attraverso un voto non proprio meritato da un’alunna del terzetto.
Una vita grama, tutto il male del mondo. Da non crederci la concentrazione di disgrazie.

Ma in quegli anni ancora lottava, rigida e austera come un cavaliere medievale, tra le pareti della nostra scuola, imponente edificio di un razionalismo evocativo: fu infatti inaugurata nel 1934 dal duce in persona, in omaggio alla sua maestra, originaria di questa cittadina.
Molti anni dopo mi è capitato di entrare nella mia vecchia “V femm. A”: vivacità alle pareti, nuovi serramenti, sparito l’armadio a muro dove la mia maestra depositava per parecchie ore al giorno i panni dell’infelicità e della sconfitta e li chiudeva a chiave. E forse riusciva anche a dimenticarli.
In quarta elementare era arrivata una bambina nuova. Direttamente da Palermo, in pieno inverno. Chissà, forse l’assenza di cappotto, l’aria spaesata l’avevano intenerita e ce l’aveva presentata decantando la sua città e la Conca d’oro, asserendo che il dialetto siciliano era uno dei più belli d’Italia.
-Pensate che i ragazzi in Sicilia sono chiamati picciotti, è un modo bellissimo di indicarli oltre che comprensibile. Una volta alla stazione centrale una signora chiedeva dove fossero i “bagai” e tutti guardavano pacchi e valige. Se avesse cercato i picciotti nessuno avrebbe frainteso.
La bambina aveva ripreso colore dopo questo siparietto e, il buongiorno si vede dal mattino a volte, nel tempo aveva dimostrato di poter far fronte alle sue altissime richieste.

Ecco i primi fiocchi, inusuali come questi ricordi.
In prima elementare ci portarono al circo, il giorno prima delle vacanze di Natale.
Faceva freddo anche sotto il tendone e non ci fecero togliere i cappotti. L’odore era proprio sgradevole, ma lo spettacolo fu divertente e io ero vicino a colei che sarebbe diventata l’amica del cuore di quegli anni. Al rientro avevamo ancora negli occhi tutti quei colori e ottenuto il permesso – rarità - di farne un disegno. Ci sembrava di essere rientrate nel posto più caldo del mondo e fuori c’era un cielo di uno strano colore.

Prima dell’uscita sarebbe nevicato.


Pubblicato anche su Carta scritta

9 commenti:

annarita ha detto...

Racconto struggente. Mi ha ricondotta con la memoria sui banchi della scuola elementare. Siciliana era invece la mia bella e brava maestra, una donna bruna, alta e prosperosa, che ha lasciato un caldo e indelbile ricordo nel mio cuore. Mi incoraggiava a scrivere e devo anche alle sue letture ad alta voce l'amore per i libri, ne sono convinta, anche se in me la brama della lettura è nata presto. Complimenti per le immagini poetiche. Salutissimi, Annarita

Solimano ha detto...

Ci sono quattro aspetti, che nel racconto ho sentito particolarmente.
Il primo è la matematica. Non è che amassi la matematica, però la capivo e andavo avanti tranquillo, sul 7. Però, in tutte le classi in cui sono stato ho sempre trovato diversi compagni e compagne di classe letteralmente terrorizzati da aritmetica, geometria e poi matematica. Un grosso guaio, perché l'Italia è un paese di odiatori della matematica, e le conseguenze negative si vedono in tanti campi, compresa la letteratura.
Il secondo è la mafietta delle prime della classe. In genere di famiglie borghesi, mafietta stupidamente aiutata da certi professori (non tutti, per fortuna). La competitività fra le femmine era più cattiva, nella sostanza, di quella fra i maschi.
Il terzo è la sofferenza. Perché a scuola si soffriva molto. Ho avuto un professore che prima di consegnare le versioni corrette, diceva quanti avevano la sufficienza, quanti a mezza via e quanti insufficienti. E li distribuiva ordinati dal voto più alto al voto più basso.
Il quarto era il vissuto dei singoli insegnanti. Ce ne siamo accorti anni dopo, ma quasi tutti -e tutte- avevano dei problemi che in qualche modo si portavano in aula.
Però delle elementari ricordo poco, i miei ricordi si focalizzano soprattutto sul ginnasio e il liceo, lì cominciò il grande gioco, senza che me ne rendessi conto: grande gioco inteso come vera formazione della personalità e delle priorità culturali. Poi ho fatto ingegneria, ma soprattutto come sfida a me stesso, e sono contento di aver scelto così.

benvenuta Ginni, grazie e saludos
Solimano

Habanera ha detto...

Le elementari per me sono state travagliatissime.
Le prime tre classi in una scuola francese con un maestro severo, antipatico e bacchettante.
Nel senso che usava la bacchetta sulle mani degli scolari ad ogni minima mancanza. Ne ero così terrorizzata che piangevo quasi ogni giorno nel tragitto da casa a scuola.
La quarta e la quinta invece sono andate meglio: scuola italiana e maestra esigente che però, all'occorrenza, sapeva anche essere dolce e comprensiva. Ho sempre letto molto, con passione, e in italiano prendevo buoni voti, ma le materie scientifiche...
quasi una tragedia.

Solimano, non è che io odiassi l'aritmetica e la geometria, erano loro ad odiare me e mi facevano tutti i dispetti possibili. Solo negli ultimi anni del liceo (ovviamente classico) siamo riuscite ad andare un po' d'accordo io e la Signora Matematica.

Annina, sei stata fortunata ad avere una maestra così, anche se la mia impressine è che tu avresti amato i libri e le buone letture in ogni caso.

Cara ginni, che forza evocativa in questo tuo racconto. E che stile!
Asciutto ed intenso, sottile e coinvolgente.
Complimenti e benvenuta sul Nonblog.

Un caro abbraccio a tutti
H.

Silvia ha detto...

L'ho vista qui davanti a me. E già la conoscevo questa bravissima maestra:)
Questa signora rigorosa ed elengante.
Come il tuo scritto.

Se dici un'altra volta che non scrivi bene ti strozzo:)
Ciao cara.

Habanera ha detto...

Silvia, davvero ginni dice così? che non scrive bene?
Se lo ripete ancora avvertimi che ti aiuto a strozzarla. Anche tu però non ci scherzi in quanto a scrittura, cara la mia sgnapetta.

Un bacione
H.

zena ha detto...

Mi è piaciuto molto questo racconto e dice della complessa delicatezza dei mondi bambini: gli adulti sembrano immensi in ogni dimensione e direzione, perchè l'essere piccoli ne amplifica la percezione.

La mia maestra mi pareva la perfezione: sapeva le parole, i numeri e il come e il quando di ogni cosa.

La mia fiducia andò in crisi in due precisi momenti:
- quando vidi il buco nel suo golf blu di cotone, ancora presente a un anno di distanza dal primo avvistamento, sotto l'ascella destra, durante gli esercizi di ginnastica vicino al banco;
- quandol'intera classe si prese una sgridata perchè, per pasqua, le si donò un'oca di cioccolato circondata da ochini analoghi, su un piatto di portata color pavone. La maestra disse che non si regalano delle oche alle insegnanti, ma cose più fini.
L'oca l'aveva scelta la Cicci, che era miazia, la miazia arbitra elegantiarum, per di più cittadina.
Fu un conflitto fra giganti: prevalse l'affetto nipotesco:)

zena

sabrinamanca ha detto...

Questo racconto mi ha scombussolato, ha riportato alla luce ricordi più o meno dolenti, o quanto meno emozioni violente.
Un'insegnante così l'ho avuta al ginnasio. Le sue contraddizioni cominciavo a vederle anche se è sempre difficile accettare che l'altro, colui che ammiriamo non sia tutto intero, tutto buono, perfetto, insomma. Gli insegnanti hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia vita, sono pezzi di me. Nel bene e nel male.

Anche io ho avuto una maestra siciliana, femminista sfegatata, grande insegnante.

un saluto, Ginni!

ginni ha detto...

Mi sono sentita accolta vividamente.
Grazie di cuore.

Annarita, di questo blog ho sempre ammirato la scelta felice e raffinata delle immagini. Mai avrei pensato all'eventualità che fossero usate per impreziosire le mie parole.

Solimano, una lettura tematica, la tua, che mi onora e imbarazza.
Di più: mi svela quanto non sapevo d'aver detto. Purtroppo per me il problema è sempre stato un problema... mi spiace che lo sia anche per le mie figlie.

Habanera e Silvia, le vostre parole generose precedono l'intenzione di diventare complici... :-)

Zena, sì. Pensavo proprio al momento in cui la consapevolezza comincia a premere sulla fiducia incondizionata dei bambini. Grazie.

Sabrina, i ricordi spesso sono un gioco di specchi. Grazie per il tuo.

Buona estate!
ginni

giulia ha detto...

Davvero ci sono insegnanti che non si possono dimenticare. Tu ne hai fatto un ritratto bellissimo e vivo. Concordo con quanto dice Solimano per quanto riguarda la scuola che ho frequentato. Che i ragazzi debbano faticare e anche tanto concordo, che debbano imparare il rispetto per gli insegnanti, ma anche e soprattutto per i compagni mi ritrovo pienamente, che debbano avere regole condivise anche. Ma ho toccato con mano in molti insegnanti questo gusto di una sofferenza gratuita.
L'incontro con la cultura è bellissimo e dovremmo farlo passare. I ragazzi non sono così refrattari come si dice, siamo noi adulti che non ci appassioniamo più molto o che non troviamo le strade per arrivare a loro.


Grazie per questo bellissimo post e scusa se sono arrivata in ritardo, ma problemi mi hanno tenupo un po' lontano dal computer.

Habanera come sempre le tue illustrazioni sanno dare valore alle parole. Grazie per questo tuo bellissimo impegno.

Grazie