martedì 14 aprile 2009

La leggenda del santo bevitore




La leggenda del santo bevitore

di Giulia



Tutti i giorni incontro un uomo. Ha la barba bianca lunga e piena di nodi come i capelli. Vive ai lati di un grande Hotel, sistemato nell’angolo un po’ per dare meno nell’occhio, un po’ per ripararsi dal freddo.
Quell’angolo è la sua casa. Un cartone come materasso, una coperta piena di buchi, tanti sacchetti come guardaroba e una scopa. Sì, una scopa a farci intendere forse che quella è davvero la sua stanza e la sporcizia deve essere spazzata. Infatti, tutti i giorni alla stessa ora, più o meno verso le sei di sera lo vedi che pulisce meticolosamente il suo angolino.

Al mattino, invece, lo vedo davanti ad un supermarket che aspetta l’apertura. Cammina di qua e di là, un po’ nervoso come avesse fretta, i pantaloni molto corti, e due gambette di bambino data l’estrema magrezza. Aspetto anch’io e lui non mi guarda, non mi chiede nulla.
Le sue richieste le fa solo davanti alla sua “casa” dove ha collocato una scatola per raccogliere quello che “il buon cuore” della gente vorrà dargli. Sopra compare la scritta “per mangiare”. Qualcuno lascia la sua monetina ed ogni mattina con quello che ha racimolato va a fare la sua spesa.
A volte lo vedo rovistare nei bidoni della spazzatura e nel primo pomeriggio girare tra i rifiuti lasciati dalle bancarelle del mercato.
Poco più lontano da lui, ce n’è un altro: la barba più corta, sicuramente un po’ più giovane. Ha un cane e due ciotole con acqua e mangiare per lui non mancano mai. Qualcuno passa e dice scuotendo la testa: non ha soldi e vuole mantenersi un cane, povera bestia…


Tutti siamo bravi a giudicare e, se dobbiamo elargire maldicenze, lo siamo ancora di più. Ma il cane si stiracchia davanti a lui e non sembra per nulla turbato nell’avere per amico un “barbone”.
Tra di loro i due barboni si parlano poco, solo qualche volta si scambiano una sigaretta come moneta preziosa, si lasciano vivere.

L'uomo che incontro ogni giorno mi ha ricordato Andreas, il protagonista del libro di Joseph Roth, “La leggenda del santo bevitore”. Andreas, il protagonista, forse è un santo senza saperlo. Vittima di un destino che lo ha portato a vivere miseramente in strada. Eppure è un uomo ancora dignitoso, onesto, quindi fiducioso nei miracoli e nel loro ingiustificato ripetersi, felice quando ha dei soldi che, ogni volta, dissipa come farebbe un bambino. Joseph Roth scrive nel 1939, poco prima della sua morte avvenuta nello stesso anno, questo bellissimo, breve racconto La leggenda del santo bevitore in parte autobiografico. Un piccolo libretto delicato, commovente e profondo.

Anche il barbone che incontro è un uomo ai margini, forse anche lui alcolizzato, ma stranamente e magicamente sembra attaccato alla vita e ai suoi riti quotidiani. Cammina tra gli altri, dorme vicino ad un grande Hotel, vive, nonostante l’indifferenza di chi lo guarda, lo giudica e lo giudica male.


Ma è un uomo, un uomo a tutti gli effetti, dignitoso, solo, terribilmente solo, ma di quella solitudine che non cerca né pietà né commiserazione. Dietro di lui una delle tante storie che nessuno è interessato a conoscere. Eppure si intuisce che non sempre la sua vita è stata così...

Nella prima pagina del libro di Roth c’è un disegno che ritrae Joseph Roth appoggiato al bancone, accanto a bottiglia e bicchiere. È stato realizzato da Mies Blomsma ed è datato Parigi novembre 1938. Riporta un significativo appunto dello scrittore: “Ecco quel che sono veramente: cattivo, sbronzo, ma in gamba”.



12 commenti:

giulia ha detto...

Cara Habanera, davvero il lavoro che fai con le immagini rende tutto più bello e vero ed è una bella sorpresa quando si viene qui e si trova qualcosa che hai scritto impreziosito così. E' bella e significativa la cura che ci metti per gli "altri", è un segno molto bello che va oltre quell'individualismo che domina i nostri tempi. Grazie come sempre dunque. Io apprezzo sempre più questo lavorare "insieme" che si avvicina di più al mio modo di essere.
La prima immagine che hai postato assomiglia in modo incredibile al personaggio di cui parlo. Come hai fatto a immaginarlo così bene?
Un abbraccio,
Giulia

Roby ha detto...

Carissima Giulia, il barbone barbuto di cui parli all'inizio (e che Habanera ha "illustrato" con la solita maestria) somiglia a quello che anni fa vedevo dormire sotto il portico della chiesa di San Jacopo Soprarno, non lontano dal ponte Vecchio. Poi quel portico è stato chiuso da una cancellata... e chissà il povero senzatetto dove sarà finito...

Baciottoni

Roby

Silvia ha detto...

Bellissimo libro. Di J. Roth lessi quasi tutto molti anni fa perchè andava di "moda". Per fortuna perchè scoprii così un grande scrittore.

Le mie sensazioni di fronte ai barboni sono sempre molto precise e sempre uguali. Li accomuno agli sciamani, ai vecchi saggi indiani, a coloro che posseggono, nel nulla, lo scibile umano. Ma quello non scritto, quello che non si dice, che non si racconta perchè farebbe orrore e male. E loro se lo portano appresso questo orrore, ogni giorno, mescolato ad un distacco a volte turbolento a volte pacato ma sempre dignitoso capace di dare forma ad un territorio così circoscritto col corpo tuttavia così universalmente riconoscibile che è la soliturdine. Distacco da una società che spesso di loro si dimentica e crede così di non poter fare i conti con l'ipocrisia. E i conti così non tornano mai.


Ciao belle donne:)

Habanera ha detto...

Giulia cara, lavorare sulle immagini mi piace e mi diverte anche se il risultato non sempre corrisponde a quello che vorrei. Quando leggo qualcosa la mia mente la vede trasformata in immagini (come credo capiti a tutti) ma non sempre trovo l'esatta corrispondenza, devo accontentarmi di quello che si avvicina di più.
Così il tuo barbone ha preso vita nella mia mente e l'immagine che ho messo in apertura del post corrisponde abbastanza alla mia idea.
Se, come dici, corrisponde anche alla tua realtà, significa che lo hai decritto così bene da non lasciarmi dubbi, sei stata tu a guidare la mia mano.
Hai ragione, è bello lavorare insieme, piace molto anche a me.

Ti abbraccio
H.

Habanera ha detto...

Roby, Silvia, non tutti i barboni si assomigliano. Per alcuni è una precisa scelta di vita, per altri una dura necessità di cui farebbero volentieri a meno.
Il mio barbone, quello che vive nella zona Navigli dove abito, è ancora abbastanza giovane ed apparentemente in buona salute. Un tipo strambo, perennemente ubriaco, che parla da solo a voce alta gesticolando minacciosamente.
All'inizio ne avevo quasi paura ma un giorno la mia nipotina (che mi capisce anche se non parlo) mi ha detto: "Nonna, non devi aver paura. Fa così solo perchè è ubriaco ma non è cattivo." Poi gli ha fatto un bel sorriso e gli ha detto "ciao!" salutandolo con la manina.
Aveva ragione lei naturalmente e quando anche lui ha sorriso, con aria mite da cane bastonato, mi sono sentita veramente stupida ad avere avuto paura di lui.
Quanto abbiamo sempre da imparare...

Baci
H.

giulia ha detto...

Cara Roby, può essere che il tuo barbone si sia trasferito a Torino?
Oppure è la barba che ce li fa assomigliare?
Joseph Roth, cara Silvia, piace molto anche a me. Non ho perso un suo libro... Come è vero quello che dici! Davvero in loro, non tutti, ma in quello che ho descritto sicuramente c'è qualcosa che ha del mistero. Come dici tu "posseggono, nel nulla, lo scibile umano. Ma quello non scritto, quello che non si dice, che non si racconta perchè farebbe orrore e male". Ciò che ha fatto di loro uomini che vivono quasi nell'ombra, ma la loro presenza comunque è forte. Ci rivelano cos'è la nostra società, che dimentica chi non rientra negli schemi o per un motivo o per un altro.
Cara Habanera, la tua nipotina aveva davvero ragione. Spaventano, ma in realtà loro sono assolutamente innocui, se no non sarebbero lì. Ora questo signore ogni volta che mi vede abbozza un cenno di saluto.
Un abbraccio a tutte
Giulia

Silvia ha detto...

Un giorno, anni fa, ero nel parco vicino a casa.
Sulla panchina era sdraiato un barbone che dormiva della grossa. Io ero in compagnia di un amico e avevo appena fatto la spesa.
La cosa istintiva fu quella di andargli vicino e appoggiargli un panino al prosciutto e una birra per quando si sarebbe svegliato.
Venni fermata di colpo per un braccio, quasi spaventata. Non farlo! mi disse l'amico. "Se è ubriaco e si spaventa può anche riempirti di botte! Vieni via!"

Questa cosa mi fece molto male.
Io non avevo contemplato questa cosa e mi spaventai a mia volta.

Capii con questo piccolo episodio quanto può essere grande il divario tra chi è come loro e chi non lo è. Anche in questo caso, la fiducia è stata schiacciata dalla paura.
Loro vivono delle paure degli altri ogni secondo della giornata.
Secondo me, queste persone valicano un confine non più ripercorribile a ritroso. Chi vive la strada, più di ogni altra esperienza umana, vive tutto il peggio che si possa vivere, perchè non è solamente una lotta di sopravvivenza e con se stessi, ma una lotta contro il mondo, gli umani e le cose.
Dentro alle loro sporte di plastica, spesso si portano appresso la mia voglia di capire.
Buona notte:)*

Solimano ha detto...

I barboni ci sono sempre stati. Per me non vanno confusi con gli yogin o con gli sciamani, anche se esprimono la stessa esigenza, quella che Elemire Zolla ha descritto in un librone intitolato Uscite dal mondo.
Perché, nel cosiddetto mondo, è bene essere al tempo stesso dentro e fuori. Essere esploratori del non conosciuto, che esiste, come esiste il conosciuto.
I barboni, a modo loro, esprimono senza saperlo questa necessità e questa esigenza. La loro non è una uscita, ma una fuga autistica.
Perché ci turbano, per il fatto stesso di esserci? Perché generalmente siamo poco esploratori (certe nostre utopie sono furbe esplorazioni di ovatta). A parole dichiariamo di esserlo, nei fatti siamo abitudinari come idee e comportamenti.
E' come per il satori zen: c'è quel punto in cui o sei illuminato o semplicemente ti addormenti. Fra queste due cose sembra ci sia una differenza da niente, ma in mezzo sta un burrone profondissimo. Però faccio fatica ad esprimermi, perché l'illuminazione più ne parli meno c'è. Difatti un libro che ebbe un ottimo successo aveva un titolo strano: "Se incontri il Buddha per la strada uccidilo!" L'indicibilità di certe esperienze significa che le si sono provate, o si è rischiato di provarle...

grazie Giulia e saludos
Solimano

Silia ha detto...

Concordo Solimano. Per questo istintivamente li associo ad una "saggezza" data dal loro vivere fuori. Anche se questo significa estraniazione anche dalla possibilità di comprendere proprio per lo stesso motivo. Però mi pare di capire che la seconda vita, quella alla deriva, spazzi via completamente quella che è stata la vita convenzionale precedente e azzeri il ricordo di loro in quel contesto.
Per cui, dentro al loro subire doloroso, forse posso azzardare il pensiero di una "libertà" che a noi osservatori convenzionali e ignoranti non ci è dato di comprendere e che mai comprenderemo.
Una forma anomala e crudele di sguardo laterale, di voce fuori dal coro che sono certa porta ad assimilare il mondo attraverso sapori e odori completamente ribaltati ed estranei.
Non credo di essermi espressa a dovere.
Confido nel vostro acume:)

giulia ha detto...

Silvia, è molto vero quello che dici: alcuni di loro sono fra l'altro molto consapevoli della paura che fanno, per questo difficilmente si avvicinano a qualcuno. Il loro cammino non ha ritorno, è vero. Io per un po' di tempo ho frequentato un posto che aiutava i barboni... Purtroppo la figura "un po' idealizzata" del barbone che sceglie di esserlo è smentita ampiamente dalla realtà. Molti, mi dicevano, finivano in strada perchè la vita li aveva colpiti duramente e sempre più ci sono giovani drogati o ex drogati.
Ma comunque, una volta sulla strada per loro volontà o meno, cambiano dal di dentro e la loro vita non ha più nessun legame con quella precedente. Ricordo uno che si faceva chiamare "Gesù", era un uomo coltissimo, ma completamente fuori dalla realtà. Parlare con lui, però, era ugualmente piacevole. In questo luogo "neutro" che non era la loro casa nè la strada, alcuni accettavano di parlarti. Ma sulla strada no.
E' un mondo, un altro mondo tanto lontano da quello che abitiamo noi comunemente. Ho imparato molto come si impara sempre quando si viene in contatto con realtà ai "margini".
Grazie a tutti e saluti cari
Giulia

Solimano ha detto...

Faccio un esempio per vedere se riesco ad esprimere quello che ho chiamato burrone profondissimo.
Quando mi appassionai allo zen, nei primi tempi mi andava bene tutto, tanto ero impressionato dalla capacità dello zen di farsi arte, come succede solo ai miti fecondi.
Pian piano mi accorsi di com'era la grande maggioranza di che si aggirava attorno allo zen qui in Occidente. Erano degli utopisti sfigati che non sapevano che fare della propria vita, sostanzialmente degli autolesionisti cocciuti in balìa ad un cupio dissolvi sistematico. Mentre storicamente gli adepti dello zen erano spesso i samurai, la casta guerriera.
Il motivo non era religioso (ammesso che lo zen possa definirsi religioso, visto che non c'è un dio persona), ma pratico, perché lo zen esorcizza la paura della morte e sviluppa la piena concentrazione nel momento presente, proprio perché il buddismo cresce sull'impermanenza.
Questi aspetti erano fondamentali per i guerrieri, come si vede benissimo in Kyuzo, samurai zen nel film I sette samurai.
Mentre i nostri autolesionisti cercano l'impermanenza di per sé, quindi la loro è una fuga, non un aderire alla realtà momento per momento. Per capire questo aspetto basta riflettere sulla nostra esperienza con la musica che amiamo. La sentiamo nota per nota, momento per momento, senza pensare a quello che è stato suonato un momento prima o che sarà suonato un momento dopo. L'adesione è piena, in un certo senso piena di vuoto. Cosa ben diversa dagli utopici, che cercano il rifiuto, quindi, per ciò stesso, non sono in grado di essere veramente vuoti. Bisogna andare oltre il sì e oltre il no. L'affermazione e la negazione si equivalgono. Grande differenza con la cultura occidentale, che dice: "Ama il prossimo tuo". Gli indiani, ben prima di Buddha dicevano tat twam asi, quello sei tu. Quello non è il tuo prossimo, quello sei tu. Una concezione dell'universo molto vicina a quella della fisica del Novecento...

saludos
Solimano

Silvia ha detto...

Immagino Giulia che deve essere stata un'esperienza abbastanza sconcertante e sconvolgente quella che hai fatto. Credo soprattutto arricchente.
Quanto è sbagliato "idealizzare" queste povere persone! Basterebbe guardarli negli occhi attentamente per cinque secondi che passerebbero tutte le poesie piccolo borghesi di cui ci piace tanto nutrirci!
Buon pomeriggio