giovedì 29 maggio 2008

Una stanza tutta per sé


Edward Hopper: Hotel Room, 1931


Una stanza tutta per sé

di Giulia



Per secoli il percorso esistenziale della donna era stabilito senza che le fosse data la possibilità di una scelta: da figlia a moglie, da moglie a madre, attraverso un itinerario istituzionalizzato, segnato da regole e mansioni prestabilite che la tenevano occupata per l'intero giorno.

Era isolata dal contesto sociale esterno alla casa, ma mai padrona della sua solitudine. La donna che viveva da sola era invece considerata un'esistenza mancata. Una zitella, cioè una donna che non era riuscita nel suo compito primario, quello di moglie e di madre.

La cultura dominante si chiedeva beffardamente quali altri desideri di autorealizzazione potesse coltivare segretamente una donna: non erano già più che sufficienti le responsabilità della conduzione domestica e l'amore per il marito e i figli? Così, scrittrici come George Eliot e George Sand , furono costrette a nascondere la loro identità sotto questi pseudonimi maschili, per ottenere l'attenzione e il consenso che era precluso alle donne.

Eugène Delacroix: Portrait of George Sand, 1838

La convinzione diffusa era che la donna non fosse capace di creare, se non il prodotto naturale del suo grembo, che anzi vi fosse qualcosa di sconveniente nel desiderio femminile di coltivare le passioni intellettuali.

Nella nostra civiltà ebraico-cristiana, dunque in una tradizione rigidamente patriarcale, l'immagine della donna non ha trovato una rappresentazione adeguata..

Virginia Woolf, nei due famosi saggi riuniti nell'opera Una stanza tutta per sé (1928), ci guida in un viaggio che attraversa i secoli dal Cinquecento al Novecento sulle tracce della storia della emancipazione della donna-scrittrice dagli ostacoli, interni ed esterni, che le impedivano di aderire pienamente alla sua vocazione. Emergono dei ritratti di donne di un'intensità dolorosa, storie di amarezze subite e di autolimitazioni imposte, che danno la misura della fatica che comporta l'affrancarsi dalla norma e dal giudizio collettivo.

Le sorelle Virginia (Woolf) e Vanessa (Bell) Stephen

È evidente che la repressione delle attività letterarie della donna è emblematica: scrivere è riflettere, è distogliersi da quelle occupazioni che la mantengono una creatura destinata (siamo nell'aristocrazia) ai giochi d'amore e al governo della casa.

Le poetesse del Cinquecento e Seicento, dunque, restavano rinchiuse nei loro parchi, fra i loro libri “che scrivevano senza pubblico e senza critica, per il proprio diletto soltanto”.

Una svolta notevole si ha agli inizi del Settecento, a opera di donne della classe media: un piccolo esercito di scrittrici che riuscirono a trasformare la loro opera disinteressata in un lavoro remunerato e che tradussero o scrissero mediocri romanzi di cui oggi non esiste più memoria. Va detto che molte di loro traducevano anche i grandi classici, Shakespeare per esempio e, attraverso la loro attività, dimostravano al mondo, alle altre donne e soprattutto all'altro sesso, che una donna era perfettamente in grado di guadagnarsi da vivere scrivendo.
“Un mutamento, scrive la Woolf, il quale, se io dovessi riscrivere la storia, mi sembrerebbe più importante che le Crociate o la Guerra delle due rose”.

Le scrittrici dell'Ottocento, dunque, poterono incamminarsi sul terreno già spianato dalle loro precedenti compagne di ventura, ma non era stato risolto un problema: il diritto alla solitudine.

Virginia Woolf ci accompagna nello spazio privato di alcune scrittrici, tra cui Jane Austen, George Eliot, Emily e Charlotte Brontë. Tutte e quattro appartenenti alla classe media, tutte senza figli e tutte, rileva acutamente la Woolf, senza “una stanza tutta per sé” “Se una donna scriveva, doveva scrivere nel soggiorno comune”. E in quella stanza esse vengono continuamente interrotte.

Emblematica la situazione di Jane Austen, l’autrice di Orgoglio e pregiudizio: ella per tutta la vita scrisse nel soggiorno, nascondendo i suoi manoscritti o coprendoli con un foglio di carta assorbente, ogni qualvolta sentiva arrivare qualcuno.

Jane Austen in uno schizzo della sorella Cassandra

La “stanza tutta per sé”, auspicata da Virginia Woolf, è dunque metafora del diritto a uno spazio in cui potersi immaginare come “donna tutta per sé”, liberandosi di quella “anonimità”, come la definisce la Woolf, dettata dall'autolimitazione.

Prendersi cura di se stessi, avere la possibilità di guardarsi dentro, significa anche guadagnarsi uno spazio pubblico, un riconoscimento, non tanto per entrare nell'ordine dell'uomo, quanto per dichiarare la propria identità, per rendere manifesta la propria parola, troppo a lungo rimasta segreta. La stanza dunque è anche lo spazio della sospensione e della trasformazione della donna, quel luogo di solitudine che rende possibile una riappropriazione e un riconoscimento del proprio potenziale creativo.

“Fino a quando, scrive ancora la Woolf, la donna sarà costretta a spendere le sue migliori energie per guadagnarsi uno spazio tutto per sé, finché dovrà investire tutte le proprie capacità espressive nella protesta, nella denuncia accorata, nel cahier de doléances a cui la società fa troppo spesso orecchie da mercante, non le sarà possibile attingere alle sue migliori potenzialità e dedicarsi al suo compito creativo, ad uno spazio creativo che non trovi identificazioni nell’uomo, ma sia proprio dell’emisfero femminile.”

Credo che su questo terreno forse ancora molte di noi debbano fare molta strada… Riusciamo ad avere questo spazio?

(lunedì, 10 marzo 2008)

da Pensare in un'altra luce


Virginia Woolf

P.S. L'immagine sulla destra del post è di un piccolo acquerello di James Stainer Clarke, datato 1815. E' probabile che la donna effigiata sia Jane Austen.

7 commenti:

Solimano ha detto...

Giulia, questo è un discorso su cui si fa molta ipocrisia, di tipo però gentile.
Cerco di stare sulla palla di quello che è successo negli ultimi decenni, che è la cosa più importante. A storicizzare alla lontana ci si trova magari tutti d'accordo, ma si perde di vista la situazione attuale, cioè i problemi e le opportunità.
Quando avevo vent'anni, le ragazze che facevano l'università sapevano (dentro lo sapevano) che avevano tempo fino a venticinque anni per sposarsi per amore. Dopo, provvedevano, sposandosi magari con uno di cui non erano innamorate ma su cui sapevano di poter contare. Questo perché restsre zitelle era una diminutio di tipo grave, e giustamente non gli stava bene.
Questa situazione da qualche decennio non esiste più, ed il merito è stato del Sessantotto (che ha avuto anche tanti demeriti). Sulla situazione delle somiglianze/differenze fra i generi non entro manco pe' gnente, non è questo il punto. Il punto sono le opportunità, roba che si tocca, e dove le opportunità non sono uguali necessitano le quote.
Però, anche qui bisogna starci attenti a tutto l'ambaradam, perché ad esempio che ormai in cattedra alle elementari alle medie e ai licei ci siano solo donne, non è solo un dato di fatto, ma per la legge dei grandi numeri costituisce un problema. Che farci, non so, però intanto mi sono focalizzato su una cosa reale. E ce ne sono tante altre di cose reali su cui è facilissimo capirsi. Mentre non sono cose reali -oggi- il lamentarsi perché le donne scrittrici, perché il sistema editoriale, perché i giornali etc etc. Io so che Mansfield, Austen e Byatt le leggo volentieri, le leggo a prescindere, ma non mi metterò mai a leggere qualcosa e farmelo piacere solo perché l'ha scritto un uomo o l'ha scritto una donna. Credo ad un certo tipo di battaglie, non credo ad un altro tipo di battaglie. Aggiungo un piccolo fatto personale che sai: in rete leggo prevalentemente donne, ma non per dovere, esclusivamente per il piacere e il profitto che ne ricavo.
Chiudo dicendo che ci sono anche donne che non hanno capito o non vogliono capire che non è detto che si facciano sempre discorsi da donne. Sembra che trovino confortevole un certo tipo di gabbia storica. Vorrà dire che peparerò una serie di post sul punto a croce o sulle ricette della nonna così gli porto via il lavoro sicuro che pensavano di avere.

grazie Giulia e saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

Stavo pensando a cosa mi ricordava, questo "Una stanza tutta per sè", ma non riuscivo a venirne a capo. Un altro titolo, di un libro, ma quale?
Poi ci sono arrivato: è uno dei primi libri di Oliver Sacks, "A leg to stand on", una gamba su cui reggersi.
Sacks è un neurologo, e un grandissimo scrittore; nel libro racconta di un problema temporaneo che gli aveva bloccato una gamba, e delle sue sensazioni quand'era guarito.
Penso che alle volte il nostro inconscio lavori alla grande, al mio io cosciente questo abbinamento non sarebbe mai venuto in mente, eppure alle volte sembra davvero che ci manchi qualcosa per camminare bene.
Questo articolo di Giulia spiega benissimo il concetto.

(che bella la foto delle due sorelle che giocano a cricket! molto inglese)

Anonimo ha detto...

Caro Solimano, concordo con quello che dici... Su una cosa fermerei l'attenzione. Nella nostra cultura, in certi strati sociali è tutto vero quello che dici, ma in altre realtà il discorso è ancora da costruire, soprattutto mancano ancora le opportunità.
Sacks, Giuliano, lo trovo veramente un neurologo illumintao. Adesso che ci penso non gli ho mai dedicato un post... lo farò perchè davvero è grande per tanti aspetti. L'ho sempre seguito con molto interesse. Saluti a tutti e grazie per l'ospitalità, Giulia

Anonimo ha detto...

Dimenticavo di dire che le immagini sono bellissime... Giulia

Habanera ha detto...

Caro Solimano, prova a rinascere donna, poi ne riparliamo. Una stanza tutta per sé significa essenzialmente che (ancora oggi) a moltissime donne non viene riconosciuto il diritto di avere degli spazi propri, di esprimere liberamente le proprie idee. Molti (troppi) maschi non capiscono, e non credo capiranno mai, che per una donna, per quanto intelligente, colta ed emancipata, tutto costa il doppio di fatica e di impegno.
Il problema di fondo è che la maggior parte degli uomini è ancora convinta di appartenere ad una classe di esseri superiori e che le donne siano o delle insopportabili virago o dei docili gingillini, pronte a sottomettersi ad ogni loro volere. Esistono le virago ed esistono i gingillini ma la maggior parte delle donne, per fortuna, non è nè una cosa nè l'altra.
Credimi, ce n'è ancora di strada da fare e non è un problema che si possa risolvere con le quote, è un problema di mentalità. Mentalità sbagliata che tu certamente non hai, ma sei una mosca bianca.
H.

Habanera ha detto...

Giulia cara, se ho scelto di pubblicare questo post significa che ne condivido in pieno lo spirito ed il significato. Le mie scelte non sono mai casuali...

Ti ringrazio e ti abbraccio
H.

Roby ha detto...

Stavo pensando: non sono mai stata una virago, nè tantomeno un gingillino. Sono... già, cosa sono, a parte che donna??? Sono pigra, sognatrice, insicura, allegra, scherzosa, infantile, altruista, bischera, ritardataria, disordinata, confusionaria, insonnolita, impermalita, insofferente...

...insomma, sono ROBY. E sono stata felicissima di leggere questo post straordinario (brava Giulia!!!) e tutti i commenti ad esso.

'Notte!!!

R.