giovedì 3 aprile 2008

Madri




Madri

di Zena Roncada
(Colfavore delle nebbie)





Quella cucca della modenese mica se n’era accorta.
Delle uova false e tutto quanto.
S’era trovata con il cesto in testa e punto.

Tutto era cominciato qualche giorno prima.
Non aveva beccato l’ortica, eppure segnava una malinconia ubriaca.
Si teneva da sola contro il muro. Dietro il rosmarino, dove la terra è grassa, nera, e si vela dell’umido di aprile.
Un borbottio in gola o a mezzo becco. Chioccio e rotondo come i grani del rosario.
Stava quieta e selvatica, in umor di carestia.

La Elsa l’aveva guardata bene bene e poi s’era decisa.
Quattro uova di legno. Lisce di pialla e tiepide di cenere. Nella cassetta dei cachi, con il fieno dentro. Infilate di fretta e a tradimento.
La modenese, andata a bagolare dentro il nido, l’aveva schifato come sospettosa.
Tre beccate in terra a prendere il viatico, poi un ripensamento: un saltino secco lì, sul bordo, infine a coccoloni sulle uova, gonfia e matrona. A cova. Pronta a levare le ali solo passasse il vento.

L’è giusta, l’è giusta- s’era detta la Elsa, che aveva un gran pensiero: scegliere pareva poca cosa. Invece. Stavolta toccava a lei. Di anni pochi.
Impara, le aveva detto la Celesta suamamma, ché ormai c’è da provare. Se nascono i pulcini, li vai a vendere al mercato. I miei, più quelli della Livia, ti fai la tela per il lenzuolo grande.

Eh. Facile no. Mettere a cova è come un terno al lotto.
Con la tacchina s’andava sul sicuro: venti uova coperte l’anno prima. Ma già se l’era presa sua sorella.
La Elsa ragionava e ragionava.
A scegliere male, una chioccia bugiarda poteva capitare, una gallina di luna matta.
C’era da perdere uova gallate, onore e tela per l’armadio della dote.



Nel pollaio, si sa, ci son zampe nervose, specie a primavera. Storie di sdegno e di abbandono, come quella della livornese che con la grinfia ogni tanto si segnava un uovo: tacca di rabbia e di dispetto, ché quello non era il suo mestiere. Far la chioccia è quasi una chiamata.
La gallina rossa sembrava proprio giusta, col suo verso rauco ed ingozzato.
Così la Elsa era stata svelta, dopo la prova con le uova false, la chioccia in braccio alla Celesta, aveva messo giù quindici uova, nel fieno dentro la cassetta: quelle vere, con dentro la promessa.
La chioccia ferma, già pronta a cedere calore ed energia di piume. Col corach rovesciato a far da gabbia.

Non c’era stato errore.
Un solo uovo chiaro e la pazienza del conservare il caldo: un panno di lana sulla cova, quando la chioccia lasciava un poco il nido.
Poi, i giorni della schiusa: pulcini di zampette molli, come lisciati con l’albume, ad asciugarsi piano fra le piume, a prender confidenza con la luce che imbambola e stordisce.
E l’ala, angela e gelosa, ad oscurare il troppo.

Prese la strada dell’argine, la Elsa, una mattina di maggio maturo: le veroniche già tutte illuminate.
La bicicletta sghemba, per i panieri grandi.
Due ceste di pigolio babele: un pestacchiare inquieto contro il vimini intrecciato. Tutti i nati del cortile a fare fitto per il suo lenzuolo.
C’era d’aver soddisfazione, come sentirsi pronte da marito.

Il mercato era nella piazza larga, coi roveri lasciati lì nel mezzo, a fare ombra.

Si mise con le ceste vicino al banco delle stoffe, giusto per far presto ed evitare il sole.
E intanto c’era modo di guardare, ché le mussole e i sangalli, i crespi e i moerri prendevano gli occhi come certe gibigiane che friggono le ciglia, eppure lo sguardo ci sembra andar da solo.
Certo eran belli anche i rotoli di tele, di vera pelle d’uovo fina fina, e di percalle lustro che a ricamarlo a intaglio viene così bene: trionfi del letto, ma la seta …



Ah, la seta chiamava, oh se chiamava con quell’azzurro d’iridata piuma, un azzurro che era di famiglia, nel nome della madre, in certi lampi sbirciati nello specchio. Da farci una veste per andare a messa, col collo allacciato sulla spalla. Però.

I pulcini andarono venduti: i suoi e quelli della Livia e quelli di suamamma.
C’era di che comprare.

Ho mica resistito, confessò già pentita alla Celesta, aprendo il fagottino: la seta, azzurra, disciolta a lago sulla tavola.

La madre guardò la sua figliola, ancora così chiara, i fianchi sottili nel grembiule e quell’ombra di petto un po’ indecisa. Guardò i suoi occhi e poi anche la stoffa, senza toccarla neanche con un dito. Fu come fare un salto nel domani: un vederla con i capelli a crocchia, le gambe macchiate dai tafani e gli anni pronunciati dall’addome. A raccogliere le uova nel pollaio, i bambini a tirarle la sottana e il fuoco a chieder legna.

Poter fermare il tempo almeno in un vestito…

Stupida, le disse forte, ma solo con la bocca.


(mercoledì, 26 marzo 2008)



Da Pesci di nebbia

7 commenti:

Solimano ha detto...

Ho visto bene da bambino la chioccia che covava. Nel casello ferroviario tenevamo anche il pollaio, e un giorno una gallina cambiò verso. La mamma -che in casa faceva la magliaia- lo sapeva e si procurò alla svelta le uova giuste. La nostra chioccia non smetteva mai la cova, ero io che una volta al giorno la prendevo su e le davo granturco e grano, la chioccia beccava svelta ed io poi la rimettevo sopra le uova, che ogni tanto col becco girava (non era una gallina matta). La chioccia può anche beccare, quando cova. Le galline non è vero che siano stupide, hanno una serie di loro modi come gerarchie, come bagno in comune nella sabbia con la cenere. La chioccia è una gallina che diventa più intelligente. Alla schiusa, due uova (in totale erano certamente più di quindici) non si aprirono, perché i pulcini morirono nello sforzo di aprire il guscio col becco. Una brutta cosa, ci rimasi male. La chioccia i suoi pulcini li conosce tutti, anche se sembrano uguali, e caccia via con ferocia un pulcino non suo. Verso il tardi si mette con le ali semiaperte per accogliere i pulcini sotto. Tutti ci andavano subito, uno invece la tirava in lungo continuando ad andare qua e là e lo chiamai Girella. Come diedi altri nomi: Beccorosso, Zampadivelluto, Mezzetto, il Capitano. Ma la mamma, qundo furono più grandi, tirava il collo ai maschi uno alla settimana, così ci pativo quando tornavo da scuola. Con i conigli non si patisce, sembrano tutti uguali e non gli si dà il nome.
A raccontare queste cose c'è il rischio di mitizzare, rendendo bello nel ricordo quello che non lo è stato nell'esperienza, perché è da cittadini arcadizzare la campagna. Chi l'ha vissuta non lo fa, per un motivo: ha dentro di sé chiaro quello che è successo e il giudizio, se c'è, esce dai fatti, che per piccoli che siano sono lì, nei nostri neuroni. Basta mettersi zitti ed ascoltarli. Ai cittadini, per sgrugnarsi con quello che era la campagna, consiglio "La malora" di Fenoglio, che certamente nelle scuole fanno leggere poco.

grazie Zena, a presto
Solimano

Roby ha detto...

Per un attimo, leggendoti, ho provato anch'io ad immaginare la mia, di figlia, fra una ventina d'anni da ora. Non avrà la crocchia, probabilmente, e neppure tanti bambini a tirarle la sottana (perchè è dall'età di due anni che non indossa altro che pantaloni). Non ci sarà fuoco da attizzare, nè tafani ronzanti. Ma certo la sua vita -penso, sospirando- sarà molto, MOLTO più complicata di adesso . Noi madri, una razza strana.

Grazie, Zena, come sempre: e ciao

Roby

Giuliano ha detto...

Gli unici animali del futuro saranno cani e gatti: è già quasi così, con l'aggiunta dei pesci d'acquario (ma solo se sono esotici).
Io per fortuna qualche gallina l'ho vista e l'ho presa in mano: poca cosa, ma almeno so come sono fatte...
Grazie per la lettura, e per i dipinti (sono di Zena?)
PS: questo per quel che riguarda gli animali "rassicuranti". Per il futuro futuro, ci sono bestie molto più resistenti e vitali dei cani e dei gatti...

Anonimo ha detto...

Pensate, abito in piazza, in un paese di campagna. Praticamente un ossimoro:)
La campagna � l� alle spalle, come radice e come luogo dei racconti, che rivivono a casamia come/con i gesti di ogni giorno. Cos� ho imparato di chiocce e burro e mucche e terra, insieme alla consapevolezza che forse certi saperi c'erano da sempre e solo andavano risvegliati dalle parole.
Adesso li (ri)vivo, anche; perch� la cerco, la terra, come un bisogno di tangenza.
Senza mitizzare,per� perch� ha ragione Solimano: chi vive a suo contatto, ha chiarezza non della fiaba ma della 'cronaca', che spesso � di malessere e 'malora'.
E' dei gesti che vorrei tenere memoria, perch� nei gesti c'� una sapienza che non ci appartiene pi� 'sperare un uovo', toglierlo da sotto, prendere un pulcino...
ecco.
Grazie, per ogni cosa.
zena
(che nulla sa dipingere:)...)

Habanera ha detto...

La campagna, per un brevissimo e felicissimo periodo della mia vita, l'ho conosciuta da bambina a Mascalucia (Catania). Sono passati molti anni ed i ricordi non sono nitidissimi ma qualcosa ricordo: il profumo del pane appena sfornato, il sapore dei fichi colti dall'albero, la vendemmia, i piedi nudi dei contadini che pigiavano l'uva, gli schizzi rossi che macchiarono la mia camicetta bianca. E le galline, sì, c'erano anche le galline, e le uova da raccogliere nel pollaio. Per me, che venivo dalla città, era tutto nuovo e bellissimo. Mi inebriavo di sapori e di odori e ancora oggi, a distanza di anni, ho nostalgia di quei giorni pur sapendo che quella campagna non esiste più e che il bel paesino dei miei ricordi è stato ormai interamente assorbito dalla città. Amo i racconti di Zena ma non solo per le mie nostalgie. Sono affascinata dalla poesia delle sue parole a da questi ritratti di donne che hanno la stessa forza e la stessa materna generosità della terra.
H.

mazapegul ha detto...

Questa storia, raccontata senza molti compiacimenti, di donne con un orizzonte topografico ristretto (più forse di quello dei volatili, nominati per città) mi ha fatto pensare al ruolo dell'informazione nella nostra vita. Che la nostra vita, cioè, pare dipendere dall'informazione in maniera cruciale: il tempo passato a vedere, ascoltare e leggere di altre persone e di altri posti -per abitudine o per divertimento; per "tenersi informati", appunto. Un'informazione che, in nove parti su dieci, non ha nessun corrispettivo materiale, nessuna manciata di "terra grassa e nera" da sfarinarsi tra le mani.
Che non è nostalgia di un mondo che non ho vissuto, ma solo incontrato fugacemente in una generazione di parenti oramai esaurita; quanto la constatazione di uno squilibrio tra parole e cose.

Giuliano ha detto...

Mazapegul ha trovato le parole giuste. Anch'io non ho mai fatto il contadino, ma almeno so cosa vuol dire stare in campagna (compreso il tirare il collo alle galline, come ricorda Solimano).
Non so quanto ne capiscano di queste cose le generazioni cresciute in mezzo all'asfalto... vanno in piscina e in palestra, ma non hanno più prati e campi in cui perdersi, e magari la vista di un'ape o di una formica li mette in crisi...