mercoledì 30 aprile 2008

Gioia, agguato perenne




Gioia, agguato perenne
(Le confessioni di un poeta finto - 5)

di Solimano


Riporterò solo due poesie del mio periodo “Piccolo grande amore”, ecco la prima:

Bruciante falò in nebbiose pianure
Vulnerabilità che fa soffrire
Fiori-carezza di gerani rosa
In cuore la voglia di primavera.

Andatura esitante:
Tua bellissima nota
Scelta di un percorso
Libero da bagagli.

Piuma, che guidi il vento dove vuoi,
Tu sei comparsa solo per ferire,
Evento che non può modificare
La parte divina che è in te.

Resterò in questo luogo
Quietato senza sforzo;
Bene è che tu risponda
Il nodo si scioglie.

E’ l’intuizione che aiuta a capire
Quei tuoi occhi insondabili e limpidi,
Creaturali attimo per attimo.
La mia tristezza se ne va, sublima.

Io mi sento un frammento
Scorciatoia inventata
Nel mondo dei confronti:
gioia, agguato perenne.

E’ un bell’inverno, adesso.

Addio, piccolo centro dell’universo.

Mai, dico mai, che la voglia di primavera sia nel fegato o nei lobi auricolari: nel cuore deve essere, e mi ci sono attenuto, anche se la primavera la potrebbe essere maladetta, come dicea Loretta Goggi. Epperò la voglia permane, sendo che l’inverno è stagione difficile. Credo che il mio lodare desso inverno ascondesse in sé una qualche menzogna gratulatoria verso la destinataria di codesta poesia, che oltre alla parte divina ne possedea una umana assai sensibile all’amorosità dei complimenti.
C’è nella poesia uno zompicchiare qua e là, come se stessi camminando su un lago gelato la cui crosta si rivelò fortunatamente spessa, e non rischiai un freddo bagno che potea riuscirmi fatale. Mi sento di smentire, dopo accurate ricerche, che la destinataria fosse il pur piccolo centro dell’universo, era però assai gradevole a vederla e a parlarci. Le movenze erano aggraziate, gli occhi limpidi e per niente insondabili, che è solo una licenza poetica che mi presi per aggiugnere mistero, parola apprezzata in tutti i piccoli grandi amori, come ognun sa. Le ferite di cui parlo furono solo piccole scalfitture da arrossar la pelle, non da farne scaturire la menoma goccia di sangue.
Questa non è la consueta festicciuola di endecasillabi e settenari, partecipano anche alcuni altri versi, non so se per mia imperizia o perché il climax (così si denomina) lo richiedesse. Esistono qua e là alcune coglionerie residuate al mio primo indimenticato periodo, sono però fronteggiate da numerose furberiole quale sentita quale astuta, mai però perfida. Vogliamo dirlo? Delicatezza, ecco quel che cercavo e che talora trovai.
Detta poesia anderebbe asciugata e raccorciata onde mantenerne la delicatezza aggiugnendo una maggior focosità, fatta sperare dal primo verso, ma non mantenuta nel prosieguo. Non era, la mia, una situazione da non dormirci la notte, ma da dormirci facendo sogni liberi da bagagli e con nodi che si sciolgono, ecco!

P.S. Le immagini sono tratte da John Everett Millais: Apple Blossoms (Spring) 1856-59 Lady Lever Art Gallery, Merseyside

lunedì 28 aprile 2008

Perché non vado più a teatro (n.4)





Perché non vado più a teatro (n.4)


di Giuliano




E, infine, ci metto i registi. A teatro, e ormai anche all'opera, non si vedono più Shakespeare e Pirandello, o Strindberg e Verdi: ma le personalissime riscritture di questo e quel regista. Non ci sarebbe niente di male, e spesso si tratta di cose interessanti: ma se vado a teatro per vedere Amleto, o Macbeth, o Rigoletto, mi aspetto uno studio su quei personaggi, personaggi che non finiscono mai di stupire ad ogni lettura. Si può recitare Shakespeare anche in mutande, e farlo bene; e del resto Shakespeare era il primo a prendere in giro se stesso e i riti e le convenzioni del teatro, come si può vedere nel "Sogno di una notte di mezz'estate". Però basta parlar chiaro, come si fa al supermercato (e in questo caso un bel grazie al legislatore, per una volta attento): queste mele vengono dalla Cina e non dal Trentino, però sono buone: le vuoi comprare lo stesso? E così dovrebbe essere anche sui cartelloni dei teatri: questo non è il Woyzeck come lo ha scritto Büchner, è una sua riscrittura/riduzione fatta dal Grande Regista. Ti va bene lo stesso? Sei disposto a spendere 40 euro per stare seduto due ore in una poltrona scomoda per ascoltare il Grande Regista? Non so, forse esagero, forse divento vecchio, e forse mi conviene davvero di starmene a casa, almeno non disturbo nessuno. Comunque sia, è così che vedo il teatro, in questo finale d'anno del 2004. Non è un gran che, e me ne dispiace: chissà, forse con l'anno nuovo riuscirò ad essere più costruttivo.

Taluni suppongono che, accanto al gran trucco generale, ci sia in ogni caso, fatto apposta per loro, un piccolo trucco particolare, per cui, ad esempio, durante la recita di una commedia d'amore, l'attrice, oltre al sorriso falso destinato al suo amante, abbia anche un sorriso particolarmente subdolo per un ben determinato spettatore in loggione. Questo si chiama andar troppo oltre. (Franz Kafka, Quaderni in ottavo, edizione Oscar Mondadori pag. 107)

(7 dicembre 2004)




sabato 26 aprile 2008

Contraddittorio, incompleto, indimostrabile


Assiomi di Peano


Contraddittorio, incompleto, indimostrabile

di Nicola
Mazapegul



Chiunque sia stato amante respinto o amato respingente sa che l' appello alla logica è l' ultima speranza di chi la speranza l' ha perduta. Nelle ultime convulsioni dell' amore finito o dell'innamoramento a vuoto risuonano i "ma tu avevi detto...", "se le tue parole hanno un valore...", "proprio quello che dici ti obbliga... ", "se era eterno, non può finire!"
E la caritatevole bugia e il gentile lenimento vengono dall' interlocutore analizzati e sviscerati in base al loro puro valore di verità. Senza pietà per l'altro, e ancor meno per sè.

Questa comune esperienza ci suggerisce di restringere il campo delle frasi che consideriamo "logicamente", almeno in prima istanza, a quelle che trattano del mondo degli oggetti sensibili e degli ancor meglio definibili oggetti mentali. Abbiamo già visto come sia pericoloso ammettere frasi che in qualche modo predicano se stesse ("io mento"), che quindi escludiamo dal nostro orizzonte. Tagliando un po' alla grossa, riduciamo il nostro universo ai numeri "naturali": 0,1,2,...n,...
Alcune frasi riguardanti i numeri interi sono vere ("2+2=4") e altre false ("3=2"). Queste che ho appena scritto possono essere verificate con un pallottoliere (magari uno di quelli grandi, "123456789+987654321=1111111110"). Altre riguardano infiniti numeri, e debbono essere analizzate diversamente:

(1) se n è naturale e divisibile per 4, allora è divisibile per 2 [vera];
(2) esistono numeri naturali n e m tali per cui 6n-12m=1 [falsa: il numero a sinistra di = è pari, quello a destra è dispari];
(3) dato un numero naturale n, esiste un numero primo p>n tale che anche p+2 è primo [al momento non si sa; alcune coppie di numeri primi del tipo (p,p+2) sono : (3,5), (5,7), (11,13), (17,19), (29,31), ...].

E' un artigianato assai antico, e ancora in sviluppo, quello di elaborare delle strategie corrette per stabilire se frasi del tipo (1), (2), (3) siano vere o false. Alla base di questo artigianato sta quasi sempre il metodo assiomatico, di derivazione ellenistica (Euclide): (i) si fissano alcuni "assiomi" che descrivano in maniera completa il nostro universo di oggetti e le sue proprietà principali; (ii) si fissano alcune strategie corrette per dedurre da alcune frasi vere altre frasi vere ("regole d' inferenza", nel gergo contemporaneo); (iii) data una frase F si cerca, partendo da (i) e utilizzando (ii) (aiutandosi con tanta immaginazione), di arrivare a F (che quindi diventa un "teorema") o alla negazione di F (nel qual caso il "teorema" sarà "non F").

E proprio qui, dove si gettano le fondazioni del pensiero "deduttivo", occorre fare molta attenzione. I nemici da schivare sono due: CONTRADDIZIONE e INCOMPLETEZZA.
Si ha una contraddizione quando, a partire dai nostri assiomi, possiamo dedurre sia una certa frase F che la sua negazione, "non F". Un principio di logica, infatti, ci dice che in tal caso TUTTE le frasi sono dimostrabili a partire dai nostri assiomi (tutti i gatti sono bigi: siamo nella notte della ragione).

A chi gli chiedeva di dimostrare che "se 3=2, allora io sono il Papa", Russel rispose: "se 3=2, allora, sottraendo 1 da entrambe le parti dell'uguaglianza, 2=1: se lei e il Papa siete due persone distinte, allora siete la stessa persona".

Il problema è che le frasi deducibili dai nostri assiomi sono infinite: come avere certezza che non ci sia alcuna contraddizione, magari nell'infinito novero delle frasi poco significative che nessuno si cura mai di considerare? L'incompletezza, invece, si ha quando una frase di cui, a primo acchito, dovremmo poter dire se sia vera o falsa, non è né vera, né falsa (esistono universi in cui i nostri assiomi valgono, ed è vera, mentre in altri gli assiomi valgono, ed è falsa).

Un esempio famigliare (a posteriori) è il seguente.
Prendiamo come assiomi dei numeri naturali:
(A1) 0 è un numero naturale;
(A2) per ogni naturale n, n+1 è un naturale;
(A3) se n+1=m+1, allora n=m;
(A4) [assioma sulle proprietà ereditarie] se un insieme contiene 0 e se, ogni volta che contiene un numero n, contiene anche n+1, allora questo insieme contiene tutti i numeri naturali. (Spiegazione: contiene 0, quindi anche 1=0+1, quindi anche 2=1+1, quindi...).

Consideriamo ora la frase "13=1". Osservando il vostro orologio da polso (a lancette), troverete vera sia la frase (le ore 13 corrispondono alla posizione 1 della lancetta) che gli assiomi.
Se invece vi rivolgete ai soliti (infiniti) numeri naturali, la troverete falsa (non accettereste 1 euro in cambio di 13).
Il sistema di assiomi diventa completo (e in tale forma fu escogitato da Peano alla fine del secolo XIX) aggiungendone un quinto:
(A5) se n è un naturale, allora n+1 è diverso da 0. (L'orologio non verifica questo assioma: l'ora 11+1=0, dove abbiamo posto 0 l'ora di mezzogiorno - o mezzanotte).
Con i cinque assiomi di Peano, mostrare l'incompletezza pare più difficile (ci torneremo un'altra volta).

Abbiamo però un terzo problema. Supponiamo pure che i nostri assiomi descrivano senza ambiguità i numeri naturali e che non ci siano contraddizioni. Partendo da essi e utilizzando le nostre regole di ragionamento, deduciamo tutte le loro possibili conseguenze (i "teoremi" della nostra teoria). Siamo sicuri che nel nostro carnet di proprietà così dimostrate siano finite TUTTE le proprietà vere?
In linea di principio, infatti, non si può escludere che -per esempio- la frase (3) sia vera (che, cioè, per infiniti numeri primi p si abbia che p+2 è primo a sua volta), ma che questa proprietà non sia dimostrabile a partire dagli assiomi di Peano. Metaforicamente, siamo dalle parti della religione (o delle teorie cospiratorie): è vero, ma non dimostrabile. Più concretamente, con questi dubbi in mente ci stiamo avvicinando ai teoremi di Goedel.

Una testimonianza su Peano

P.S. Le tre immagini nel testo sono, a partire dall'alto, di Giacomo Balla (Numeri innamorati, 1920), di Nicolaj Diulgheroff (L'Uomo Razionale, 1928) e di Jaspers Johns (Numbers in Colors, 1958). (s)

Giuseppe Peano

giovedì 24 aprile 2008

Hélène Grimaud




Hélène Grimaud

di Clelia Mazzini


"I lupi e le donne selvatiche hanno la stessa reputazione. Clarissa Pinkola Estès ha scritto che la storia dei lupi ha strane analogie con quella delle donne, quanto a passionalità e a fatica. Ed è vero, donne e lupi condividono certe caratteristiche: sensi acuti, spirito ludico e grande propensione alla devozione. E soprattutto si esercita contro i lupi e le donne la stessa rapace violenza, generata dallo stesso malinteso.
Sirene o streghe, le donne sono state punite per la loro relazione primitiva, selvaggia, essenziale con la natura...
Come il lupo possiede la terra e il pesce l'oceano, così l'uomo deve trovare il quinto elemento, il solo da cui non sarà mai escluso: l'arte. Questa verità bisogna trasmettere ai bambini, prima che altri lupi, troppo umani, azzannino le loro fantasie creative."



Hélène Grimaud
da Variazioni selvagge


Mi pare abbastanza chiaro che una ragazza che scrive così, poi suoni
Rachmaninov così...




(09 novembre 2007)

Da Akatalepsia

martedì 22 aprile 2008

Al Gran Galà della Riga





Al Gran Galà della Riga

di Barbara Cerquetti
(Woodstock74)




Il Gran Galà della Riga veniva organizzato una volta all’anno e, quando accadeva, nella terra dei Quadretti tutti scoppiavano d’invidia. Tentavano di organizzare a loro volta un Matinee Numerale, ma i risultati non superavano mai quelli di una sagra di paese.
Niente a che vedere con lo splendore e lo sfarzo del Gran Galà dove solo gli eletti dell’Italiano erano invitati, si vestivano con abiti sgargianti, paillettes, lustrini e ballavano per tutta la notte sotto le luci dei riflettori e i flash dei fotografi.

Al centro della scena c’erano i soliti noti.
Io indossava un abito con almeno mille balze e avanzava a braccetto di Presente Indicativo che sfoggiava un papillon d’oro zecchino e un frac dalle code lunghissime a cui erano attaccati i loro cuccioli: Sono, Penso, Credo e molti altri più piccoli che gli scodinzolavano dietro.
Al loro passaggio la folla si apriva, gli invidiosi facevano tanto d’occhi e i più entusiasti applaudivano fragorosamente. D’altronde la loro storia non poteva non far scalpore: relegati per decenni alla corrispondenza commerciale quella famigliola non era mai stata ammessa nemmeno nelle dependance del Palazzo del Ballo, finché la tendenza era cambiata e alcuni scrittori si erano recati da loro per rivoluzionare il più vecchio degli espedienti narrativi.
Eccolo là infatti: il Monologo Interiore avanzava tra gli invitati, vecchio come il cucco ma con i capelli tinti di viola, il giubbotto di pelle e i piercing all’orecchio. Tutti lo cercavano e lo corteggiavano, e nessuno sembrava accorgersi della sua aria ridicola con quella barba da Matusalemme e il tatuaggio sull’avambraccio.

Lilli riuscì ad entrare molto tardi; aveva fatto una lunga fila ma se lo aspettava: prima le autorità e i politici, gli scrittori,
i giornalisti, i critici, i redattori, poi molto alla fine, i librai.
I lettori, come sempre, si contavano sulle dita di una mano monca.


Quando finalmente poté accedere al Palazzo delle Danze
Lilli evitò la Sala Grande perché ormai aveva imparato fin troppo bene che aria si respirava da quelle parti: ansia, velocità, frasi tronche, ritmi frenetici e incalzanti che raramente lo scrittore era in grado di reggere, banalità mascherate da introspezione, vuoto e, purtroppo, molto spesso, violenza. Non per niente Noir e Thriller gozzovigliavano sul rinfresco sbafando tartine e toccando con le loro mani unte tutte le pizzette e i tramezzini.

No, a Lilli quegli ambienti non piacevano, a meno che non ci fosse una penna autoritaria e capace che sapesse tenere bene in riga tutti quei maleducati arricchiti. Sapeva dove andare, svicolò nel lungo corridoio fino alla stanzetta in fondo a destra, quella vicino al giardino, bussò educatamente e chiese permesso. Era una saletta pulita e profumata, con delle delicate tendine di pizzo alla finestra che guardava verso l’immensità della sera.
Sul divano di velluto Egli, vestita di un sobrio tailleur verde acqua, stava porgendo una tazza di the al suo vecchio amico Passato che, curvo sotto il peso dei suoi anni, si appoggiava ad un elegante bastone di ciliegio. Sul soffitto svolazzavano leggeri come passerotti i loro protetti: Era, Aveva, Andò, Pensò. In tutta la stanza aleggiava un senso di pace e quiete ed un respiro tranquillo che presto si impossessò anche di Lilli.

Accomodati cara –disse Egli, indicandole una poltrona,– stavo per raccontare una storia.

Lilli entrò e chiuse la porta alle sue spalle, senza rimpianti.

(11 marzo 2008)

Da Lavoretti




domenica 20 aprile 2008

Lupi




Lupi

di Roby



L'ululato del lupo in una notte d'inverno, magari con il disco latteo della luna piena sullo sfondo, è fra gli stereotipi più diffusi delle atmosfere di terrore, di tensione, di paura.
"Chi ha paura del lupo cattivo?" ci si chiede nella favola dei Tre Porcellini. Ebbene, vi assicuro che posso alzare la mano di scatto e rispondere sinceramente: "IO NO!".
Sarà perchè, provenendo da una famiglia e da un contesto del tutto cittadini, il lupo non ha mai avuto per me i connotati di pericolo e di danno, anche economico, che rappresentava per la gente di campagna a cui poteva dimezzare il pollaio in una notte, o decimare il gregge in poco più. Io, il lupo, l'ho sempre associato all'immagine del cane poliziotto (vedi Rin Tin Tin o l'odierno commissario Rex), magari con il muso un po' più allungato e le zanne più lunghe: proprio quei denti ben sviluppati che tanto impressionano Cappuccetto Rosso quando se lo ritrova davanti, malamente travestito da nonna.

Cappuccetto Rosso illustrata da G. Doré

"Ma come si fa" pensavo, ogni qualvolta mi veniva letta o raccontata la celebre fiaba " a scambiare un lupo peloso e zannuto per una vecchia signora?" Avere la camicia da notte e la cuffietta non bastava a giustificare la svista: quella Cappuccetto doveva essere proprio scema, e come tale meritava senz'altro di essere divorata!!! Certo doveva aver preso da sua nonna, che incautamente apriva la porta a tutti gli sconosciuti di passaggio, benchè abitasse in una casetta isolata al limitare del bosco. Per non parlare di quell'incosciente della mamma, che mandava in giro per la foresta una bambina così piccola tutta sola...

Il lupo e la gru, il lupo e l'agnello
Fontana Maggiore, Perugia (XIII sec.)

Nè mi inteneriva particolarmente il destino dell'agnello che, nella favola di Esopo ripresa da Fedro, dopo un breve scambio di battute finisce per costituire il pranzo del lupo di turno. In fin dei conti, un ovino tanto sconsiderato da abbeverarsi allo stesso ruscello dove sosta un noto predatore non merita, zoologicamente parlando, nessuna pietà: semmai, si può obiettare sull'opportunità o meno -da parte del lupo- di star lì a chiacchierare del più o del meno, prima di mangiare, col rischio che intanto il cibo si freddi...

Arrivata all'età delle elementari, il mito di Romolo e Remo allattati dalla lupa non mancò di affascinarmi (come pure, in seguito, l'analoga vicenda del Mowgli di Kipling), attirata com'ero dal contesto avventuroso della storia. Certo, la versione della leggenda approfondita più tardi al liceo, secondo la quale Lupa era il nome che a Roma indicava le prostitute (da cui lupanare), mi aveva leggermente sconcertato: in ogni caso, femmina ferina o donna di strada che fosse, colei che si era presa la briga di salvare i due gemelli abbandonati alle acque del Tevere aveva comunque diritto -secondo me- al massimo rispetto, in nome di una mia personale politically correctness ante litteram.

Lupa capitolina - Musei capitolini, Roma
(età etrusca con aggiunte del XV sec.)


Che delusione, invece, scoprire che il lupo di Gubbio -infallibilmente presente insieme a S.Francesco in tutti i libri di lettura delle elementari anni '60- era probabilmente da identificarsi in un sanguinario fuorilegge della campagna umbra più che nella feroce bestia selvatica. Immaginare il poverello di Assisi a stretto colloquio con il ringhioso animale ha tutto un altro fascino, rispetto all'idea del santo che si limita a redimere un comune bandito di strada!

E poi, i cartoni animati, vero luogo di cuccagna per gli appassionati del nostro peloso amico.

Dall'Ezechiele Lupo di Walt Disney, in perenne caccia dei porcellini Timmy, Tommy e Gimmy (così antipatichini da meritarsi un bel morso, ogni tanto) ....

....al distinto, educato, correttissimo Lupo De Lupis, "il lupo tanto buonino" di Hanna e Barbera, antesignano delle campagne di riabilitazione del personaggio portate avanti del WWF, visti i rischi di estinzione della specie...

...fino all'allucinato, sarcastico, "umanissimo" Lupo Alberto dell'italiano Silver: sentimentalmente legato alla gallina Marta da una tempestosa relazione di amore-cibo, nonchè impegnato in dialoghi spesso surreali con la talpa Enrico, deve il suo nome all'inversione di quello di un attore che ha fatto la storia della nostra televisione negli anni '60, interpretando -in decine di sceneggiati di successo- il bel tenebroso "divoratore" di donne adoranti.

Ancora lupi al cinema, dove il tema dei licantropi spazia dall'horror più orripilante a certe curiose parodie (come in Un lupo mannaro americano a Londra o Voglia di vincere con Michael J. Fox ) passando attraverso la tenerezza infinita del burbero, pelosissimo uomolupo interpretato da Lon Chaney, ospite degli incubi di tante impressionabili fanciulle degli anni '40.

Peggio, molto peggio, in quanto a mostruosità concettuale, la pellicola dedicata addirittura a Luciano Liboni detto Il Lupo, delinquente omicida oggetto di una serrata caccia all'uomo in quel di Roma nell'estate del 2004: mentre resta una pagina significativa della storia di Hollywood quel Balla coi lupi che consacrò la fama di Kevin Costner nel 1990.

Ed ecco che, dopo favole, Tv e film, entri da Mel Bookstore, a due passi da S.Maria del Fiore, e ti trovi completamente circondata, assediata, accerchiata da copertine allettanti, su cui spiccano titoli di questo tenore:
  • Sopravvivere coi lupi (Defonseca)
  • Il bambino dal cuore di lupo (Seierstadt)
  • La tenerezza dei lupi (Penney)
  • I cani e i lupi (Nemirovsky)
  • Ragazze lupo (Millar)
  • Il lupo di Wall Street (Belfort)

Allora riprendi la strada di casa, rimuginando fra te e te al centro di un autobus più affollato del solito: e una volta arrivata, invece di metterti a stirare o a tirare la sfoglia come ogni brava massaia che si rispetti, ti siedi al computer e butti giù quel che ti viene in mente pensando al lupo. Il tutto sorridendo come una scema al monitor acceso, perchè ti sei appena ricordata un certo episodio, accaduto più di trent'anni fa, giusto il pomeriggio del primo appuntamento con quello che oggi è tuo marito, e di cui all'epoca conoscevi solo il nome di battesimo.

Quel giorno d'inverno pioveva a dirotto, mentre uscivamo dal cinema, tanto che mi venne spontaneo esclamare, rabbrividendo: "Accidenti, che tempo da LUPI!". Al che lui, rabbuiandosi, replicò, leggermente offeso: "Per favore, non cominciamo con la solita battuta sul mio cognome...".

Una battuta che -fortunatamente- dura ormai dal 1975.




venerdì 18 aprile 2008

Il gesto dell'ombrello




Il gesto dell'ombrello

di mazapegul


Gli ombrelli vengono perduti in gran quantità: ce ne si ricorda solo quando piove e li si abbandona lì dove ci si trova non appena spiove. Così meditavo pigramente, sotto la sicura protezione dell'ombrello preso dal deposito di quelli smarriti in facoltà, mentre mi avviavo verso la stazione di Ravenna, godendomi il violento gocciolare della pioggia sulla tela disegnata a fiori. Nel sottopassaggio ferroviario vicino all'università intravedo due figure nere ferme in attesa. M'avvicino e rabbrividisco: su una carrozzella c'è una vecchia con gli occhi spiritati che accarezza e parla a una Barbie, cercando di pettinarla. Distolgo lo sguardo dalla vista stregonesca e riconosco nell'altra signora, di mezz'età, l'accompagnatrice della vecchia. Evidentemente sono rimaste bloccate nel cunicolo freddo e buio dall'improvviso temporale. "Poveracce!", pensa la gamba destra (dominata dall'efficiente emisfero sinistro) riprendendo la falcata veloce "Fortuna che noi l'ombrello ce l'abbiamo." La gamba sinistra (vincolata al buonista emisfero destro) però ha un retropensiero, si ferma di scatto (causando un dolorino al ginocchio destro, tutto teso verso la stazione e il treno) e chiede alla signora sana di mente: "Vi servirebbe per caso un ombrello?"
Quella dice in un'italiano smozzicato qualcosa che non è nè un sì, nè un no, ma la risposta a un'altra domanda. Ripeto l'offerta, agitando l'ombrello, ma quella mi ripete che la pioggia le ha sorprese là sotto. "Ci hai provato e non ha capito; l'ombrello è salvo. Possiamo andare, ora?", dice trionfante la gamba destra, e parte. Si fanno neanche dieci passi e mi volto, la vecchia ha iniziato a urlare con la bambola, la badante è sempre lì ferma. Torno indietro, vado dalla signora slava e le metto l'ombrello in mano: "E' per voi, capito!?" le dico con un pizzico di sgarbatezza, che non viene tanto dal fatto che il suo italiano è così primitivo, ma dal pensiero del chilometro e passa che devo ancora farmi sotto la pioggia.
Lei prova a respingere l'offerta, ma la vecchia si mette a piangere, così cambia idea. Mi fa mille ringraziamenti, mi dà pure l'indirizzo a cui andare a ritirare l'ombrello.
"Dovrebbe ringraziare la studentessa che lo ha dimenticato in aula," penso, e riprendo il cammino che mi porterà, tutto gocciolante, al treno, dove gli altri passeggeri mi guardano con compatimento e disprezzo ("ma non lo sa che esistono gli ombrelli?").


mercoledì 16 aprile 2008

Proterva bellezza


Caspar David Friedrich: Uomo e donna contemplano la luna
1830-35 Staatliches Lindenau Museum, Berlino


Proterva bellezza
(Le confessioni di un poeta finto - 4)
di Solimano



Circa due mesi dopo scrissi la seconda ed ultima poesia del mio periodo “Trovatore, però”. Eccola:

La fragile durezza del diamante,
La luce della luna
Nella notte invernale,
la frenesia del vento
Nel bosco fra le querce,
Eri per me, Lucinda,
proterva bellezza inaccessibile.

Ma in queste giornate
Avvolte in un turbamento felice
Ben altro mi sgomenta:
La tua morbida dolcezza di donna
Inesorabilmente ormai lontana.

Un’altra festicciuola di endecasillabi e settenari, come vedete. Qui prevalse l’aspetto “però” rispetto al “trovatore”, e le coglionerie fan capolino qua e là, non più di tanto. Manca il lieto fine, ma prima di tutto i due endecasillabi finali sono assassini - come certi sguardi nel cinema muto - e Lucinda rischiò di perdere i sensi quando li lesse, occorse la boccetta dei sali, poi fummo lontani in effetti, ci si salutava a cento metri di distanza facendoci ciao ciao con la manina.
Potevamo riavvicinarci? Ah, bella domanda, che mi assale ancor oggi in certe notti, dopo aver mangiato troppo. Credo di no, per un impedimento dirimente: mi sarebbe toccato modificare l’ultimo verso in un inesorabilmente ormai vicina da sbadiglio irrimediabile. La poesia deve sempre e comunque prevalere sulla vita, e così fu. Sono certo che Lucinda, che oggi vive nella sua città di pietre aspra e di torri (avete indovinato qual è?), se le vengono in mente i due predetti endecasillabi, fa un sorriso dei suoi, che era festa grande, ci fosse o non ci fosse la luna.
Ora si pone un problema delicato, quello cronologico. Non è detto che poesie scritte prima vengano prima di poesie scritte dopo. C’è una circolarità nel tempo, anzi nel Tempo. Quindi, seguo una sincronicità junghiana che un pregio ce l’ha, quello di essere sincrona, come tutti sanno. Sto dicendo che tre poesie le schiaffo alla fine della narrazione prescindendo dalla data del componimento.
Tratterò quindi il mio terzo periodo, che denominai “Piccolo grande amore”, plagiando il noto autore Claudio Baglioni (1951-vivente). Ne vedrete delle belle.

P.S. L'immagine a destra è un particolare di un quadro di Homer Winslow: The West Wind

Johannes Vermeer: Un ufficiale con una ragazza che ride
c.1657 Frick Collection, New York

martedì 15 aprile 2008

Perché non vado più a teatro (n.3)




Perché non vado più a teatro, n.3

di Giuliano




(...) Certo, adesso mi sento più libero, la censura non mi perseguita. Semmai è la questione finanziaria a tormentarmi. Ma questo avveniva anche prima, e gli attori sono sempre mal pagati. Ora però c'è una prospettiva: se decide di farsi una vita qui, la giovane generazione si impegna. E si può sperare che i migliori ce la faranno, se non si comincerà di nuovo a sfruttare il patriottismo, a esaltare presunti meriti nazionali. Se si rimetteranno in circolazione queste vecchie, logore lusinghe per la parte più arretrata della società, non vedo niente di buono per l'immediato. (...) Penso che in Russia il teatro neppure ieri abbia occupato un posto centrale dato che, come disse Lenin, "l'arte principale è il cinematografo" ; e adesso si può dire che l'arte principale è la televisione. (...) Il teatro era un'arte d'élite, e tale è rimasto. Anzi, ha cominciato ad occupare un posto ancora più modesto in quel mostruoso flusso d'informazione che ogni giorno si riversa sugli infelici cittadini della nostra piccola terra in perpetuo conflitto. (...) Sta avvenendo un intorbidimento delle menti che minaccia di rovinare la civiltà. Cala il livello delle conoscenze, e avviene un imbarbarimento del genere umano. Anche il teatro suscita allarme. Si comincia a perdere in vari campi ciò che si chiama professionalità, mestiere. L'impoverimento delle anime è un processo più complesso, mentre la perdita di professionalità comincia già ad essere un pericolo.
(il regista russo Jurij Ljubimov, da un'intervista al Corriere della Sera del 20.12.2002)


Che bella cosa che è stata, il Premio Nobel a Dario Fo. Non se ne poteva più dei nostri poeti, spesso sedicenti poeti. Intendiamoci, ne avevamo ancora di grandi, sei anni fa: ma finalmente il Premio Letterario più importante del mondo è andato a un attore/autore, quasi come se avessero premiato Molière. Peccato che, vent'anni fa, a Stoccolma non abbiano avuto lo stesso coraggio premiando Eduardo; e peccato ancora che, in tempi recenti, non abbiano premiato Italo Calvino e Primo Levi (peccato soprattutto per Levi.: ma questo è un altro discorso). Ma, dovendo scegliere un italiano, Dario Fo era quanto di meglio si potesse scegliere. Si è scelta la vita, l'allegria, l'impegno, l'osservazione della vita quotidiana, il recupero del teatro popolare. E' stata una ventata d'aria fresca, e una colossale risata alla faccia della destra più ammuffita e livorosa. Peccato che sia passata presto...
(continua)

6 dicembre 2004




sabato 12 aprile 2008

Colori d'Autore, Van Gogh

Habanera

Van Gogh: Natura Morta e Cappello di Paglia Giallo
1885, Kroller-Muller Museum, Otterlo


Per caso, grazie ad un bellissimo post di Stefania su Squilibri, ho scoperto questa lettera di Van Gogh al fratello Theo.
Il tema è la ricerca del colore da parte di Vincent, con riferimenti interessanti anche alla tecnica di altri pittori. Ne sono rimasta affascinata e la riporto qui, con grande profusione di immagini, perchè -si sa- anche l'occhio vuole la sua parte.


Caro Theo,
ho letto con molto piacere la tua lettera sul nero e mi sono convinto che non hai pregiudizi sul nero.
La tua descrizione di quello studio di Manet Le toréador mort era un'ottima analisi. L'intera lettera dimostra la stessa cosa che mi era stata suggerita dal tuo schizzo di Parigi, vale a dire che se tu ti ci mettessi, sapresti dipingere benissimo le cose a parole. In effetti, con lo studio delle leggi dei colori si può passare da una fede istintiva nei grandi maestri all'analisi del motivo per cui si ammira quel che si ammira, e ciò davvero è necessario al giorno d'oggi, quando ci si rende conto con quanto arbitrio e quanto superficialmente la gente critichi.

Éduard Manet: Cesto di Frutta
Private collection

Devi lasciarmi mantenere il mio pessimismo sul mercato di cose d'arte di oggi, benché non sia scoraggiato su tutto. Io ragiono così. Supponiamo che io abbia ragione nel considerare che questo strano contrattare sui prezzi vada avvicinandosi sempre più al mercato dei bulbi. Ti ripeto, supponiamo che, come accadde al mercato dei bulbi alla fine del secolo scorso, il mercato di cose d'arte, assieme ad altri campi di speculazione, debba scomparire alla fine di questo secolo proprio come è sorto, vale a dire quasi di colpo. Ora, può scomparire il mercato dei bulbi, ma la floricultura resta. Per quanto mi riguarda, sono ben felice, nella buona e nella cattiva sorte, di restare un piccolo giardiniere che ama le sue piante.
Proprio ora la mia tavolozza si sta sgelando e l'aridità degli inizi è scomparsa.

Vincent Van Gogh: Cottage, 1885
The Art Institute of Chicago

È vero, faccio spesso degli sbagli quando mi metto a fare qualcosa, ma i colori seguono spontaneamente, e prendendo un colore come punto di partenza ho chiaro in mente quel che deve tenergli dietro e come ottenere una certa vitalità.
Jules Dupré assomiglia piuttosto a Delacroix nei paesaggi, perché quale mai gran varietà di stati d'animo non esprime nelle sue sinfonie di colore...

Ora una marina, con i verde-azzurri più delicati, con l’azzurro spezzato e ogni sorta di tonalità perlacee; poi di nuovo un paesaggio autunnale, col fogliame che va dal rosso vino scuro al verde brillante, dall'arancione vivo al color tabacco, e altri colori ancora nel cielo, grigi, lilla, blu, bianchi, contrastanti con le foglie gialle.
E poi ancora un tramonto in nero, viola, rosso fuoco.

Jules Dupré: Landscape with Cows
Private collection

Ancor più meraviglioso, ho visto una volta un suo angolo di giardino, che non ho mai dimenticato: nero nelle ombre, bianco al sole, verde brillante, inoltre un rosso fuoco e azzurro scuro, un verde marrone bitumoso e un giallo-marrone chiaro. Davvero erano colori che avevano un valore.
Mi è sempre molto piaciuto Jules Dupré e sarà sempre più apprezzato con l’andar del tempo. Perché è un vero colorista, sempre interessante, di estrema potenza e drammaticità.
Si è davvero fratello di Delacroix.

Eugène Delacroix: La Mer à Dieppe, 1852
Musée du Louvre, Paris

Come ti dissi, penso che la tua lettera sul nero sia molto buona, e anche quel che dici sul dipingere il colore locale è esatto. Non mi soddisfa però. A parer mio c'è molto di più nel non dipingere il colore locale.
"Les vrais peintres sont ceux qui ne font pas la couleur locale" - è di ciò che discussero una volta Blanc e Delacroix.
Non potrei forse dedurre che è meglio per un pittore iniziare dai colori della sua tavolozza che dai colori della natura? Voglio dire, quando ad esempio si vuole dipingere una testa e si osserva attentamente la realtà che si ha di fronte, si può pensare: "Quella testa è un'armonia di marrone rossastro, di viola, di giallo, tutti spezzati -metterò sulla mia tavolozza un viola, un giallo e un marrone rossastro e questi si spezzeranno a vicenda".
Della natura conserverò una certa sequenza e una certa esattezza nel disporre i toni, e studio la natura in modo da non fare sciocchezze e restare nei limiti del ragionevole; tuttavia, non mi importa che il mio colore sia proprio lo stesso, purché sia bello sulla tela, tanto bello quanto in natura.

Gustave Courbet: Autoritratto con Pipa
Musée Fabre, Montpellier

Un ritratto di Courbet è molto più vero -virile, libero, dipinto con ogni sorta di bei toni di marrone rossastro, di oro, di viola più freddo nelle ombre, con del nero come repoussoir, con un pezzetto di biancheria, per riposare l'occhio- migliore di qualsiasi ritratto di chiunque altro abbia imitato il colore del volto con una precisione orribile.
Una testa virile o femminile, osservata bene e con calma, è divinamente bella, non è vero? Ebbene, si perde l'armonia generale dei toni della natura con un'imitazione penosamente esatta; mentre la si mantiene ricreando una gamma cromatica parallela che può non essere precisamente quella del modello, o addirittura ben diversa.

Gustave Courbet: Portrait of Jo, the Beautiful Irish Girl, 1865
Metropolitan Museum of Art, Manhattan

Bisogna fare sempre uso intelligentemente dei bellissimi toni che i colori creano di loro propria iniziativa quando li si spezza sulla tavolozza, ti ripeto -bisogna iniziare dalla propria tavolozza, dalla conoscenza che si ha dell'armonia dei colori, il che è ben altra cosa del seguire servilmente e meccanicamente la natura.

Eccoti un altro esempio: supponiamo che io dipinga un paesaggio autunnale, degli alberi con delle foglie gialle. Va bene -una volta che io l'abbia concepito come una sinfonia di giallo, che importa se il giallo è lo stesso di quelle foglie o meno? È cosa di ben poca importanza.
Molto, tutto direi, dipende dalla mia capacità di percepire le infinite varianti della tonalità di una stessa famiglia di colori.

Vincent Van Gogh: Strada con Pioppi, 1885
Museum Boymans-van Beuningen, Rotterdam

Forse che questa tu la chiami una tendenza pericolosa verso il romanticismo, una mancanza di fedeltà al "realismo", un peindre de chic, un dare maggior valore alla tavolozza del colorista che alla natura? Beh, que soit. Delacroix, Millet, Corot, Dupré, Daubigny, Breton e altri quaranta nomi, non sono forse essi il cuore e l'anima della pittura di questo secolo e non sono forse tutti radicati nel romanticismo anche se lo hanno superato?
Il romanticismo fa parte del nostro tempo e i pittori devono pure avere immaginazione e sentimento. Per fortuna il realismo e il naturalismo non ne sono indenni. Zola crea, non pone uno specchio davanti alle cose, crea magnificamente, ma crea, infonde poesia, ed è per questo che è tanto bello. Questo è quanto ti dico del naturalismo e del realismo, che restano legati al romanticismo.

Ti ripeto, mi commuovo quando vedo un quadro dell'epoca che va dal 1830 al 1848, un Paul Huet, un Israëls vecchia maniera come Il pescatore di Zandvoort, un Cabat, un Isabey.`
Trovo però tanta verità in quel motto "Ne pas peindre le ton local", che preferisco di gran lunga un dipinto eseguito su una scala cromatica molto più bassa della natura ad un quadro identico alla natura.

Jean-François Millet: Primavera
Musée d’Orsay, Paris

Preferisco un acquerello impreciso, non finito, piuttosto che uno trattato in modo da simulare la realtà.
Quel detto, "Ne pas peindre le ton local", ha un significato vasto, e dà al pittore la libera scelta dei colori affinché creino un insieme, armonizzino e spicchino di più in contrasto con un altro schema cromatico.
Che mi importa se il ritratto di un distinto cittadino mi dice esattamente qual era il colore insipido, bluastro come latte annacquato, del volto di quel pio individuo -che mai avrei guardato in faccia. I cittadini del paese dove il tizio di cui sopra si è reso tanto benemerito da sentirsi in dovere di lasciare la sua fisionomia ai posteri sono invece estremamente soddisfatti della precisione esatta.

Jules Breton: Jeune Fille Gardant Des Vache
Private collection

Il colore in sé non vuol dir nulla, non se ne può fare a meno, lo si deve impiegare; quel che è bello, realmente bello -è anche giusto: quando Veronese dipinse il ritratto del suo bel mondo nelle Nozze di Cana spese tutta la ricchezza della sua tavolozza in viola scuri, in meravigliosi toni dorati. Poi -pensò anche a un lieve azzurrino e a un bianco perlaceo -che non compaiono nel primo piano. Egli li profonde nello sfondo -ed era giusto farlo, perché si trasfonde nell'atmosfera che circonda i palazzi marmorei nel cielo, completando in modo caratteristico il gruppo delle figure.

Paolo Veronese: Le Nozze di Cana, c.1563
Musée du Louvre, Paris

Quello sfondo è tanto bello che deve essere sorto spontaneamente da un calcolo di colori.
Sbaglio forse?
Non è forse dipinto diversamente da come sarebbe se si fosse pensato contemporaneamente al palazzo e alle figure come a un insieme?
Tutta quella architettura e il cielo sono convenzionali, dipendono dalle figure, sono calcolati per far spiccare magnificamente le figure.
È quella davvero la vera pittura e il risultato è più bello dell'esatta imitazione delle cose. Pensare a una cosa e far sì che l'ambiente appartenga ad essa e da essa derivi.
Ti scriverò di nuovo presto e questa lettera te la mando di fretta per dirti che mi ha fatto piacere quel che mi dici del nero.

Addio
sempre tuo, Vincent
[Neunen, fine di ottobre 1885]

Vincent van Gogh: Notte Stellata, 1888
Musée d'Orsay, Paris

venerdì 11 aprile 2008

We be of one blood, thou and I


Rudyard Kipling rappresentato come burattinaio



We be of one blood, thou and I
(Livre mon ami - 15)

di Solimano



-It was seven o'clock of a very warm evening in the Seeonee hills when Father Wolf woke up from his day's rest, scratched himself, yawned, and spread out his paws one after the other to get rid of the sleepy feeling in their tips. Mother Wolf lay with her big gray nose dropped across her four tumbling, squealing cubs, and the moon shone into the mouth of the cave where they all lived. "Augrh!" said Father Wolf. "It is time to hunt again."-
-Erano le sette di una sera molto calda, sulle colline di Seeonee, quando Padre Lupo si destò dal suo riposo quotidiano. Si grattò, sbadigliò e stirò una dopo l'altra le zampe per scioglierle dal torpore. Mamma Lupa se ne stava distesa col grosso muso grigio abbandonato sui suoi quattro cuccioli che ruzzolavano squittendo, e la luna entrava dalla bocca della tana dove la famigliola viveva. "Augrh!" disse Padre Lupo. "È ora di rimettersi in caccia."-

Come si vede, perde poco anche tradotto, tanta è la vigorìa di Kipling nell'inizio del Libro della Giungla, e continuerà così, perché leggere il primo e il secondo Libro della Giungla era una esperienza epica, altro che animalistica carina, come credono gli sprovveduti che non hanno letto Kipling all'età giusta, da ragazzi alla soglia dell'adolescenza.
Non credo che lo facciano oggi, io ebbi quella fortuna e la capii quasi del tutto anni dopo, quando ebbi l'esperienza dello yoga. Non sono documentato, ma credo proprio che Kipling avesse acquisito l'attitudine giusta di vedere il mondo degli animali, vederli come dei nostri consanguinei: "Siamo dello stesso sangue, tu ed io!". In tutti gli asana yoga che ho imparato, ho ritrovato l'animale che insegnò con naturalezza quell'insieme di movimenti a volte faticosi ma sempre armoniosi.
Per me ragazzo Mowgli, Baaghera, Baloo, Akela, Shere Khan, Kaa, Tabaqui, i cani rossi del Deccan erano un mondo di cui avrei voluto fare parte, un mondo di pericoli e di libertà, di fame da soddisfare e di fantasia da sfrenare. Oggi, credo che pochi, ragazzi e adulti, leggano Kipling. Non sanno cosa si perdono, il piacere con cui si divorano quelle pagine con immedesimazione totale.
In Kipling si verifica veramente l'incontro fra Occidente ed Oriente, e si raggiunge proprio qui, più che nei suoi libri etichettati per adulti. Libri molto belli, ma che non danno questa esperienza così unica. La fase prima della adolescenza non era facile, per tanti motivi, non era certo un paradiso né di famiglia né di amici, ma il cuore che avevo dopo pochi minuti di lettura era quello di uno che al mondo voleva starci, e starci bene.

L'amore per la vita, ecco cosa insegna Kipling, e i ragazzi ne hanno bisogno. Di maestri ne trovano pochi, in genere pedanti o velleitari, privi di gusto e di rispetto per la prima regola, quella di essere un buon animale. Siamo talmente lontani da questa ovvietà che ne ridiamo o ce ne indignamo, mentre la prima regola è quella, e Kipling la insegna in un modo che apparentemente si scorda, ma in realtà dura nel tempo.
Se qualcuno riesce ancora a far leggere il primo ed il secondo Libro della Giungla ad un ragazzo di dieci anni, gli fa un grande regalo. Quel ragazzo, pur nelle traversie della vita, avrà un centro dentro di sè, un cuore di luce a cui potersi rivolgere non come pensiero pensato ma come forza di vita prima del pensiero. Ma non so, veramente non so, se oggi questo sia ancora possibile o se, come mi auguro -non sono un tifoso- ci siano degli autori più nuovi che conseguano lo stesso del vecchio Kipling, so che essere nella propria vita quella cosa lì che sei tu, non sarà mai facile, ma prima o poi è necessario.

P.S. Ho scritto questo brano mesi fa, l'intenzione era di scrivere un post su Il libro della giungla come film di animazione di Walt Disney, un post che è anche piaciuto, viste le visite. Ma mi sono accorto da un po' di tempo che sul film ho scritto solo quattro righe. Evidentemente, erano i libri di Kipling ad interessarmi, e lo vedo bene nella serie Livre mon ami, una volta tolte le quattro righe sul film di Walt Disney. A questo brano sono personalmente molto affezionato.
Le due immagini a fianco al post sono di due posizioni yoga, quella dello scorpione e quella del guerriero.

Bassorilievo dai templi di Kajuraho, fra il 950 e il 1050
Stato indiano del Madhya Pradesh