martedì 9 ottobre 2007

Tutta un'altra storia


Edward Hopper: Lighthouse at Two Lights


Tutta un'altra storia

di Stefania Mola
(BibliotecadeBabel)



Raccontami una storia, Pew.
- Che storia, piccola?
- Una a lieto fine.
- Non ne troverai una in tutto il mondo.
- Nessun lieto fine, dunque?
- Nessuna fine.

Silver rimase orfana che era ancora una bambina. Aveva un nome di metallo lucente e di pirata nell'anima, un cane, e radici affondate in quel mare da cui un giorno era giunto e ripartito suo padre. Abitava con sua madre confinata in una casa in pendenza, sospesa sul vuoto, fino al giorno in cui lei precipitò. Da quel momento non ebbe più neppure una storia e – per lungo tempo – solo una quantità infinita di inizi.

Eppure questo, iniziato senza sapere dove volgere lo sguardo né cosa cercare, è il suo viaggio dentro le storie degli altri, soprattutto nelle storie di Pew, il custode del faro di Cape Wrath, raccontastorie cieco che sembra aver vissuto molte vite in quell’angolo di mondo che in gaelico si chiama Am Parbh, Punto di Svolta o semplicemente destino.

È una storia nelle storie irradiate dalla realtà marginale del faro e dalla sua luce, senza finale, oltre. Pew, è «un vecchio con una borsa di storie sotto il braccio» ma anche «il ponte luminoso che attraversi e, quando ti volti a guardarlo, non lo vedi più». Strappa le storie alla luce, esiste e non esiste. Con una storia – quella della sua vita – che ricomincia sempre da capo, ma solo perché la racconta.

È una storia di luce diurna, di quella che fortunatamente ritorna anche per i più sventurati e reietti, di luce perduta insieme ad ogni sradicamento, di luce del faro da tenere viva con quelle storie, conosciute o inventate su misura, e del buio al di fuori di esse e negli occhi di Pew. La storia dei due mari. Quello illuminato dal faro e quello dentro Silver, perché non c’è una narrazione continua dell’esistenza ma solo momenti di luce strappati al buio, momenti brevi che ritornano insieme al loro significato, e le parole – in fondo – sono la parte di silenzio che può essere raccontata.

È la storia di Babel Dark, uomo diviso dalla sua doppia vita e una cosa sola con la donna che ama: 305 giorni alla luce del sole in qualità di reverendo irreprensibile con moglie maleamata e «noiosa come un giorno di mare senza vento», 60 di ombra e felicità al fianco della donna della sua vita con il nome di Lux. È Stevenson, lo scrittore, l’unico in una famiglia di costruttori di fari a sfuggire tale destino, che irrompe tra le pagine nella sua vita e insinua in lui il sentore di quel demone senza pace annidato nel sangue e privo di un corpo in cui incarnarsi, di quelle qualità ataviche, di quelle ombre di sé, sepolte, presenti ma prive di colore, che fanno inconsapevolmente essere due.

Scriverà del dottor Jekyll e di Mr Hyde, Stevenson, grazie alla storia di Babel Dark. L’uomo che vive il paradosso del nome oscuro per la sua vita ufficiale e di quello luminoso per quella nascosta, perché la donna che ami è sempre “tutta un’altra storia” e quando ciò che conta è prendere o lasciare “io-ti-amo” restano sempre le tre parole più difficili al mondo.

È, tutto, una risposta alla richiesta: raccontami una storia, perché l’amore è un «intruso disarmato» e la vita che ci tocca in sorte sempre poca e casuale nell’incrociare le strade del destino, e i giorni inghiottiti in un attimo dalla marea; raccontami una storia, per non dimenticare, per impedire alla mente di raggiungere quel luogo senza luce da cui non si ritorna.

Jeanette Winterson
Il custode del faro
Mondadori, Milano 2005

«Una delle ultime sere di Carnovale ser Anzoletto partì, dopo aver salutato tutti gli amici, a uno a uno.
Se ne andò da una Venezia fredda-cinabro, senza feste, né chiasso, né gran ciarlare. Se ne andò dopo una partita a carte, lui, unico a disegnare fra tanti tessitori e mercanti di seta, e fino all’ultimo tentò di convincere Carlo a partire con lui e piantarla lì di scriver commedie in una città che non lo capiva più, che non era più la stessa, da tanto ormai.
Carlo non partì, si nascose tra i vicoli e le calli, percorrendo da solo, coperto fino al mento, la riva degli Schiavoni, Rialto e i Sospiri, sedendo davanti alla Giudecca, quando non c’era più nessuno all’orizzonte e rare tornavan le chiatte in trasparenza di nebbie.
Rimase attaccato al suo scoglio senza scrivere più, fingendosi altrove.
L’altro Goldoni, quello reale, quello che a Parigi vedevano tutti, l’accademico di Francia, l’amico di Rousseau e Diderot, passò il resto della sua vita a non esser più lui, a scrivere a soggetto – cosa che detestava – per compiacere il pubblico, senza nemmeno accorgersi di quel che faceva.
C’è sempre un tratto nella vita, un solo segmento perfetto, destinato a compiere il nostro daìmon, il nostro destino. In tutto il resto del tempo siamo ancora noi unicamente, per chi guarda da fuori e s’inganna al gesto, alla parola, all’odore che continuano a farci sembrare gli stessi.
Ma nella luce degli occhi c’è quell’altro, quello vero,
senza ritorno

Da Squilibri

Jeanette Winterson

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ti ringrazio per l'attenzione a questa storia che mi è piaciuta tanto, a suo tempo, nonostante i pareri discordi di altri che mi avevano preceduto. Ho un debole per le storie di mare; per le storie che si incastrano una nell'altra; per quelle che non finiscono e per lo spiraglio che resta tra noi e loro.

Grazie ancora e un caro abbraccio.

Habanera ha detto...

Sono io che ringrazio te, carissima Stefania, per la tua cortesia e per la visita.
Anch'io amo infinitamente il mare e tutto ciò che del mare mi parla.

Ti abbraccio
H.