giovedì 25 ottobre 2007

Scrivere e leggere


Jean-Honoré Fragonard : Young girl reading


Scrivere e leggere

di Clelia Mazzini




Affezionata come sono alle mie lunghe e solitarie passeggiate pomeridiane per boschi e lungolago, fra ombre d'alberi secolari e timidi (e coloratissimi) fiori scossi dal fresco vento del Nord, mi vado sempre più convincendo che scrivere sia come percorrere un tratto di strada a passo svelto. Per farlo con felicità (e profitto) non si può partire sapendo già dove si arriverà e, soprattutto, cosa si potrà (o dovrà) vedere.
Bisogna anche sapersi lasciare andare: ai rumori improvvisi, agli odori, alla luce che sbuca repentina dai rami o da dietro un gigantesco masso che porta ancora su di sé i segni del trascinamento morenico. Bisogna essere capaci di guardare tutto così come ogni cosa "merita" di essere guardata, e cioè secondo le proprie peculiarità.
Alcuni scrittori mi danno l'impressione di non riuscire a farlo del tutto; semplicemente perché, a volte, sembrano non raccontare per se stessi, per il proprio piacere (come sono assolutamente convinta si debba fare), ma per piacere ad altri. Ed è a questo punto che subentra quasi sempre la forzatura, la frase "ad effetto", il dettaglio che manda a monte qualche bella pagina precedente. Fortunatamente in letteratura sembra vigere la regola che circolava, non scritta, fin dai primi nostri anni scolastici: e cioè che, come per la lingua italiana, sono più valide le eccezioni che le regole. Ed è così, dunque, che molti scrittori sono pronti a smentirmi, con mio sommo gaudio.

Non ho citato le "regole" e non citerò le "eccezioni", ma ogni nuovo autore, ogni nuova opera che "scopro" ed a cui vado incontro con entusiasmo (parlo di quelle appartenenti al folto "catalogo" delle eccezioni, appunto), è per me un universo nuovo, una nuova "lingua" da scoprire ed imparare, un suono che mi affascina, una luce che mi incanta. Come una delle mie appassionanti passeggiate quotidiane, queste opere sono tanto varie da rendere la noia impossibile.

Vorrei concludere queste mie (forse inopportune) frasi in libertà ricordando in proposito un pensiero di Anna Maria Ortese la quale, in un'intervista a se stessa risalente al 1977, ebbe a dire:

"...Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. E' tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive e legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando - per ragioni pratiche - è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. E' povero, e rende la vita più povera...".

Non so se sono una devota "applicatrice" di tale precetto, quel che so è che faccio di tutto per metterlo in pratica (naturalmente per quanto riguarda il mio ruolo di lettrice; non mi permetterei mai, infatti, di usurpare un ruolo non mio...).

°

- ...Dove vai?
- Mah... Non lo so.
- Allora andiamo dalla stessa parte...


Jean (Jean Gabin) a Nelly (Michéle Morgan)
ne Il porto delle nebbie di Marcel Carné

8 aprile 2005

Da "voyages sentimentales" su Aletheia
Akatalepsia


Jean Gabin e Michéle Morgan ne: Il porto delle nebbie


2 commenti:

Solimano ha detto...

Il brano di Clelia è, come suo solito, lieve e denso. E' un abito, non un'abitudine. Il protect me from what I want è verissimo per lo scrivere ed anche, in modo più simile che diverso, per il leggere.
Non c'è nulla di male ad avere delle aspettative: essere apprezzato da quella certa persona (nome e cognome, soprattutto il nome) o volere che un certo autore ti dica le cose che vorresti ti dicesse. Sono due esempi di aspettative molto diffuse, ma sono tutt'altro che i soli.
Però il vero piacere totale, compresa la fatica che comunque c'è, è quando scrivi perché l'obiettivo è inerente a quello che stai facendo: scrivere, appunto. E così per la lettura, perché mettersi in condizione di essere sorpresi significa rispettare chi si legge al punto di lasciare che dica quello che vuole lui, non quello che ci aspetteremmo noi. Lo dico non per umiltà di lettore, ma per furberia autogratificante: la sospresa - generalmente non di trama ma può anche esserlo, perché no - è la chiave per entrare in quella stanza. Che poi, quella è una stanza che c'è sempre stata in noi, solo che non lo sapevamo. C'è una componente di gioco che è indispensabile, un gioco che non esclude la fatica: a nascondino è bello, solo che hai dovuto arrampicarti qua, infilarti sotto il letto là. Se tu non lo facessi, il gioco il nascondino non sarebbe così bello, perché lo scopo è farsi prendere, ma solo quando lo decidiamo noi, non perché, avendo proceduto poco attenti, non ci siamo nascosti bene.

saludos
Solimano

gugl ha detto...

mi hai fatto ricordare le passeggiate solitarie di rousseau, solo che lui non aveva la calma interiore che hai tu.

bacio