Papà
di Roby
Il 20 luglio 2006 il Controllore Universale ha staccato l'ultimo biglietto (I classe, sola andata) per mio padre, Mario, sardo di Cagliari, ariete di segno zodiacale e di testa.
Una testa dura ed un bel caratteraccio, autoritario, permaloso, a volte tagliente fino a ferirti.
Quando fu pubblicato il mio primo articolo post-laurea, su una rivista del settore, glielo portai a leggere festante e lui, spietato: "Ma ti hanno pagato per questa roba?" "Veramente no, papà..." "E allora, a che serve???".
Ragazzi, era il 1985, e in fondo a quelle due paginette c'era il mio nome e cognome, sotto gli occhi di tutti i pochi -ma buoni- interessati!
Insomma, un tipo tosto, il babbo. Uno di quei padri che, quando le mie sorelle ed io tornavamo da scuola con un bel voto in pagella, si limitava a dire, asciutto, che “avevamo semplicemente fatto il nostro dovere”: ho detestato a tal punto questa frase, da bambina, che mi sono ben guardata dal ripeterla a mia figlia in casi analoghi, cadendo probabilmente nell’eccesso opposto.
Al contrario, il mio 4 in matematica alla fine della prima liceo classico, con inevitabile rimando a settembre, fu accolto da papà alla stregua di un lutto familiare, tanto che ancora adesso me ne vergogno come di un’onta incancellabile.
Finchè nel 2001, poco dopo la caduta delle torri gemelle, ci accorgemmo che qualcosa stava crollando anche nel suo cervello. Cominciò col ripetere più volte le stesse cose nello spazio di mezz'ora, poi un giorno mi chiese: "Ma tu ti sei laureata, poi? Davvero??? E con quanto?" per arrivare a informarsi su quando mi sarei sposata ("Papà, io e Stefano siamo sposati dal 1987, ti ricordi?" "Ah, già... che stupido!...").
Il tempo passava. E tutto cominciava a diventare difficile per lui. Vestirsi, lavarsi, farsi la barba, espletare le funzioni fisiologiche più elementari erano operazioni che richiedevano a lui un tempo ed una concentrazione infiniti, a noi una pazienza estenuante. Iniziarono le visite mediche specialistiche, i consulti, i controlli, la TAC. Il responso fu: cerebropatia vascolare, una delle tante forme di demenza senile. "In un certo senso, siete fortunati" ci dissero i dottori, allargando le braccia "Se fosse stato Alzheimer, sarebbe stato peggio!"
Passavano i mesi, passavano le stagioni... Ma che cos'era ormai una stagione per lui? Ripeteva i nomi dei giorni della settimana, tentando di ricordarne la successione, come un bimbo dell'asilo. Ripeteva i nomi delle cose intorno a sè, come per imprimerseli nella memoria. Ma l'hardware e il software del suo cervello erano già minati da un "virus" letale. Stava prendendo forma uno dei miei peggiori incubi: dover assistere alla lenta, inesorabile, straziante morte “mentale” di una persona in apparenza ancora viva, con cui fino a poco tempo prima potevi ancora permetterti il lusso di discutere, di litigare, di tagliar corto con un brusco: “Papà, non mi rompere!”, sicura che poi il discorso si sarebbe riallacciato, come sempre.
Iniziò la fase dell’aggressività immotivata, della quale i medici ci avevano parlato e di cui fece le spese soprattutto la mamma, oggetto di scoppi d’ira improvvisi e di un insospettabile turpiloquio. “Non è possibile” si lamentava con me, incapace di convincersi che fosse davvero malato “me lo fa apposta: ha nascosto chissà dove il portafoglio pieno di soldi e ora dice che glieli ho rubati io!”. Diventò inevitabile ricorrere ad una persona che ci aiutasse a gestirlo, in parole povere ad una “badante”, benchè il termine sia senz’altro riduttivo per definire chi passa gran parte della giornata –e talvolta della notte- a seguire passo passo qualcuno che rifiuta di lavarsi per settimane, che trascorre ore ed ore a vuotare e a riempire i propri cassetti, che si ostina a infilarsi a letto con calzini e scarpe e che urla bestemmie se lo si contraddice.
Infine, anche la capacità di parola del babbo (proprio lui, così chiacchierone quando -come si dice a Firenze- era "nei suoi cenci") diminuì fino a ridursi ad un farfuglio di sillabe, ad un ripetere continuo frasi fatte ("Sì-sì, è logico", "Benissimo, grazie", "Tutto regolare, vero?"), aggrappandosi a quei pochi concetti che ancora riusciva a mettere insieme.
E si arrivò così all'estate del 2006, l'ultima della sua vita. La barba lunga come quella di Fidel Castro, l'occhio mezzo spento e mezzo implorante, il pigiama ormai stazzonato appeso alle spalle magre e ingobbite... Entrando in camera sua, lo trovavo a letto, ma sveglio, che fissava il soffitto. "Papino! Ciao! Come stai? Vieni a mangiare qualcosa con noi?" Mi guardava per qualche secondo, sforzandosi di ricordare chi ero, poi -intontito dai sedativi che gli impedivano di urlarci contro appena ci avvicinavamo- mormorava: "Oh, ciao... sì-sì... ti ringrazio tanto... ti ringrazio tanto..."
Ti ringrazio anch'io, papà. E stammi bene: ovunque tu sia.
1 commento:
Sto piangendo.
Con mio padre non è stato così, ma l'ho visto morire, in ospedale, aggrappato ad un respiro.
Ciao, grazie, A.
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