Andrei MAKINE, La donna che aspettava (tit.orig. La Femme qui attendait), traduz. dal francese di Anna Maria Ferrero, p. 132, Einaudi collana Arcipelago, ISBN 88-06-17226-3
Andreï Makine è uno scrittore francese di origini russe (è nato in Siberia nel 1957), arrivato in Francia dalla ex Unione Sovietica nel 1987. Ha pubblicato parecchi romanzi con uno dei quali -- Il testamento francese -- ha vinto nel 1995 i prestigiosi Prix Goncourt ed il Prix Médicis.
Nominato anche membro dell'Academie Française è oggi considerato uno degli autori francesi contemporanei più interessanti.
Makine è un autore che mescola con una modalità molto singolare i due mondi lontanissimi della Francia e della Russia: è infatti un russo che scrive in francese, che vive ed è naturalizzato in Francia ma che ambienta i suoi romanzi nella russia post-staliniana.
Questo La donna che aspettava --- titolo originale La Femme qui attendait --- è del 2004 ed è il suo primo romanzo che leggo. Ho già in lista gli altri perchè la lettura di questo libro mi ha catturata e sono decisa ad approfondire l'universo di quest'autore.
Il romanzo è ambientato negli anni Settanta ed è la storia -- narrata in prima persona -- di uno scrittore di Leningrado che a ventisei anni, stufo dei circoli di letteratura dissidente che frequenta e nell'attesa di terminare una sua satira sulla società sovietica, coglie al volo l'offerta di un collega di andare a Mirnoe, una sperduta cittadina della regione di Arcangelo, per fare una ricerca sui costumi locali in tema di cerimonie nuziali e funerarie. Qui incontra la quarantenne Vera.
La donna conduce una vita ritirata in una casupola vicino al Mar Bianco, fa la maestra elementare ma soprattutto si occupa delle vecchie del villaggio che la guerra ha reso vedove e sole al mondo. Vecchie che aspettano solo che la morte arrivi anche per loro.
Vera è la donna che aspettava: nel 1945 infatti, appena sedicenne, ha visto partire per la guerra il ragazzo che amava. Un primo amore mai più tornato ma che lei continua ad aspettare nonostante siano ormai trascorsi trent'anni.
Il romanzo racconta la fascinazione del narratore verso questa donna enigmatica: Vera ci appare soltanto attraverso lo sguardo del narratore e la sua immagine muta continuamente a seconda del mutamento dei sentimenti, delle percezioni, delle costruzioni mentali di lui. Non c'è dunque una sola Vera, nel libro, ma tante. Per esempio: con supponente convinzione il protagonista dà per scontato, vedendo alcuni libri di linguistica nella povera casetta di Vera, che si tratti di volumi da lei trovati in qualche casa abbandonata dei dintorni e esposti lì per una sorta di pretenziosa esibizione di arredamento... salvo poi scoprire che questa maestra elementare che va in giro a piedi nudi e con addosso un logoro cappotto militare ha condotto all'università di Leningrado lunghe e complesse ricerche di linguistica. Nella prima parte del romanzo, di Vera non sappiamo nulla se non che continua ad aspettare il suo uomo partito per la guerra. Nella seconda parte riceviamo invece molte informazioni ma le tante altre scoperte che il narratore fa (e noi con lui) rendono la conoscenza di questa donna, paradossalmente, sempre più sfuggente e inafferrabile.
Non riusciamo neanche ad essere certi delle vere ragioni dell'attesa: si tratta di una scelta consapevole di Vera oppure, molto più banalmente, la sua solitudine è dovuta al fatto che la guerra ha determinato, in quel villaggio alla periferia dell'impero, la scomparsa quasi totale degli uomini validi?
La critica di Makine alla realtà sovietica è feroce. I suoi abitanti sono ridotti a "ingranaggi assonnati" totalmente in preda a decisioni ed eventi di cui non possono essere protagonisti attivi, ma solo strumenti passivi e rassegnati.
Ancora più tetra è la vita a Mirnoe, luogo dove il tempo sembra essersi fermato e dove convivono i disastri prodotti dalla guerra e l'attesa rassegnata della morte. Molte le donne anziane accudite da Vera. Pochi i bambini che nascono, numerosissimi gli invalidi, gli alcolizzati, tante le famiglie distrutte.
Ma a mio parere la bellezza di questo libro sta altrove: nel lirismo delle descrizioni dei paesaggi, nella capacità di rendere la mutevolezza delle atmosfere psicologiche tra i due personaggi principali del romanzo e soprattutto, forse, nella affascinante inafferrabilità di Vera.
Perchè troppo spesso, ci dice Makine "le parole, spesso pretenziose e categoriche [...] dissezionano, stabiliscono, classificano. Tutto diventa comprensibile e rassicurante [...] Il mistero dell'altro è addomesticato". In realtà, il tentativo di razionalizzare "è una specie di assassinio, perchè uccidiamo quella creatura infinita ed inesauribile che abbiamo incontrato. Preferiamo aver a che fare con una costruzione verbale piuttosto che con un essere vivente..."
lunedì, 14 maggio 2007
Da NonSoloProust
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