A 16 anni ebbi due incontri fondamentali: Anton Cechov e i De Filippo.
Zio Vania mi stravolse. Trovare li, scritte su una pagina, nella sublime sintesi dell’arte, le mie malinconie, le mie impotenze, le mie lagrime notturne; e le mie speranze disperate, le improvvise gaiezze, le ribellioni abortite, la stanchezza; e la volontà, malgrado tutto, di vivere e di affermare la mia esistenza! Che incontro sconvolgente!
Cechov agì da catalizzatore delle mie ambizioni ancora informi, del mio straziante bisogno di esprimermi. Diede corpo e parola armoniosi all’inarticolato mugolìo che mi dissonava dentro: decise della mia vita. Avrei fatto del teatro. Compresi che recitare era per me l’unico modo – come dice Eduardo – per vivere sul palcoscenico la vita vera, quella che gli altri, nella vita, recitano malamente.
Eduardo, appunto. Mia madre era stata amica d’infanzia dei tre fratelli. L’amicizia non si era dissolta con gli anni. Nel 1939, l’anno di cui sto parlando, i tre De Filippo erano già gli attori e autori affermati le cui stagioni al Teatro Quirino di Roma significavano una serie di tutto esaurito.
Titina era ospite in casa nostra. Non dimenticherò mai la sua tenerezza verso di me, la sua arguzia venata di malinconia, quel suo comprendere tutto con un pudico riserbo così poco napoletano, quella sua profonda indulgenza che si travestiva da pigrizia ma che era, lo capii più tardi, autentica saggezza. E che grande, grandissima attrice. Mai più, nessuna, né in Italia, né all’estero, mi ha dato le emozione che lei suscitava con una parsimonia e insieme una genialità creativa che non ho mai più incontrato.
Di giorno talvolta mi portava con se a Cinecittà dove girava con Eduardo “Ma l’amor mio non muore” che segnò il debutto di Alida Valli. Come era bella Alida! Aveva pochissimi anni più di me, ma mi appariva irraggiungibile e mitica, come una dea. Alida era, naturaliter, una star. La guardavo con ammirazione distaccata, scevra d’invidia. Io non volevo essere una star. Volevo essere un’attrice.
Quasi tutte le sere ero fra le quinte del Quirino o in platea, seduta sui gradini ricoperti di moquette verde. A volte, Peppino o Eduardo inventavano delle nuove gags per me, ammiccando nella mia direzione, e io ne ero deliziata, ridevo fino alle lagrime.
Era un riso importante, liberatore, in cui si convogliavano, al di là della consapevolezza, aspirazioni, speranze, sensualità, ricchezza nel dare e nel ricevere, complicità, felicità del rapporto. Da allora le mie risate vere, non il sorriso di simpatia o il risolino di convenienza, ma le vere risate che salgono su dal profondo, sono sempre state come quelle, intrise di lagrime.
Negli intervalli ero sempre su nei loro camerini. Doveva essere una bella seccatura, per loro, quella ragazza ardente e timida che se li covava con gli occhi. Ebbene, mai che mi abbiano fatto sentire un’intrusa o un’ospite indesiderata.
Quando partirono da Roma scrissi ad Eduardo un tenero biglietto di gratitudine. Mi rispose subito.
Scriveva ( cito le sue parole a memoria dopo tanti anni!) : “Sono giunte le tue parole all’isola della mia vita. A guisa di piccolo drappo bianco agito in aria un po’ di fantasia, rimasuglio d’infanzia, a segnalarti gioia di naufrago ritrovato.”
Più tardi Peppino scrisse su Il Messaggero nel 1958
Più tardi Peppino scrisse su Il Messaggero nel 1958
Dal sito di Anna Proclemer
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