RESTAURI
La reggia costruita dai Savoia nel Seicento era consegnata al degrado dall' 8 settembre del 1943. Rinasce Venaria Reale, la Versailles italiana. In dieci anni recuperati la Reggia di Diana, la cappella, scuderie, pescheria e parco.
Santa Politica ha fatto un miracolo: in una manciata di anni, meno di quelli spesso insufficienti a costruire un cavalcavia, ha riscoperto, recuperato e regalato agli italiani e al mondo intero una delle più grandi, belle, sfarzose regge di caccia del pianeta. Era un rudere La Venaria alle porte di Torino: è una meraviglia. E allora viva Romano Prodi e viva Silvio Berlusconi, viva Enzo Ghigo e viva Mercedes Bresso e viva Walter Veltroni e Giuliano Urbani e Carlo Azeglio Ciampi e Sergio Chiamparino e i sindaci Giuseppe Catania e Nicola Pollari e insomma viva la destra e viva la sinistra. Ti prende una felicità furente, a vedere cosa hanno fatto, insieme. Un misto di fierezza e di rabbia. Fierezza perché mai si era visto negli ultimi decenni, in Italia, uno sforzo corale di queste dimensioni in cui sono stati messi soldi e intelligenza, cultura e saggezza, abilità artigianale e agilità burocratica. Rabbia perché il risultato di questa collaborazione è così stupefacente che ti domandi cosa sarebbe, questo nostro Paese, se la stessa generosità istituzionale dimostrata a Venaria, senza gli insopportabili distinguo e gelosie, dispetti e odii tra partiti e coalizioni, venisse dispiegata sui mille fronti che irritano e angosciano gli italiani. Tutto cominciò una sera di aprile del 1996. Quando, reduci da un comizio alla vigilia delle elezioni, il futuro ministro dei Beni Culturali Veltroni finì a cena con Fassino e un gruppo di amici di Venaria Reale. Il discorso cadde sulla sventurata reggia costruita dai Savoia a partire dalla metà del Seicento. Si trattava anzi di qualcosa di più che una reggia: era un unicum che, voluto da Carlo Emanuele II e progettato da Amedeo di Castellamonte lungo una via Maestra, comprendeva il Borgo Antico che ha il cuore nella stupenda piazza dell' Annunziata (la cui pianta ricorda il Collare dell' Annunziata, tra le massime onorificenze dei Savoia), il grande parco de La Mandria e i giardini, ormai distrutti, intorno alla residenza. Bevuto il caffè, finirono per avventurarsi tutti tra pavimenti divelti e calcinacci e alberi cresciuti sui tetti, al buio, impugnando una torcia, nel ventre della dimora che cadeva in pezzi. I ciceroni spiegarono che quei ruderi erano ciò che restava di due secoli di degrado, dalle razzie napoleoniche alla trasformazione in caserma, al progressivo abbandono e allo stupro dei saccheggi che, dopo l' 8 settembre 1943, fecero sparire ciò che ancora restava degli sfarzosi arredamenti. Fino all' ultima tappa: la «conquista», negli anni del boom, da parte di centinaia di immigrati meridionali o veneti che, venuti a cercare fortuna nelle fabbriche, occuparono tutto ciò che potevano facendo della reggia e delle scuderie in rovina la loro casa. Veltroni, ricorda Andrea Scaringella che alla reggia ha dedicato un libro ricco di aneddoti (La Venaria Racconta. Viaggio letterario tra citazioni e taccuini, edizioni Ananke), ne tornò sconvolto: come poteva un paese serio lasciare che crescessero gli alberi sui tetti di una maestosa residenza più grande di Versailles? E appena ministro mise in moto un' operazione che nel giro di pochi anni avrebbe dato vita, col concorso davvero di tutti, al più grande, ambizioso ed efficiente cantiere culturale d' Europa. Un immenso formicaio di cinquanta cantieri costati complessivamente duecento milioni di euro che, sotto l' occhio di Francesco Pernice e Alberto Vanelli, ha coinvolto un centinaio di progettisti, un altro centinaio di esperti tecnici e scientifici, 800 muratori, falegnami, idraulici e artigiani vari. Spostati gli ultimi militari, hanno abbattuto le caserme e i magazzini costruiti là dove un tempo c' erano i giardini. Demolito le pareti che li tappavano spalancando alla luce gli enormi finestroni della spettacolare Citroniera dove venivano ricoverati d' inverno gli alberi di agrumi e le piante più delicate. Scavato fino a ripristinare la Grande Peschiera lunga 250 metri e larga 50 e capace di accogliere 11 milioni di litri d' acqua. Messo mano alla ricostruzione di 80 ettari di giardini, arricchiti dalla posa di 40 mila piante grandi e piccole e collegati come un tempo ai 3 mila ettari de La Mandria. Recuperato 8mila metri quadri di scuderie, destinandone gran parte al Centro per la Conservazione e Restauro che, presieduto da Carlo Callieri e dotato di grandi spazi e tecnologie d' avanguardia, si è imposto come uno dei più grandi poli di restauro al mondo e si è fatto subito carico di restituire alla sua bellezza originaria i grandiosi quadri del ciclo delle scene di caccia che, dipinti da Jean Miel, erano finiti arrotolati in una cantina del torinese Palazzo Madama. Per non dire del cuore del sistema monumentale, la Reggia di Diana. Dove sono stati recuperati o rifatti (quando proprio non si poteva recuperare nulla) 80 mila metri quadri di pavimenti, restaurati 5 mila metri quadri di stucchi e di affreschi. E dove è stata restituita agli antichi splendori la chiesa di Sant' Uberto, che sarebbe ridicolo definire cappella di corte essendo grande quanto la basilica di Superga. Fino alla rinascita del gioiello più luminoso, la Galleria Grande, nota anche (erroneamente) come Galleria di Diana, ideata come Sant' Uberto e parte della reggia nella sua versione barocca del 1716, da Filippo Juvarra. C' era da piangere di disperazione, a vederla anni fa. Vedendola sfolgorante di bellezza dopo il restauro, Carlo Azeglio Ciampi restò senza fiato. E guardando ai giardini, cominciò a declamare L' Infinito: «Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete ».
Gian Antonio Stella
(1 giugno, 2007) Corriere della Sera
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